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Iscrizioni alla scuola di recitazione

Ferai Teatro riapre le iscrizioni alle classi di recitazione della scuola “Il mestiere dell’Attore” da lunedì 4 ottobre 2021 sotto la direzione di Ga’ e Andrea Ibba Monni: sarà possibile provarle tutte gratuitamente per tutta la settimana!

Le classi sono concepite in modo da dare la possibilità a chi partecipa di cominciare o di approfondire l’arte della recitazione: si metteranno in risalto le qualità e le competenze già in essere e si trasmetteranno nuove abilità stimolando la fantasia e studiando alcune teorie e le tecniche del teatro. Ogni classe non supererà il numero di 20 unità per garantire spazio fisico e la gestione e un ottimo rapporto uno-ad-uno tra partecipante e insegnante.

DOVE SI TROVA? I laboratori si svolgeranno presso la Silvery Fox Factory (via Dolcetta 12, Cagliari, clicca qui per visualizzare su google maps) rispettando le normative anti-Covid vigenti. Lo spazio è di 300mq per 8 metri di altezza.


QUANTO COSTA? Abbiamo deciso di non aumentare il costo del laboratorio, un prezzo ancora fermo dal 2014 e che risulta essere sempre meno della metà di qualunque altro laboratorio professionale di Cagliari: si pagherà l’equivalente di una quota di 30 euro al mese, ossia 75 euro ogni 10 settimane.

QUALI SONO LE CLASSI TRA CUI SCEGLIERE?

CLASSI PER TUTTƏ

Classe Kammerspiele, teatro tradizionale. Dai 4 anni d’età in su.
Ogni lunedì (dal 4 ottobre) dalle 19:00 alle 20:50; docenti: Ga’ e Andrea Ibba Monni

Classe La Fenice, teatro tradizionale. Dai 4 anni d’età in su.
Ogni lunedì (dal 4 ottobre) dalle 21:00 alle 22:50; docenti: Ga’ e Andrea Ibba Monni

Classe Odeon, teatro tradizionale. Dai 4 anni d’età in su.
Ogni martedì (dal 5 ottobre) dalle 17:00 alle 18:50; docenti: Ga’ e Andrea Ibba Monni

Classe Drury Lane, teatro tradizionale. Dai 4 anni d’età in su.
Ogni martedì (dal 5 ottobre) dalle 19:00 alle 20:50; docenti: Ga’ e Andrea Ibba Monni

Classe Abadìa, teatro performativo. Dai 4 anni d’età in su.
Ogni venerdì (dall’8 ottobre) dalle 19:00 alle 21:00; docente: Ga’

CLASSI DIVISE PER ETÀ

Classe Senilia, teatro tradizionale. Esclusivamente dai 60 anni d’età in su.
Ogni mercoledì (dal 6 ottobre) dalle 15:00 alle 16:50; docente: Francesca Cabiddu con Andrea Ibba Monni

Classe Baby Ferai, teatro tradizionale. Esclusivamente dai 4 ai 10 anni d’età.
Ogni mercoledì (dal 6 ottobre) dalle 17:00 alle 18:50; docente: Francesca Cabiddu con Andrea Ibba Monni

Classe Puerilia, teatro tradizionale. Esclusivamente dai 10 ai 14 anni d’età.
Ogni venerdì (dall’8 ottobre) dalle 17:00 alle 18:50; docente: Francesca Cabiddu con Andrea Ibba Monni

COME PUOI PARTECIPARE?

Riserva il tuo posto scrivendo nome, cognome, contatto telefonico via email a [email protected] o via WhatsApp/Telegram/SMS al 3755789748

Sarà possibile frequentare più di una classe pagando la seconda classe solo metà del prezzo se ci saranno posti disponibili da lunedì 18 ottobre (ossia dopo la settimana di iscrizioni).

Diario di Ilenia – 12 ottobre 2020

Lezione 2: il copione

Lunedì 12 ottobre ore 21.00 classe La Fenice

Non tutti sanno che, durante la quarantena, abbiamo continuato a lavorare al testo di Fiori di Pesco, con lezioni online ed esercizi a distanza.

Circa una volta alla settimana, in solo collegamento audio, abbiamo provato il copione.

Ora, il copione è stato modificato, alcuni interpreti sono cambiati, lo stesso i ruoli, le battute, ma tante cose sono le stesse della stesura di Marzo.

Ieri, dal vivo, sentire le voci che per tre mesi avevo sentito solo in cuffia è stato uno strano brivido.

Mi sono accorta che da Marzo a Giugno questo testo è stato parte della mia quotidianità, che la sonorità delle parole, le pause delle battute, i respiri, i concetti, le intenzioni, di Fiori di Pesco, sono sedimentati dentro di me, stratificandosi.

Ma alcuni interpreti sono cambiati.

Ed è stato come sentire qualcosa che mancava, come una riunione di famiglia senza uno zio, senza una cugina.

C’erano però nuovi attori.

E si creeranno nuove energie, nuove sintonie, nuovi scambi, stimoli, spunti.

Ieri eravamo tutti un po’ nervosi, ma è stato bello. Confortante come qualcosa di conosciuto, stimolante come qualcosa di sconosciuto. 

Mancano 19 settimane a Fiori di Pesco.

Parentesi: Cell di Dragon Ball Z

Quando parliamo con le mascherine, sembriamo tutti Cell di Dragon ball Z.

È divertente. È un nuovo modo surreale di fare ogni cosa. Le labbra non si vedono e se sei un pochino sordo non puoi più fare vitale affidamento sui movimenti delle labbra per capire ciò che gli altri dicono.

Sembriamo tutti Cell.

Bisogna guadagnare silenzio intorno a noi per disporci meglio all’ascolto: anche questa è una novità che ci può accrescere. 

Chiusa parentesi.


Le voci degli artisti: Andrea Andrillo (di Andrea Ibba Monni)

Come posso essere imparziale nel parlare di Andrea Andrillo? Non posso, non voglio. Lo amo e lo ama chiunque lo conosca e chi non lo conosce non ha idea di che sfortuna lo ha colpito. Artisticamente si può rimediare iscrivendosi al suo canale YouTube (CLICCA QUI) umanamente basta andare a una sua serata, perché come i più grandi, i grandissimi, lui è avvicinabilissimo. Un difetto ce l’ha ed è imperdonabile: si sottovaluta troppo.

ANDREA IBBA MONNI – Oltre che a livello umano io ti stimo tanto dal punto di vista professionale e come scriverò nell’intervista sei uno dei pochi intervistati con cui mi sento davvero a mio agio perché ti vivo molto vero, pulsante nel panorama musicale. Quindi le domande arrivano da un fan oltre che da un collega artista, sappilo. La prima domanda è una richiesta d’aiuto: siccome non voglio farti alcun santino cosa posso scrivere di Andrea Andrillo per chi non ti dovesse conoscere …ma anche per chi ti conosce solo musicalmente?

ANDREA ANDRILLO – Mi presento, tecnicamente sono un cantautore, ma soprattutto credo di essere un cantastorie.

Quali storie canti? Come le scegli o come “arrivano”?

Me lo sono chiesto diverse volte.. credo che in questa mia maturità a tratti tormentata avessi bisogno di cantare le persone “insufficienti”. Ho cantato l’amore di un padre sordo che non può cantare per sua figlia; ho cantato le persone ormai prive di una lingua che non riescono a comunicare in un mondo che affonda in Atlantide prima della pioggia. Ho cantato l’angoscia del migrante in Deserti di sale tutto questo in realtà è parte di un quadro più ampio, che col tempo si sta delineando. Forse sto solo cantando le storie dei nostri giorni, compresa la mia.

Qual è la tua storia? Immagino non abbia voglia di raccontarmela ma puoi dirmi almeno se è una storia a lieto fine? È una commedia? Una tragedia?

