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Le voci di Ferai: Ilenia Cugis (di Roberta Mossa)

Ciao Ilenia, parlaci un po’ di te: chi sei, come e quando nasce la tua passione per il teatro.

Ciao, Roberta! Mi chiamo Ilenia e ho 29 anni. Sono cresciuta in un paese piccolo e brutto che si chiama Capoterra, ma come tutte le infanzie passate in posti piccoli e brutti, nonostante mi sia trasferita a Cagliari a 17 anni, qualcosa di quella vita mi ha segnata per sempre. Sin da bambina ho avuto un forte interesse per l’arte e la letteratura, ho scritto il mio primo romanzo a 9 anni e ho sempre disegnato e dipinto. Ho perfino suonato la batteria in un gruppo punk rock durante l’adolescenza, che tempi! Poi un giorno, dopo la separazione dei miei genitori, mia madre è stata per un periodo coinquilina di Andrea Ibba Monni, che ho conosciuto nel 2006 quando io ero solo una adolescente, poco prima che lui incontrasse Ga’ e nascesse Ferai Teatro. Un pomeriggio del 2007 sono andata a vedere uno spettacolo in cui recitava Andrea, si chiamava “Voci nel Buio”, e per la prima volta assistevo a qualcosa che non fosse una di quelle commedie che ci portavano a vedere a scuola. Da lì il teatro ha iniziato a stuzzicarmi. Ma è stato il primo spettacolo di Baratto Teatrale, “Air Can Hurt You“, a Flumini, a farmi capire che c’era un buco nella mia vita che la scrittura, la pittura e la batteria non erano riusciti a colmare. Mi sono iscritta così al primo corso di recitazione di Ferai.

Il tuo primo personaggio teatrale?

In un laboratorio o in uno spettacolo?

Il primissimo!

Allora, il primo personaggio che ho interpretato è stato il Serpente de “Il Piccolo Principe“. Era il laboratorio nella chiesa di Santa Lucia che Andrea e Ga’ tenevano proprio agli inizi-inizi. Posso dire che ero veramente un cane e che non so cosa mi abbia fatto credere abbastanza in me da farmi continuare, perché ti giuro che il mio Serpente è stato il più triste esordio della storia.

Quanti anni avevi?

Diciassette! Era il 2008.

Piccolissima! Spero che ci siano dei reperti video!

Io spero di no!

E il tuo personaggio preferito tra quelli che hai interpretato?

Scegliere un personaggio preferito è molto difficile perché ci sono alcuni spettacoli e alcuni personaggi che ho interpretato che mi sono entrati dentro e che non sono mai più usciti. Ci sono alcuni giorni in cui apro gli occhi sul mondo ma gli occhi che apro non sono i miei, sono quelli di Medea. Ci sono notti in cui mi sveglio e sono Dorra e non riesco a dormire perché rivivo ricordi che non sono miei. Ho avuto tre profonde crisi con il teatro e con l’arte, durante la prima di queste, parlando con Ga’, gli dissi che forse il teatro non faceva per me, perché ciò che interpretavo mi si radicava dentro in maniera troppo profonda. E Ga’ mi aveva risposto “Potresti pensare che invece è proprio per questo che il teatro fa per te”.

Quindi è un lavoro molto introspettivo, e qui mi viene da chiederti, come crei un personaggio?

Innanzitutto analizzo le informazioni che ho a disposizione: il copione (se c’è un copione), il testo (se c’è un testo) e le indicazioni registiche. Comprendere il testo e comprendere le indicazioni della regia, è la base del mio lavoro. Poi si può passare alla seconda fase, quella di ricerca. Si tratta di un personaggio realmente esistito? Ne studio la vita, le opere, l’immagine. Si tratta di un personaggio della letteratura? Leggo tutto ciò che è stato scritto, cerco dipinti. E in tutto ciò, cerco chi ha già interpretato questo personaggio e studio come l’ha fatto. Il personaggio nasce proprio nella testa del mio regista e nessun altro l’ha mai creato prima? Approfondisco direttamente con il regista. La fase tre è quella di creazione vera e propria. A questo punto seguo due percorsi che devono andare di pari passo e sono strettamente intrecciati: il percorso tecnico e il percorso emotivo. Il percorso emotivo ha alla base quello che io e il personaggio abbiamo in comune, come esperienze e sentimenti, quindi è un percorso molto interiore. Il percorso tecnico mi serve per fare in modo che ciò che è interiore diventi anche esteriore, mi serve per trovare tecnicamente la voce, i movimenti, le espressioni, del personaggio, di modo che anche il pubblico capisca tutto il percorso emotivo. Se capita che io ne trascuri uno a discapito dell’altro e in quel caso, qualsiasi sia quello trascurato, il risultato è mediocre.

Un’ultima domanda Ilenia, so che stai preparando uno spettacolo (#Foodporn), mi sembra interessante questo rapporto tra teatro e cucina che so che è un’altra tra le tue passioni. Puoi raccontarci qualcosa? Senza spoiler, ovviamente!