Il lieto fine, che io sappia, esiste solo se si impara a morire serenamente. La mia storia fin qui è stata una ricerca, però. A fasi alterne, con clamorose cadute, interruzioni nel percorso, problemi fisici che sembravano di volta in volta sempre più pesanti, addii e “ups, sono tornato” …
Nel frattempo ho capito che la mia ricerca come cantante – e come musicista in senso più ampio – era in realtà un bisogno di far chiarezza, di scoprire ciò che mancava.
E così “cercando la voce”, cercando il suono della mia voce, poco alla volta ho trovato me stesso. E mi sono accorto che non si è trattato di una ricerca tecnica, quanto di una ricerca spirituale. Ora, a ben 50 anni, debuttante a 49, con già due dischi da solista alle spalle in due anni, mi appresto a chiudere un cerchio .. e forse a iniziare un’altra fase del viaggio
… almeno credo. Il futuro non è scritto.. non del tutto: è un documentario. Tipo quelli con gli orsi in letargo, le anatre ferite dai cacciatori, il sole che sorge, la pioggia che tempesta la foresta e le formiche che balzano indaffarate da una parte all’altra per non affogare.

Debuttante a 49 anni?

Il mio primo disco è del 2018, otto luglio, il giorno del mio 49simo compleanno. Andrillo nasce fra il 2013 e il 2015 .. piano piano si definisce nel suo stile, mi salva la pelle, perché Andrillo è uno spiritello stronzetto che a volte fa cose belle; e a 49 anni debutta in grande stile. Roba mica da poco eh!

Andrillo” perché? Cosa vuol dire?

Solo un nomignolo che casualmente mi è stato affibbiato da un collega quando lavoravo nel nord Sardegna. Arrivato a Cagliari, convinto che non avrei mai più suonato o scritto canzoni, mi sono dedicato alla musica altrui. “Andrillo” nasce quindi come speaker per una radio web, Radio Level One, nel .. boh? 2011? Non me lo ricordo più. Mi serviva un nome che non fosse il mio nome vero, perché avevo appena iniziato un nuovo lavoro e non sapevo se fosse saggio mischiare la mia vita artistica e privata con la vita lavorativa. Mi è tornato in mente il nomignolo e l’ho usato. Faceva e fa ridere. Ma se lo ricordano tutti. Poi la cosa curiosa è stato ricevere messaggi da alcuni “Andrillo” (veri!) dal Brasile.. ma non sono mai riuscito a spiegare che non eravamo cugini lontani, perché non parlo portoghese e loro non capivano l’inglese. E così la tribù, almeno virtualmente, è diventata subito cosmopolita.

Avevi smesso di suonare?

È successo molte volte. Il mio non è stato un percorso lineare. Non sono mai stato un professionista. Le band di cui facevo parte, il rock elettrico, i due dischi delle mie vite precedenti a questa..i fallimenti, i successi, le pause …tutto è stato prezioso. I fallimenti sono stati i miei più grandi maestri. Ne avrei anche fatto a meno, ma ora che sono me, che non sto in una band e che sono totalmente responsabile di tutto ciò che faccio, mi accorgo che nel rapporto col pubblico, nel mio pormi di fronte alla musica con rispetto, tutto ciò che ho vissuto è stato davvero prezioso.

Poi ci sono anche state pause “fisiche”, dovuti a problemi vari che non stiamo ad elencare; e pause dovute al lavoro, trasferimenti.. tutto fino a che non ho deciso di fare da solo. La grande conquista: credere in sé stessi al punto di fare da soli. Anche questa è stata una grande conquista per me, per quanto possa sembrare banale dirlo così

Se e quando non suoni cosa fai ma soprattutto come stai?

Non benissimo, lo confesso. Il rapporto col pubblico è come una droga. Le persone che vengono ad abbracciarti, che ti parlano .. è tanta roba. Solo chi sa… sa.

Lavoro, bado ai figli, cerco di star sveglio e non addormentarmi in piedi, perché prima del Covid mi alzavo ogni giorno alle cinque per lavorare… Però poi la gioia di afferrare una intuizione, di mettere l’anima in subbuglio per scrivere un testo, o programmare un concerto.. in questi due anni che mi separano dal primo disco ho fatto decine e decine di concerti. Non vedo l’ora di tornare a farne altrettanti e molti di più.

Cosa fa sì che torni a comporre, a imbracciare la chitarra, a cantare dopo una pausa?

Un bisogno ..fisico. Forse le persone profondamente sole fanno questo, non lo so. Cercare di accarezzare il mondo, accarezzare le persone con ciò che hai dentro. Raccontargli storie, prestargli i tuoi occhi. Le mie non sono canzoni facili e io non sono un autore accomodante, piacione. Ma cerco di costruire attorno a me un mondo di relazioni, di persone che si incontrano. In questi anni ho visto persone speciali che vengono ai concerti, ti stanno vicine.. non è esattamente un pubblico, è una comunità, una bozza di comunità. E io ho bisogno di parlare a loro … e di ascoltare loro.

A proposito di ascolto come affronti il doppio ruolo di padre e artista nei confronti dei tuoi figli? Esiste l’esempio e l’educazione all’arte?

Certo, ma esiste anche l’eterna, atavica conflittualità padre – figli (soprattutto maschi), che fa sì che la musica di papà sia “noiosa”. Però poi quando vedono le persone che mi fanno i complimenti sono felici. Ma farli venire ai concerti.. una impresa! Dopo tutto per loro io non sono magia, io sono papà, quello che gli chiede dei fare i compiti e che gli frigge i sofficini a merenda.. non riescono a vedermi – e chissà se accadrà mai – come quello che è arrivato in città con la chitarra a cantare per noi .. Loro mi sentono cantare in casa, mi vedono con la chitarra che cerco di mettere su un pezzo nuovo.. per loro sono un semplice papà canterino. E va bene così, direi. È nell’ordine delle cose.

Come sei arrivato tu a capire che la musica era il tuo mezzo di comunicazione?

Ho iniziato molto presto, poi ho capito perché. Ho cercato di entrare in un gruppo metal a 15 anni, ma facevo talmente schifo.. poi a 17 ho messo su la mia band. E ho rovinato del tutto la voce. A 19 ho incontrato un Maestro, Bruno Lampis, un baritono che lavorava all’Ente Lirico di Cagliari, cui devo tutto, che mi ha insegnato la tecnica di base, che mi ha salvato la voce. E mi ha detto la famosa frase “cerca il suono”. E io ho cominciato a cercarlo, “come un bambino insegue un aquilone”, mi viene da dire .. E man mano che facevo enormi sacrifici per imparare a cantare mi chiedevo perché lo faccio? E ho capito che volevo parlare con le persone, sentirle vicino. Ma la svolta è arrivata quando non mi sono presentato davanti al pubblico per prendere, ma per dare qualcosa. È stato così che è nato Andrillo. E ho capito che la musica era e sarebbe sempre stata l’unica cosa che davvero alla fine ho fatto bene nella mia vita. Strano no? Anche un po’ romantico se vuoi, ma anche no.. chiaroscuri, come in tutte le vite.

A 15 anni cosa ti ha fatto dire “adesso faccio metal” invece che “adesso faccio danza” oppure “adesso faccio teatro” per esempio? La musica: perché?

Credo – ma lo dico per darmi un tono che “credo”, in realtà ne sono matematicamente certo, che fossi un ragazzino con un sacco di guai. Un ragazzino sostanzialmente solo, complicato, ferito. Credo stessi cercando solo di dire alle persone attorno “Hey, lo sapete che esisto?” E’ capitato che un ottimo gruppo già avviato, i Rod Sacred, con i quali mantengo rapporti di amicizia da allora (!) avessero bisogno di un cantante. Era il 1983 o 1984, Jurassic Drillo, capito ? E ho provato. Se dopo il primo provino mi avessero detto “no” e basta, avrei finito lì. Ma mi hanno detto “no, però torna che non siamo convinti del no”. Ed è cominciato tutto. Poi ho anche fatto teatro con Fueddu e Gestu, una compagnia talmente straordinaria che se stesse a New York sarebbero famosi in tutto il mondo. E però fare l’attore.. non riesco a fare l’attore. Mi spiego meglio: non riesco a interpretare il personaggio. Divento il personaggio. E praticamente non ho filtri, non ho difese. Mi può uccidere questa cosa e non ho intenzione neppure di provarci più.

“Se stesse a New York sarebbero famosi in tutto il mondo” e Andrillo invece?

Boh, avrebbe fatto lo stesso cammino frastagliato, ma come l’Andrillo che sta qui – che ha peraltro scelto di stare qui, dopo aver pure vissuto all’estero e persino un po’ a NY – come l’Andrillo che sta qui avrebbe finito con il ritenere più importante il cammino dell’anima al mero guadagno materiale o alla popolarità fine a se stessa.
In questi due anni ho visto il mio pubblico crescere esponenzialmente… ma non sono numeri. Sono persone, sono cammini che si incrociano. Non credo si possa parlare di “popolarità” in questi termini. Chi se ne frega di essere “popolare”. A me interessa questo calore, questo dialogo mai interrotto. E comunque se vuoi diventare famoso, vai, ti spogli alla stazione dei treni e fai l’elicottero per i passanti. Il tuo quarto d’ora di notorietà è assicurato!

Se ti dico che mi fa incazzare che tu non sia conosciuto come credo meriti cosa mi rispondi?

Che è un bel complimento, che ti fa male arrabbiarti per cose senza importanza e che il terzo disco sarà una figata assurda che ti lascerà di sasso e che va bene così.

Andrea Ibba Monni

Le voci degli allievi: Stefano Matta

Ciao Stefano! Grazie per aver accettato questa intrusione! Partiamo con una piccola premessa, Stefano, dicci chi sei, presentati ai lettori del nostro blog.

Ciao, sono Stefano, sono di Cagliari e ho trentatré anni. Sono un musicista ed insegnante di chitarra. La musica è al centro della mia vita insieme a tanti altri hobby tra cui lo sport, il cinema e sono anche di buona forchetta!


Colgo la palla al balzo per chiederti subito come e quando è nata in te la passione per la musica e inoltre… suoni altro oltre alla chitarra?

Sono sempre stato a contatto con la musica fin da piccolissimo grazie ai miei genitori musicisti e ai corsi di propedeutica che facevo durante l’infanzia, ma la vera passione è nata da una parte ascoltando e iniziando a suonare rock da adolescente (gli AC/DC sono stati il top per me), dall’altra più tardi quando studiando in conservatorio ho avuto l’onore di avere dei maestri speciali, uno tra questi in particolare che mi ha fatto capire davvero cosa significa essere un musicista, mi sono appassionato tantissimo e oltre alla musica mi ha dato tante lezioni di vita molto importanti per me.
Chitarra a parte, per hobby e divertimento mi piace cantare, alle medie suonavo il clarinetto, adesso non mi basta più il fiato per farlo. (Ride)


Questo mi incuriosisce particolarmente, Stefano, dopo tanti anni di musica, cosa ti ha portato ad avvicinarti anche al mondo del teatro?

Qualche anno fa ho vissuto un periodo molto difficile della mia vita e questo mi aveva messo davvero in difficoltà emotivamente. Ad inizio 2019, dopo aver visto uno spettacolo Ferai, decisi di provare a fare teatro, perché sapevo che sarebbe stata un esperienza che mi avrebbe fatto crescere e trovare la sicurezza e la fiducia in me stesso che desideravo riacquisire totalmente. Frequentare la classe di recitazione “La Fenice” è stato ed è fantastico, non ci si blocca mai, c’è sempre un dinamismo continuo: in tutti i sensi. Inoltre, è un ottimo ansiolitico per me.


Pensi che la tua esperienza come musicista e cantante sia qualcosa che ti dà una spinta in più anche quando reciti? E viceversa, il teatro ti ha dato qualche dritta per affrontare meglio il pubblico quando ti esibisci con la musica?

Presumo di sì, almeno essermi esibito tante volte su un palco o comunque di fronte ad un pubblico mi ha reso consapevole di quali dinamiche entrano in gioco prima e durante la performance e di sentirmi un po’ più a mio agio. Per la seconda domanda devo dire che sicuramente recitare mi aiuta ad avere forse una maggiore presenza vocale, perché quando si suona è importante anche saper comunicare al meglio con il pubblico. A prescindere, più ci si esibisce e più ci si sente a proprio agio.

A questo proposito, ci racconti un po’ della tua esperienza durante le serate di Open Mic organizzate alla Silvery Fox Factory*? Come ti sei trovato, che esibizioni hai portato?
Agli Open Mic mi sono sempre trovato molto bene, c’è sempre una bella atmosfera. Nelle occasioni in cui ho partecipato mi è capitato di suonare chitarra solista facendo brani in fingestyle come “The Entertiner” di Scott Joplin, in duo chitarra e voce con “Crazy little thing called love” dei Queen o “Personal Jesus” dei Depeche Mode. Ho avuto anche modo di cantare alcuni brani degli HIM e The Darkness. Mi sono sempre divertito insomma, poi è stato piacevole vedere e ascoltare anche gli altri artisti che si esibivano.

Grazie, Stefano, per il tuo tempo! Ho solo un’ultima domanda! Quando sei sul palco, da 1 a 10, quanto ti senti uno “Showman”?

Non saprei, forse 5/6? (Ride). Penso ad esibirmi e a volte neanche mi accorgo di essere lì sul palco.

Ma dai, io ti avrei dato 9 e mezzo/10! È stato un piacere, grazie per questa chiacchierata e per il tuo tempo!

Grazie mille a te, è stato un piacere anche per me!



Ilenia Cugis

Le voci degli artisti: Roberta Locci (di Ga’)

Roberta Locci è attrice, insegnante di recitazione, drammaturga, regista e aiuto-regista, ha una carriera dedicata alla formazione, alla ricerca – come dice lei stessa – non finalizzate a un punto di vista assoluto ma sempre in ascolto di un limite, uno sguardo diretto alle possibilità della ricerca. Nel curriculum di Roberta troviamo nomi celebri, da Claudia Castellucci, Else Marie Laukvik dell’Odin Teatret, Sainkho Namchylak, fino a Zigmunt Molik e questo solo per citare in modo riduttivo alcuni dei tanti, solo per farci l’idea di un’artista che in quanto tale non ha mai rinunciato alla formazione e al confronto continuo con realtà esterne e il cui lavoro ultimamente è direzionato particolarmente alla formazione dei più giovani (anagraficamente parlando) vediamo in che modo, nella nostra intervista.

GA’: Bene, come sai l’intervista verrà pubblicata su OFF il magazine online di Ferai Teatro e come sai ti ho promesso un’intervista assolutamente non-pretestuosa, ma partiamo da una domanda abbastanza pretestuosa per scongiurare il tutto, e la domanda è: Chi è Roberta Locci? Dovessi rispondere io per quel che so, ci sarebbero molte risposte diverse, tanti ambiti, la tua risposta invece… è ?

ROBERTA LOCCI: La risposta è credo semplice: sono quello che vedi tu, quello che vedono gli altri o ciò che non sempre si vede ma che in un modo o nell’altro si manifesta.

Ciò che non si vede, ma in qualche modo si manifesta, potrebbe sembrare un tema artistico che ti è caro più di altri? O sbaglio? Personalmente per esempio mi affascina il lato immateriale delle arti, musica, pittura astratta, arte concettuale in genere, è così anche per te? O … meno?

Sì direi di sì anche se non è assoluto, a volte trovo fascino e bellezza dove non avrei mai detto di poter trovare

Assolutamente, Zappareddu ad esempio (e tanti altri) affermava che “se ti prende, se ti è emoziona” è sempre “primo teatro” che sia uno spettacolo performativo e tecnologico o che sia il più tradizionale Amleto russo. Andando su cose attuali, come stai passando questo periodo, mi fai una sintesi alla russa di come hai passato/passi da artista questa quarantena?

Mi sono FERMATA. Sono sospesa, non so come spiegarti il mio stato, è come se avessi bisogno di stare immobile a guardare. Leggo, guardo film, imparo a cucire, e faccio la badante provvisoria.

Saper cucire è utile in mille occasioni. La badante provvisoria? Dimmi dimmi

La badante è proprio un’esperienza, ho uno zio prete e una zia zitella che vivono insieme e sono entrambi molto vecchi. In questo periodo sono stati “abbandonati” dalla signora che si occupava di loro. Ora ci vado io un giorno sì e uno no. Occuparsi di due corpi fragili e inermi è toccante. Gioco a palletta con lo zio e faccio dipingere la zia. Un mondo sospeso anche il loro.