#Foodporn nasce da un’idea di Andrea che ha reinterpretato, cambiato e riscritto alcuni aneddoti sulla mia vita e sulle mie ricette, creando un copione che io (e non solo io) ho trovato geniale fin dalla prima lettura! #Foodporn è un esperimento teatrale gastronomico, lontano dal modo in cui siamo abituati a vedere la cucina nello spettacolo, lontanissimo dai cooking show, molto vicino, invece, a quello che può succederti quando vai a casa di qualcuno che ti dice “oh no, sei arrivato così, all’improvviso! Non ho niente da offrirti!” E poi tira fuori dalla dispensa, dal frigo, dal forno, ogni genere di coccola culinaria, mentre ti racconta gli ultimi 30 anni della sua vita.

Molto figo, se non ho capito male prevede la partecipazione del pubblico che assaggerà le tue ricette… Non vedo l’ora di vederlo in scena! Grazie Ilenia per la chiacchierata, solo una piccola cosa: visto che fai parte anche del cast di FeraiExtravaganza, me lo dici almeno tu chi è la coniglia???!

Se guardi bene dentro di te, scoprirai che in fondo in fondo, la coniglia, sei proprio tu!

Le voci degli allievi: Federica Pittau

Federica Pittau sei un’artista neo diciottenne che tra le varie forme d’arte esplora anche la recitazione dal momento che frequenti la classe Odeon di Ferai Teatro. Ma tu come ti descriveresti?

È una domanda difficilissima! Credo di essere tante cose, tante piccole essenze. Una cosa di cui sono pienamente consapevole è che sono estremamente sensibile ed empatica, cosa che mi aiuta molto nell’ambito artistico al quale da un anno a questa parte mi sono completamente dedicata.

Credo di essere combattiva, so ciò che voglio e sono disposta a tutto per raggiungerlo: non importa la difficoltà o la fatica, anzi, la soddisfazione sarà migliore, no? Ho sempre pensato che noi nasciamo per poter creare sogni, coltivarli, lottare, raggiungerli e poi goderceli. Ho imparato che la mia felicità sta nelle piccole cose, come può essere un momento passato con le persone che amo di più o anche solo vedere un loro sorriso sincero; mi godo i piccoli ma spensierati momenti, i piccoli traguardi o semplicemente tre minuti della mia canzone preferita. Sono uno spirito libero, amo infrangere gli standard o la “normalità”, amo la ribellione sana, amo la rottura degli schemi, amo abbattere giudizi e pregiudizi e amo combattere per la libertà mia e altrui.

Perché fai teatro?

È da tempi “immemori” che ho un’attrazione sproporzionata verso la recitazione, da qui il mio primo musical serio a 9 anni nel quale interpretato il piccolo Michael Banks di Mary Poppins. Ho sempre guardato i film in modo diverso dalle altre persone, oltre l’immagine, studiando fin da subito le movenze, le mimiche facciali e la grandezza degli attori. L’amore verso il teatro in particolare poi è sbocciato proprio durante la mia fase acuta adolescenziale, quando frequentavo le medie. Ho avuto la fortuna di avere un’insegnante d’Italiano straordinaria, tutt’ora uno dei miei idoli indiscussi, amante anche lei di questo mondo speciale che è riuscita a trasmettermi e a far crescere dentro di me questa passione. Grazie a lei sono entrata nel mondo del palcoscenico, ho visto tanti spettacoli e guardato e sentito tanti attori che mi hanno stregata, portandomi a pensare “un giorno vorrei essere così!”.

Cos’è per te il teatro?

Faccio teatro perché amo il teatro e amo fare teatro in tutte le sue sfumature: cambiare e diventare qualcun altro rappresenta tantissime sfide (perché non è mai semplice interpretare, inventare o reinventare personaggi molte volte completamente differenti da te e con diversa situazione). Il palcoscenico poi è un mondo a parte distaccato dal nostro quotidiano, una dimensione dove la vita è eterna, dove i personaggi nascono, vivono e muoiono in continuazione, dove anche la più piccola cosa assume un significato esponenziale. Ora come ora sto studiando sodo, cerco ogni giorno di affrontare e sconfiggere le mie difficoltà perché vorrei portare questa passione oltre una passione stessa, realizzare il mio sogno più grande in assoluto ossia diventare abbastanza brava da poter trasformare tutto questo in lavoro.

Per me il teatro è vita: ho trovato lì la mia stabilità e gran parte della mia felicità e soddisfazione. È il mio posto felice, il mio luogo sicuro, la mia seconda casa. Ho trovato persone con le mie stesse passioni, amici veri, anime diverse tra loro, tante storie, amore, supporto e un’altra famiglia. Con il teatro riesco a dare sfogo al mio essere, trasmettere le mie emozioni, dare parte del mio spirito e riceverne altrettanto

Vai a teatro?