Un’esperienza, decisamente. A me capita che, avendo più tempo, che oltre allo studio personale, ci sia anche uno strano ascolto, un ascolto diverso della creatività, a te sta capitando? Sentire che ci sono idee nell’aria, che anche se sei ferma c’è qualcosa che cova da qualche parte, oppure è solo un “ferma ferma ferma”?

Per quanto riguarda l’ascolto di ciò che accade è confuso. Mi ritrovo a volte infastidita da alcune idee di “ripresa”, ma la mia testa non è ferma.

Senti, mi racconti, così come ti viene un’esperienza artistica che ti ha segnata, ma che non rifaresti e una che invece rifaresti anche adesso.

Un’esperienza che mi ha segnata… Ora mi/ti spiazzo. Il lavoro con la scuola Meucci lo scorso anno: un lavoro laboratoriale difficilissimo ma che mi ha fatto capire di cosa mi voglio occupare. Ormai da anni sono proiettata al lavoro con e per i giovani e giovanissimi. Scontrarmi con una realtà giovanile così complicata ha risvegliato in me la voglia di cambiare il mondo. Quella che ti spinge verso il processo artistico, la voglia di sporcarti le mani, senza patine, senza voler mostrare, con onestà profonda, intima. Lavorare per dare uno strumento in mano ad altri “di poter dire” per poter esistere fuori dall’etichetta comune. Ecco un po’ questo, l’esperienza artistica che non rifarei invece non te la dico!

Posso almeno immaginarla? Forse posso.

Beh, hai scelta. Scherzo!

Per concludere, visto che il tempo è poco, ti chiedo proprio questo, il tuo prossimo lavoro quindi sarà orientato in tal senso, aldilà che ora siamo fermi, ma la testa no, l’obiettivo è rilavorare con giovani con cui studiare questi strumenti o prenderai qualcosa anche “per te” per un tuo lavoro in solitaria o in compagnia?

Beh lo sguardo è in quella direzione ma non è assoluto. Uso il termine sguardo non a caso. È il suo limite ciò che mi interessa. Quello che di solito non vediamo perché impegnati a mettere a fuoco ciò che ci appare come immagine principale, in fondo qualsiasi progetto affronterò ruoterà sempre sugli stessi concetti. Io lavoro sempre sulle stesse cose in fondo.

Il Teatro racconta le cose della vita, limitate e sempre quelle, ma appunto, non è il concetto, è probabilmente il come, è il limite, lo sguardo di cui parli ciò che fa dire “ricercare ha senso.” Io direi che siamo stati bravissimi a stare nei brevi tempi a disposizione, spero che parleremo dei reciproci “sguardi” presto di persona, anzi, non presto: ma nel tempo giusto.

GA’

Le voci di Ferai: Andrea Mura (di Roberta Mossa)

Ciao Andrea, come sempre, parlaci un po’ di te: come ti presenteresti ai nostri lettori?

Ho 37 anni, nella vita faccio il parrucchiere ma sempre ho svariati hobby in campo artistico, penso alla pittura e al disegno ma anche la costruzione di oggetti, il cosplay, la fotografia, la scrittura e tanto altro, e da qualche anno mi sono avvicinato al teatro. Ho partecipato a varie produzioni Ferai sia come allievo di laboratorio che come regista e attore/performer di alcuni spettacoli di compagnia.

Come hai iniziato a fare teatro?

La risposta è buffa. Ero in un chiosco del Poetto e ho incontrato Andrea Ibba Monni e Ga’. Seguivo già Ferai come spettatore da tempo e mentre chiacchieravamo hanno invitato me e Fabrizio Ippoliotti a partecipare alla lezione di prova della classe di laboratorio la Fenice. Da li… Beh è partito il delirio! Il primo anno ho fatto tre spettacoli, due con la Fenice e uno con la classe del venerdì che faceva commedia musicale. Ho sempre visto spettacoli di vario genere, da quando andavo a scuola alle medie però non avevo mai pensato di recitare. È nato tutto per caso, ma non mi sono mai pentito di aver iniziato… Anche se la mia prima esperienza recitativa fu come tamburino, avevo 8 o 10 anni, per una recita in chiesa! (ride)

La tua esperienza più importante?

Dal punto di vista recitativo mi ha colpito molto sia “Libera nos a malo” (recitavo la parte di Guido Lobina), sia lo Spaventapassere di “Wonderful Oz”. Due personaggi totalmente diversi con cui ho dovuto cimentarmi in due spettacoli consecutivi ma che mi hanno messo parecchio alla prova, entrambi da un punto di vista molto personale. Parlare di certi argomenti ti porta a mettere in discussione alcune cose della tua vita o approfondire dei lati totalmente estranei e non sempre lo capisci nell’immediato: a volte arriva tempo dopo, come una eco lontana. Però ti rimane dentro. La scena tra Guido e Giovanni in “Libera nos a malo” mi colpì talmente tanto che piansi fisicamente sul palco. (Guido e Giovanni erano segretamente amanti e si dicevano addio, ndr). Da un punto di vista fisico, anche emotivo, ma sopratutto fisico, mi ha colpito molto “H168”. Fisico perché a causa di un dolore fisico che ho scoperto essere coliche renali, abbandonai lo spettacolo e rimpiango ancora il non averlo terminato. Ma mi dovevo fermare. L’arte si ferma quando viene meno il controllo del corpo.

Cosa pensi dell’arte performativa?

L’arte performativa ti permette di comunicare utilizzando mezzi multipli, mi piace soprattutto questo aspetto. Puoi utilizzare molteplici materiali, molteplici insiemi artistici mischiando tutto… mi spiego meglio: puoi ballare mentre urli e costruisci qualcosa, o stare immobile o costruire un’installazione in cui vivere qualche attimo indimenticabile o riflessivo. Collegandomi ad “H168” penso a “The Buddah’s Hideway” la caverna che ho fatta di luce e origami.

E… riguardo “H168”?

La mia esperienza in “H168” non la saprei definire. Se mi chiedi se mi aspettavo di vivere quello che ho vissuto ti dico a mente fredda assolutamente no. Sicuramente mi ha colpito, anche artisticamente: ho capito che alcune cose che uno ha in mente non sempre riescono nella pratica come le avevi immaginate, non sempre la gente capisce cosa vuoi dire o ti vive passivamente come spesso si fa nei musei. Ma il bello dell’arte performativa è anche quello! “Rapsodia:Stamina” era concepita diversamente, anche se ho partecipato in minima parte, per me è stata un esperienza più “lineare”, usiamo questo termine.

Concordo sul fatto che “H168” sia stata un’esperienza imprevedibile! Hai dei progetti per il futuro riguardo – anche – il teatro performativo?

Sì, sto lavorando a un progetto, momentaneamente sospeso causa Covid-19 per rischio di assembramento sul palco (ride). È un progetto che sto portando avanti con Ga’, anche a livello di regia e sviluppo perfomance, con la collaborazione di alcuni membri dello staff e un performer esterno a Ferai. Per quanto riguarda i temi trattati, ma non voglio anticipare nulla, sono molto attuali in questo periodo. Spero prima o poi si possa riprendere il lavoro. Il mio rapporto con l’arte è variabile e vario, spazio in molti ambiti in base all’ispirazione e al periodo. La performance teatrale aiuta anche a conciliare tutte queste cose.

Come stai lavorando alla regia di questo progetto? Cosa consiglieresti a chi affronta l’esperienza di regista per la prima volta?

La regia di questo spettacolo sarà un po’ elaborata, poi il progetto è nato da poco tempo perciò ci sono tante cose che dovranno cambiare, è un lavoro che si effettua in corso d’opera. La mia prima esperienza di regia è stata molto particolare: per “Vincenzo, l’uomo diventato Santo” non avevo nessuna nozione di regia, mi sono ispirato ad altre cose che avevo visto ma alla fine come prima esperienza credo sia uscito un lavoro discreto. Solo con “Vincenzo, l’uomo diventato Santo” ho affrontato un’esperienza di regia individuale, adesso invece, sia con “TV all you can eat” (titolo provvisorio) che con lo spettacolo performativo mi sto confrontando con la regia collettiva, che forse è più semplice da un certo punto di vista perché hai la possibilità di confrontarti con altre persone e si riesce a focalizzare meglio attenzioni e idee. Sto ancora esplorando il mondo della regia, l’unico consiglio che darei sulla base della mia esperienza è questo: la prima idea spesso si rivela la migliore e se è forte bisogna portarla avanti. Vedere spettacoli con un occhio diverso aiuta ad imparare tanto e a dare suggerimenti. Sicuramente è più facile gestire una regia per se stessi, rispetto ad una regia che comporta il dirigere altre persone. Gli errori e i fallimenti, come i successi, fanno crescere e capire come non ripetere gli stessi “errori”. Ma la parola errore è relativa, preferisco la parola esperienza.

Roberta Mossa

Le voci degli artisti: Alessandro Pani (di Andrea Ibba Monni)

Lo conosco da quando lo chiamavano “Sly” perché se lo guardi bene ha i lineamenti alla Sylvester Stallone (prima del botox): era la metà degli anni ’90, lui era un giovanissimo uomo e io un vecchissimo bambino fratello di sue due amiche dell’epoca. Si avvicinò in quegli anni al mondo del teatro e mai avrei immaginato di rivederlo quasi vent’anni dopo sul set di C.S.I. Cagliari (qui una foto emblematica della collaborazione), web serie che ha scritto e diretto con quel mostro di bravura che è Filippo Salaris col quale dirige la Compagnia Artisti Fuori Posto (e con il link al loro sito e con tutto quest’articolo mando un saluto a chi dice che i teatranti non si supportano a vicenda). Alessandro Pani dovevo intervistarlo per una serie di ragioni che capirete nell’intervista che segue. Buon divertimento!

ANDREA IBBA MONNI: Qual è il primo ricordo che hai di me?

ALESSANDRO PANI: Io mi ricordo di te all’età di 12 anni, possibile? Quando uscivo nello stesso gruppo di amici con tue sorelle: mi ricordo che stavi un po’ per conto tuo e pensavo ti stessimo un po’ sul culo.

No, ero molto molto timido (come ora ma non riuscivo a nasconderlo) e sapevo che ovviamente loro non mi volevano li tra voi!

Qualche volta ricordo di essere anche venuto a casa vostra perché tua mamma aveva preso delle poesie che avevo scritto per farle leggere a un suo amico poeta, Bruno Rombi. Lui aveva letto le mie poesie e mi aveva detto che secondo lui ero gay. Io gli dissi di no, che quelle cose che avevo scritto intendevano dire altro, ma lui si era fermato alla prima interpretazione che gli era venuta in mente e mi disse “non ti devi vergognare“. E io “ma porcaputt… vabbè hai ragione te“. 

Quando tu chiedi a qualcuno di leggere le tue poesie e lui pretende di leggerti la vita. Olè!

Tra l’altro io non sapevo che al tempo tu facessi o ti stessi interessando al teatro, ti ho rincontrato molto tempo dopo ai Cada Die per il concorso Teatro in Corto al quale avevamo partecipato entrambi.

La prima cosa di Ferai che non era ancora Ferai: io, Ga’ e una danzatrice dell’Isola di Pasqua. Avevamo scelto il nome Make Make Teatro perché ci sembrava una goliardata avere il nome di una divinità pasquense raffigurata con un membro enorme. Finché il presentatore non ci annunciò col nome letto all’inglese, che delusione! Comunque che ne è stato di Alessandro Pani il poeta?

Scriveva per combattere la sfiga e l’inadeguatezza. Una volta che ha capito cosa voleva fare, Alessandro il poeta ha smesso di poetare. Adesso scrivo prettamente sceneggiature per teatro e cinema, mi trovo meglio, mi diverto di più. La poesia è troppo struggente. e io ero di quelli Sturm und Drang. Passavo molto tempo a leggere in quel periodo, leggevo circa 70 o 80 libri all’anno. e scrivevo molto, ma lo sfogo nella scrittura in realtà alimentava lati del mio carattere che mi portavano ad essere cupo, di malumore e talvolta rabbioso. E da quartese che ha fatto molta vita di strada da ragazzino avevo anche una certa facilità a venire alle mani. Ah, che ricordi le risse in viale Colombo, ai giardini di Via Cagliari e in via Brigata Sassari!

Perché hai scelto di fare teatro?

Credo di aver sempre saputo di voler fare teatro. So che è brutto da dire, ma ho iniziato con la recita delle medie, in via Tiziano: decisi che da grande avrei fatto quello. Dopo il diploma compravo sempre l’Unione Sarda per trovare una scuola o dei corsi di teatro. All’epoca non c’era internet e le informazioni non le si trovava facilmente e se non conoscevi qualcuno che faceva già un corso o conosceva una compagnia non sapevi come muoverti Trovai un annuncio dell’Akroama e decisi di iscrivermi. Era il 1998. Da lì non ho mai smesso. Purtroppo non potevo permettermi di spendere molto e dovevo comunque lavorare, facevo il programmatore informatico, quindi prima di vivere di questo mestiere è passato tanto tempo. Solo nel 2007 sono riuscito a mollare tutto ed a dedicarmi alla recitazione come professione

Come nasce il progetto Artisti Fuori Posto e come vi siete scelti?

Artisti Fuori Posto nasce formalmente nel 2011 ma in realtà con il buon Sergio Cugusi ne parlavamo già dal 2008 di tirare su una compagnia Eravamo ancora legati al Riverrun, entrambi lavoravamo lì, poi nel 2010 siamo stati gentilmente invitati a farci da parte e ci siamo messi all’opera per tirare su AFP. 

Il terzo giorno

Filippo è arrivato nemmeno un anno dopo, per andare in scena con me nello spettacolo “Il terzo giorno”. Con Filippo ci siamo conosciuti nel 2008, abbiamo frequentato insieme un corso regionale per attori professionisti e uno stage nell’accademia dell’Arte di Arezzo. Abbiamo capito che eravamo sulla stessa linea e sapevamo che avremmo sicuramente fatto delle cose assieme. Infatti ci siamo ritrovati poi nel 2010 ad Olbia per lo spettacolo sulla boxe che si chiamava “Fuori i secondi” dove interpretavamo due pugili che, dopo essere cresciuti insieme come amici e come atleti, si ritrovano alla fine per un match decisivo dove se le danno di santa ragione.

Io lo so bene e ho le mie motivazioni, tu invece perché hai scelto di fare una compagnia da zero invece che provare a lavorare con/per altre realtà già esistenti?

Il nome Artisti Fuori Posto non è una scelta casuale, nasce proprio dal fatto che con gli altri ci siamo sempre sentiti un po’ fuori posto. Sia io, Sergio e Filippo (ma anche gli altri che sono venuto qualche anno dopo Francesca Saba e Piero Murenu) abbiamo sempre avuto qualche difficoltà a sottostare a quelle che erano le scelte artistiche, le abitudini e i comportamenti del mondo del teatro con il quale fino ad allora avevamo avuto a che fare (eccezion fatta per il Riverrun dei primi anni). Io personalmente non tolleravo il fatto che come artisti spesso le compagnie ci pagassero con mesi di ritardo e nessuno dei miei colleghi attori si lamentasse mai. Io ci mettevo sempre la faccia, mettevo in piedi litigi furibondi (da buon quartese) mentre molti dei colleghi attori subivano certe angherie borbottando alle spalle ma sfoderando poi sorrisi smaglianti davanti alle persone che avevano criticato fino a poco prima.

Artisticamente parlando poi avevamo bisogno di fare anche cose che arrivavano da una urgenza personale (quantunque potessero essere anche cazzate, roba demenziale) mentre in molte compagnie ti ritrovavi a dover sottostare ad una agenda di argomenti e tematiche decisa da qualcun altro, spesso dalla politica. e io personalmente avevo altre direzioni da prendere.

Ti va di parlarne di questo ambiente teatrale sardo? Cosa salvi?

Boh personalmente ho visto tante cose belle prodotte qui in Sardegna, ma anche tante cose molto brutte che non avevano la dignità di essere messe in scena neppure sotto un ponte. Credo che spesso ci si ritrovi a dover cercare di arrivare a fine mese, di far fronte alle spese e a rincorrere i soldi e non si abbia il tempo di fermarsi un attimo e pensare a quello che si sta facendo. Molti spettacoli brutti che ho visto erano tra quelli che dovevano rispondere a temi dettati dall’agenda politica del momento e dovevano innanzitutto rispondere a quelle necessità piuttosto che all’urgenza degli artisti. Credo che dovremmo avere tutti noi artisti la possibilità di avere più tempo per i nostri spettacoli, per le nostre creazioni, molte volte le buone idee sono rovinate dalla fretta e dalla mancanza di risorse.

Eppure basterebbe essere buoni artisti per sposare necessità altrui e non svilire l’arte teatrale, no? O si può fare buon teatro solo se si risponde a una propria necessità?

Per come la vedo io una creazione artistica deve rispondere ad una urgenza dell’artista (di qualunque tipo essa sia) che poi spesso tende a convergere in un sentire comune delle persone. L’artista spesso riesce a dare voce e forma a ciò che nelle persone è una sensazione indefinita. poi può anche capitare che una cosa ci sembra un’urgenza ma in realtà dovevamo solo andare in bagno e infatti esce una cagata.

Qual è lo spettacolo di AFP che rifaresti ora e per sempre se dipendesse solo da te?

La nostra opera prima: “Il terzo giorno(qui il trailer) anzi, appena possibile riprogrammiamo una replica.

Era proprio bello. Come mai quello spettacolo? 

Mi piaceva il discorso che si fa sulle rivoluzioni, sull’idea che abbiamo di andare contro il sistema, di essere dei ribelli e invece il sistema ci riassorbe come se niente fosse. Era un’idea nata dal fatto che durante l’età giovanile che va dalle superiori ai 24 anni capitava di vedere gente, che prima era assolutamente l’emblema della refrattarietà alle regole, diventare modelli di integrazione nel tessuto sociale. Prima tutti stracciati, sesso droga e rock and roll, e poi giacca e cravatta e lavoro sicuro in banca. Sta roba mi faceva uscire di testa!

Qual è e quale sarà il ruolo del laboratorio teatrale a Cagliari nel 2020?

A me piacerebbe trovare il modo per far diventare il laboratorio teatrale davvero ciò che dice la parola stessa: un laboratorio! Dove si lavora e si fa ricerca, per molto più di quello che possono essere i due incontri settimanali (nel migliore dei casi). Purtroppo incontro sempre meno allievi che vogliono fare il mestiere dell’attore, mentre quando ho iniziato io eravamo in tanti e anche molto agguerriti (non tra di noi) e ci siamo conquistati la professione con le unghie e con i denti.

Vorrei invece portarli più ad una dimensione di creazione collettiva. Era molto interessante quelle che avete fatto voi ad esempio in estate: il Baratto Teatrale secondo me è una dimensione molto più utile anche se non sempre è sostenibile economicamente: molte volte si basa tutto sulla disponibilità degli attori e dei docenti, parliamoci chiaro, non tutti sono disponibili a dedicare tutto quel tempo agli altri e molte volte senza un euro in cambio.

Come mai non c’è più la volontà di fare il mestiere dell’attore e soprattutto manca quel senso di lotta?

Molti si arrendono alle prime difficoltà, alla prospettiva di fare un lavoro che non rende economicamente. Ma come dici tu quello che a volta vedo mancare è la voglia di lottare. Ai miei allievi chiedo sempre “Chi di voi vuole fare l’attore o l’attrice professionista?” Quando mi sento rispondere “io credo di si” rispondo sempre “questa è una domanda a cui puoi rispondere solo SI o NO, non esistono vie di mezzo. Se la tua risposta è ‘credo di si’ per me è un NO” Perché se vuoi fare questa strada, come tu ben sai, devi fare una scelta e portarla in fondo nonostante le difficoltà. E sono quasi sempre solo difficoltà. La mentalità è “ma perché mi devo rompere il cazzo?” è figlia di questi tempi dove tutto è già pronto, è già servito. Troppo severo?

Non porta soldi, non porta fama… perché farlo allora?

Per ognuno è diversa. Posso dirti quali erano le mie di motivazioni. Ho lavorato per 7 anni come programmatore informatico in diverse aziende e tutte le mattine mi alzavo maledicendo il creato. Non volevo più svegliarmi arrabbiato la mattina. Da quando faccio l’attore che è ciò che ho scelto di fare e che mi piace (ma poteva essere anche l’imbianchino o lo spazzino) mi sveglio e non vedo l’ora di progettare, creare, fare. Odio i giorni festivi. Del resto fare arte è un lavoro full time senza giorni liberi.

Andrea Ibba Monni

Teatro ai tempi di Coronavirus: Artisti Fuori Posto | Cagliari ...

Gli Artisti Fuori Posto

da sinistra: Filippo Salaris, Alessandro Pani, Piero Murenu, Francesca Saba, Sergio Cugusi

Le voci degli allievi: Cristina Cera

Cristina Cera sei indubbiamente un personaggio di spicco della scuola “Il mestiere dell’attore” di Ferai Teatro. Dicci qualcosa di te e sul perché fai teatro.

Sono una persona innamorata della vita: per questo ho scelto dopo un anno di liceo di iscrivermi in una facoltà umanistica. Sono amante della lettura, dell’arte e della storia Ho 24 anni e cerco la mia indipendenza economica, come tanti. Sono una persona che ha dovuto battagliare contro umiliazioni ricevute ai tempi del liceo e ho una travagliata vita famigliare dopo la separazione dei miei quando avevo nove anni.

qual è il ruolo che il teatro ha nella tua vita di tutti i giorni e viceversa?

Il teatro mi ha salvato la vita! Perché ha fatto conoscere la mia voce che per tanti anni non ho avuto il coraggio far sentire. Il lavoro del laboratorio è stato inizialmente scoraggiante ma dopo un duro ma piacevole lavoro ho scoperto delle qualità che non ero conscia di possedere.

Fare teatro perché?

Perché il teatro, come un Saggio Maestro, è un aureo strumento che insegna ad affrontare appieno la vita, offrendo la possibilità di compiere un viaggio interiore dentro di noi per conoscerci meglio al fine di migliorarci, crescere ma soprattutto amarci per come siamo. Nella nostra imperfezione e nella nostra fragilità siamo degli esseri meravigliosi!

Quale esperienza finora più importante con Ferai

Senza ombra di dubbio l’ultima in “Wonderful Oz” poiché non solo è stata una vittoria circa la raggiunta consapevolezza delle mie sempre dubitate capacità, ma soprattutto per l’ amore e il sostegno sincero che ho ricevuto dalla mia grande squadra, la classe Odeon di cui faccio parte.

N.B.O

Le voci di Ferai: Roberta Mossa (di Ilenia Cugis)

Intervisterò oggi, per voi, Roberta Mossa. Attrice di Ferai Teatro, ha performato durante “H168” ed è stata una delle due protagoniste dell’ultima edizione de “I Monologhi della Vagina”. Roberta non è una gran espansiva, a freddo, ma basta toccare le corde giuste e scoprirete, insieme a me, quanto diventi chiacchierona! Intanto, se non la conoscete, di lei posso dirvi che l’ho vista mangiare una rapa rossa in scena, mentre il succo della rapa le colava lungo il braccio in maniera estremamente sensuale. Alcune volte ho pensato che Roberta fosse troppo bona per fare teatro (mi distraggo a guardarla!), d’altra parte la trovo invece così brava che sarebbe proprio un peccato non lo facesse. Se l’avete conosciuta durante gli Open Mic nei panni di Suor Michelina (foto), capite cosa intendo. Ok, era una pessima battuta. Beh, che dire, buona lettura!

 

Ciao, Roberta! Innanzitutto grazie per aver accettato di passare dalla parte dell’intervistatore a quella dell’intervistato! Come al solito ti chiedo di parlarci un po’ di te, presentati ai nostri lettori.

Ciao Ile, grazie a te per l’intervista! Allora, questa è la parte più difficile. Ho 28 anni, sono nata e cresciuta a Cagliari, sono laureata in Giurisprudenza, il futuro è un po’ incerto soprattutto dopo che è scoppiata una pandemia globale, un po’ come tutti, credo. Vorrei trovare un lavoro che mi permetta di conciliare la passione per l’arte e nello specifico il teatro con quello che ho studiato per anni, ci sto lavorando diciamo!

Come ti sei avvicinata al mondo dell’arte e poi, nello specifico, al teatro?

Praticamente da subito. Da bambina disegnavo ovunque, quaderni, album, libri e persino sui muri, scrivevo storie e volevo diventare una scrittrice. Volevo pubblicare il primo libro a 9 anni ma il tempo passava e non riuscivo a finire il romanzo… Vorrei ritrovarlo, chissà che avevo scritto! Poi c’è stata l’adolescenza di mezzo e mi sono persa un po’. Ho abbandonato le “ambizioni” artistiche, anche se ho fatto il Conservatorio, ma è un po’ come se anziché sviluppare le attitudini artistiche mi avesse abituato al pensiero strettamente logico e ho perso completamente la creatività. Per la cronaca, ero una violoncellista che in realtà voleva essere violinista… Poi quando avevo 22 anni ho sentito parlare di Ferai. Stavo pensando da un po’ di tempo che mi sarebbe piaciuto provare a fare teatro, ero molto timida e sarebbe stata una bella sfida. Quindi ho convinto la mia migliore amica Ilaria a provare il corso di Ferai e ci siamo ritrovate ogni martedì e giovedì in via Ada Negri, e da quel momento non ho più smesso.

Ci dici che avevi 22 anni… quindi correva l’anno…?

2013/2014, l’esito scenico era “Goethe – Faust

Il Faust, andato in scena al teatro La Vetreria, vero? Me lo ricordo molto bene, ero tra il pubblico!

Sì, ricordi bene!

Ci racconti le tre cose più difficili che hai dovuto superare a teatro?

Innanzitutto la paura del giudizio, l’onnipresente giudizio che ti blocca e ti fa avere sempre paura di sbagliare. E non solo il giudizio degli altri, proprio il tuo. Liberarsi dall’ansia di categorizzare tutto quello che fai in giusto o sbagliato, bene, male, mediocre, così così… Che poi associ anche a te stesso queste categorie, cioè se sbagli o se fai male una cosa vuol dire che sei tu incapace e che non vali abbastanza. E invece il vero errore è non fare niente per paura. Andrea e Ga’ mi dicevano sempre che “l’unico errore è non fare” quando all’inizio non volevo fare le cose, tipo “oggi guardo e basta così capisco”, “no, questa cosa non me la sento di farla” e così via. Bene, hai sbagliato e sei ancora vivo, visto? Cioè dovrebbe essere una cosa scontata, ma per me non lo era affatto in quel periodo. Poi la paura di stare al centro della scena, mi nascondevo sempre un po’. Questo per “Habeas Corpus” soprattutto, avevo un personaggio, Anna, che era una super diva, la odiavo moltissimo! (uno degli spettacoli in cui Roberta era così bella da distrarmi, ndr) Si trattava praticamente di mettere da parte me stessa e lasciar agire il personaggio. E poi ultimamente sto cercando di prestare attenzione ai dettagli, niente approssimazione, ma precisione in tutto, soprattutto nei movimenti in scena.

All’inizio, quando ti sei presentata, ci hai raccontato che da bambina sognavi di fare la scrittrice. Ora vorrei chiederti se la passione per la scrittura ti è rimasta e se il teatro in qualche modo ti dà la libertà di continuare a coltivare anche quel “vecchio” sogno.

Sento che non è ancora il momento per scrivere qualcosa di totalmente mio, non so esattamente perché. Però sarebbe bellissimo scrivere un copione. Per ora abbiamo iniziato un esperimento di scrittura collettiva con lo staff di Ferai, finora è stato molto interessante.

Di cosa si tratta questo esperimento di “scrittura collettiva”? Come hai avuto l’idea?

Nasce per caso da una chiacchierata con un amico, eravamo in Marina e stavamo parlando di cosa fare “da grandi” e ci siamo resi conto di trovarci in una situazione molto simile, quella di andare avanti senza sapere bene dove e perché. Quindi ci siamo chiesti se fosse davvero un problema solo nostro, e abbiamo iniziato a dire “anche Tizio ha questo problema, anche Caia in realtà, solo che lei se la vive bene, pensa che la flessibilità sia un’opportunità” e così via, nel senso, secondo noi è una situazione abbastanza comune. E pensandoci ancora meglio, dopo, non è solo precarietà lavorativa, è precarietà su tutti i fronti, emotiva, relazionale, ognuno a suo modo, quindi esistenziale dovrebbe essere la definizione giusta. Se il teatro in qualche modo deve essere attuale, contemporaneo, beh potrebbe raccontare questa condizione, questo senso di smarrimento, dell’impossibilità di controllare tutto e dell’imprevedibilità della vita. E siccome risentiamo molto della mancanza di una comunità, nel senso che devi sempre cavartela da solo a prescindere dagli strumenti a disposizione, viviamo nel mito dell’auto-realizzazione, dell’esaltazione dell’ego ecc ecc, ho pensato che sarebbe stato bello che questo copione lo scrivessimo in gruppo. È bello anche investire le proprie energie in qualcosa che appartenga a tutti e non a me stessa e basta, credere negli altri oltre che in se stessi.

Così, in sei, abbiamo avviato una fase di ricerca libera da condividere con gli altri. Se uno di noi trovava un film interessante sul tema lo consigliava a tutti, stesso discorso per libri, opere d’arte visive, articoli di giornale, qualsiasi cosa. In particolare ci siamo concentrati su interviste a persone che secondo noi avevano una storia interessante, perché volevamo prendere spunto dalla realtà, soprattutto in casi particolari, per esempio abbiamo deciso di affrontare il problema della precarietà nelle disabilità, non volevamo una rappresentazione edulcorata del disabile ma un ritratto psicologico vero per creare un personaggio, non un cliché. Quindi abbiamo raccolto tutto il materiale, lo abbiamo letto e ci siamo fatti una nostra idea dello spettacolo e dei personaggi. E poi, brainstorming per capire cosa scrivere: cioè la trama e le singole scene dello spettacolo. La storia che abbiamo creato è completamente diversa rispetto a quella che immaginavo all’inizio e sono stata molto felice di questo! E infine ci siamo affidati ognuno una scena da scrivere, alcune a due mani. Ora sto rivedendo il copione, sto tagliando e sintetizzando, questo lavoro deve farlo una sola persona perché è più pratico. Tutto ci sto tagliando! Che bello!

Rido. Non vedo l’ora di scoprire il risultato!

Devo dire che per fortuna nel gruppo c’era chi aveva già esperienza nel scrivere copioni in 3/4 persone, altrimenti sarebbe stato più complicato! Siamo quasi alla conclusione, te lo prometto. Adesso, Roberta, ci descriveresti la tua esperienza in “H168” usando solo 12 parole?

H168”! Follia, intensità, fiducia, empatia, rischio, ansia, follia al quadrato, scala rot… Ehm. Euforia, tristezza, paranoia, silenzio, intimità, concentrazione.

Grazie mille Roberta, è stata una chiacchierata molto interessante! Prima di congedarci, un’ultima domanda: Se la tua vagina potesse parlare, cosa direbbe?

Ride. Questa non me l’aspettavo! La mia vagina è una tipa che ha idee progressiste ma sogna il principe azzurro, dice che spera che tutte le vagine del mondo siano felici e che godano sempre moltissimo, anzi è anche un po’ ingenua e si è candidata a “Miss Italia delle Vagine” e dice che il suo sogno è la pace nel mondo, e si augura che le ragazze smettano di fingere gli orgasmi per compiacere i partner e che inizino a conoscersi meglio quindi a masturbarsi senza vergogna e a provare piacere quando, come e con chi vogliono! Direbbe di seguire i propri istinti e ascoltare le vagine che hanno sempre ragione! Che poi… anche se si è candidata per Miss Italia, non vuole lo stesso farsi vedere in pubblico!

Una vagina che quando vuole sa essere una gran chiacchierona, come la nostra Roberta!

Ilenia Cugis

Le voci degli artisti: Sergio Piano (di Ga’)

Sergio Piano è da tantissimi anni professionista del teatro, co-fondatore dello storico teatro “Alkestis” e fondatore del Teatro “Intrepidi Monelli” primo spazio teatrale a sorgere a Sant’Avendrace. Ma tra i sogni del regista non c’era solo quello di poter inaugurare un teatro nel proprio quartiere di nascita, ma anche tanti altri progetti, tante strade che attraversano i diversi generi teatrali, le diverse esperienze del passato, dal teatro di ricerca degli anni 70’ ai laboratori di formazione fino all’organizzazione di festival comici e brillanti; tra tutte queste strade, un punto fermo: mai arrendersi, perché il teatro è vivo e alla portata di chiunque.

Come va Sergio? Grazie per aver accettato l’intervista. Chiacchieriamo un po’ sul teatro che è un argomento sempre buono. Visto che a livello di pratica possiamo fare poco per ora, possiamo soffermarci su qualche riflessione in più, tu e il tuo Teatro “Intrepidi Monelli” come state affrontando questo periodo di sospensione delle attività?

Sospensione, è realmente, sì, un periodo di sospensione. Lo spazio degli Intrepidi aveva moltissime attività e due nostre produzioni in corso di preparazione, ora è tutto fermo. Ma non sono spaventato, al di là delle difficoltà economiche (e tante altre naturalmente) in questi giorni “di sospensione” la testa è andata indietro nel passato, è sorta una voglia di recuperare determinati studi, i miei inizi a teatro, ma anche ridare nuova vita a vecchi progetti.

Quando parli del passato, parli di ciò che c’è stato prima degli Intrepidi Monelli, del teatro di ricerca, la storia del teatro del novecento, da Jerzy Grotowski in poi.

Esattamente, Grotowski, ma anche tutto il contesto, la ricerca fatta muovendosi, a volte isolandosi, studiando sul posto, studiando il teatro dei riti, dei primi rituali, poi i dervisci, e ancora Yoshi Oida, Zygmunt Molik, Ryszard Cieslak. C’è il forte desiderio di riprendere quei materiali.

E questo teatro di ricerca che affonda le radici in un tempo così lontano, oggi è praticabile, fattibile, in che modo? So che hai visto il nostro “RAPSODIA:ORIGINS” che traeva spunto da quel tipo di ricerche rituali, quindi sai bene che la domanda non è per niente disinteressata.

Sì, “RAPSODIA:ORIGINS” l’ho visto, sai bene quindi anche tu che è il teatro di ricerca è realizzabile sempre e sono dell’idea che le cose si evolvono. La ricerca non smette di esistere nel Novecento, ce la portiamo dietro e in qualche modo si evolve perché è diversa la vita oggi ma ripeto, lo sai bene, c’è quella fame, quell’esigenza, quella necessità.

Lo so, infatti “chiedevo per un amico” nel senso: una volta ogni tre mesi più o meno, qualcuno si sveglia e grida questo parere non richiesto “la ricerca teatrale è morta, inutile, non attuabile” e che anche “i grandi Maestri sono morti, non esistono più, quindi tutto è perduto, non esiste più il vero teatro e chi può insegnarlo!”

Ma i grandi Maestri in realtà ci sono, esistono, vanno conosciuti, vanno cercati se non hai la fortuna che ti capitano davanti. Soprattutto l’attore deve studiare sempre, approfondire con sé stesso: un attore che non ha fatto i suoi studi, che non li ha scelti, che non si è formato, in scena lo vedi, lo capisci subito.

Quindi il teatro è vivo e anche chi lo insegna, possiamo tranquillizzare gli scettici.

Ti racconto un aneddoto. Molti anni fa Pierfranco Zappareddu aveva organizzato un laboratorio tenuto da Ryszard Cieslak, l’attore di Grotowski. Eravamo una trentina di allievi, ma tra me e Ryszard ci fu subito un rapporto molto diretto, una grande intesa, verso la fine del percorso mi chiese se volevo seguire io da insegnante un laboratorio all’estero. Io però avevo davvero degli impedimenti gravosi e l’impossibilità di partire, insomma, uno dei miei compagni di quel laboratorio non poteva credere che fossi costretto a rifiutare così. A volte nelle esperienze teatrali capita questo: passa un treno e non puoi prenderlo oppure ti trovi davanti a un grande Maestro, ma in quel momento non ti accorgi o c’è molto altro. Ma se vai a cercare, la tua formazione la trovi, io ho lavorato tanti anni con Claudio Morganti, tuttora vivente, in anni mi ha dato moltissimo, torniamo sempre a questo: che l’attore deve fare un percorso personale molto forte, con molta pazienza, con molta dedizione, senza voler arrivare dal nulla al “tutto e subito.”

Quando ti occupi di una nuova produzione, che caratteristica ha l’attore che ti rimane nel cuore, cosa è in grado di materializzare per te regista, sulla scena?

Tra le tante persone con cui ho lavorato, attori, allievi, devo dire che sono rimasti tutti nel cuore per qualche motivo. Quello che posso dirti è che ti rimane l’attore formato, quello che sa vivere la sua tecnica in scena, che sa farti vivere delle emozioni nel momento, questo non significa per forza l’attore con la dizione perfetta come si è soliti credere o l’attore che scimmiotta quel modo di parlare artefatto: quella è una cosa che non mi è mai interessata e anzi spesso mi annoia, deve esserci dell’altro.

Cosa farai “dopo” ? Dopo tutti questi anni, dopo la fondazione, sei anni fa, degli Intrepidi Monelli, dopo tanto lavoro, c’è un progetto, “lo spettacolo della vita” qualcosa che vuoi realizzare perché senti che ti manca.

C’è. Si tratta di uno studio che in parte ho già affrontato in passato ma non l’ho mai concretizzato, un lavoro sul Don Chisciotte” di Cervantes, non ti so nemmeno dire, non mi metto nemmeno io il limite, se lo affronterei come teatro di ricerca, come un’attività contaminata o qualcosa di più brillante, forse anche un insieme di tutte queste cose, per quanto può sembrare enorme, ampio o presuntuoso.

Come mai tra tanti materiali proprio il “Don Chisciotte”?

Don Chisciotte” perché è molto attuale nel parlarci della Lotta. Una lotta contro i mulini a vento che per noi, nella nostra professione artistica è tutto ed è tutto ciò che c’è da raccontare. Un racconto di avversità. Potrei nominarne moltissime avversità, ma il nocciolo, quella principale è che quando vai a fare questo lavoro, la professione del teatro, non puoi avere una vita normale, le rinunce sono tante, rinunci anche agli affetti, ai rapporti che chiunque in un’altra professione darebbe scontati. Al tempo stesso le persone con cui collabori, gli allievi, i maestri, tutti, in qualche modo diventano una famiglia, però sei sempre in lotta, contro qualcosa che non si può sconfiggere, ma non è importante, perché l’importante è solo il lottare.

Quindi abbiamo questo frammento del futuro, le produzioni con gli Intrepidi Monelli e in qualche modo, prima o poi Don Chisciotte”Produrrai o dirigerai qualcos’altro?

Ultimamente, soprattutto negli ultimi due anni ho preferito fare un po’ di spazio agli altri, una cosa che non è facile nel nostro settore, perché vedi sempre l’ego delle persone che emerge, ma io sono sempre stato un po’ così e negli ultimi due anni in particolare mi sono reso conto che se non si sta troppo concentrati solo su se stessi, ma si allarga l’orizzonte, si invitano compagnie, si guarda come gli altri lavorano, come fanno laboratorio, se si fanno collaborazioni, in questo modo si viene a conoscenza di cose che non si sarebbero mai immaginate, mi ha arricchito moltissimo vedere gli altri lavorare ed è giusto riuscire a lasciare spazio anche agli altri.

Collaborare porta anche ad attirare più pubblico, far conoscere realtà diverse che s’incontrano, come è andata da questo punto di vista?

Il pubblico ha reagito bene, piacciono le attività e le diverse cose che proponiamo, ma la cosa che da più soddisfazione è che ci sia il modo di far conoscere il teatro al pubblico, perché ancora oggi molti arrivano a vederlo per la prima volta. Da quando abbiamo aperto lo spazio, più di una volta mi è successo che una persona, l’ultima volta per esempio una signora “Ma quindi il teatro è così? Il teatro è questo” “Si signora, il teatro è questo.” C’è molta disinformazione su cosa succeda in uno spettacolo, ma quando si va a teatro, se gli attori in scena sono preparati, non si può non restare innamorati.

Ga’