Sì, ci vado un po’ per lo stesso motivo per cui lo faccio. Sotto un punto di vista tecnico “sfrutto” gli spettacoli altrui per imparare sempre cose nuove, vari metodi di comunicazione e trasmissione, apprendere i diversi stili o conoscere altre circostanze; dall’altra vado per catapultarmi in altri luoghi, realtà parallele alla mia, perché la vita sul palco è vera, al di là dell’attore e della scenografia, ci sono personaggi e mondi reali. Nel mondo dello spettacolo poi molto spesso i limiti non esistono, c’è più libertà, più sentimento, più poesia, è tutto più profondo e spesso umano. E poi è un mondo così profondo e vivo che ogni volta è un “innamorarmi nuovamente” del teatro.

Qual è l’esperienza finora più importante con Ferai Teatro?

Anche questa è una domanda ardua perché ci sono stati moltissimi momenti vissuti con Ferai che mi hanno segnata e che mi porterò dentro per tutta la vita. L’esperienza più bella in assoluto però è stato il palco e credo continuerà ad essere tale: l’adrenalina, l’amore e l’attenzione del pubblico che è venuto lì proprio per vedere lo spettacolo a cui partecipi, la trasformazione da te al tuo personaggio, l’unione e la solidarietà, la felicità e il sostegno palpabili nell’aria, un po’ come anche la tensione prima dello spettacolo, tutto tra te e i tuoi compagni d’avventura, d’arte, i tuoi amici, coloro che diventano la tua seconda casa e famiglia, senza contare la festa, la tantissima nostalgia successiva la fine dello spettacolo e la grandissima soddisfazione dopo aver messo in scena frutto di tantissimo impegno, lavoro, sacrifici e ostacoli superati, una soddisfazione personale e collettiva. Sono sensazioni ed emozioni talmente grandi da non poterle descrivere pienamente, solo chi ha provato l’essenza di un’esperienza simile può, in parte, capire.

N.B.O.

Le voci di Ferai: Claudia Congiu

Oggi vi presento l’intervista alla nostra Claudia Congiu, attrice e performer dello Staff di Ferai Teatro. Ho conosciuto Claudia al Drury Lane, modulo comico, lo spettacolo si chiamava “Ma non farmi ridere”, era sopravvissuta all’Erasmus e catapultata a Ferai pochi giorni dopo. Claudia è una tipa carismatica, ironica e sicura di sé – ovviamente mi sfotterà per questa descrizione. Spoiler alert: è ingegnera e ama moltissimo la scienza e tutte quelle cosettine semplici semplici tipo circuiti elettrici, calcoli matematici e varie amenità che istigano al suicidio i miei neuroni da giurista!

Ciao Claudia, piccola premessa: come ti presenteresti ai nostri lettori?

Ciao a tutti, sono Claudia, nella vita studio ingegneria informatica, ora sono alla magistrale. Ho collaborato a costruire il sito di Ferai (questo qui)e poi da qualche mese a questa parte mi sto occupando delle tecniche audio luci: ho fatto il tecnico per RAPSODIA:ORIGINS” andato in scena al Teatro Massimo dal 17 gennaio 2019 per dieci repliche.

Come nasce la tua passione per il teatro?

In realtà è nata quasi per sbaglio! (ride) Alle medie dovevamo fare dei laboratori pomeridiani obbligatori, cose tipo giornalino della scuola, uncinetto, latino (che poi il latino o lo metti come materia obbligatoria o un ragazzino non lo studierà mai!), musica oppure un fantastico corso di teatro e ho detto “va beh proviamo!”

Non siamo mai andati in scena perché la tipa che teneva il corso voleva farci fare cose fighissime, importanti, molto famose, ma senza nessuna base.

Fatto sta che non siamo mai andati in scena, per fortuna, io ero Mirandolina nello spettacolo e odiavo quel personaggio perché… Beh, a 13 anni che ne sapevo della civetteria!

Poi alle superiori ho fatto il liceo scientifico ed era passata una circolare in cui si diceva che iniziava un corso di teatro e che potevamo iscriverci, così ho convinto una delle migliori amiche a fare il corso, voluto e gestito dall’insegnante di informatica. 

L’esito scenico era un vaneggio in cui si parlava della didattica a scuola, una lezione pitagorica e euclidea.

Per dire, scena c’erano Pitagora e Euclide che parlavano di matematica…

La regista ci ha insegnato come respirare di pancia, muoversi in scena, respirare di pancia, occupare lo spazio, insomma le basi. 

Quindi ho fatto circa 4 anni di laboratori prima di conoscere Ferai.

La Regina Bandita, foto di Valeria Castellino

Vuoi raccontarmi qualcosa di particolare di questo periodo? Tipo un aneddoto divertente…

Non lo so se è divertente, comunque in terza abbiamo preparato uno spettacolo per il Festival della Scienza, abbiamo portato in scena i dialoghi di tre personaggi, Leonardo da Vinci, Galileo Galilei e Marie Curie, interpretati da più persone. Ovviamente alle ragazze avevano dato la parte di Marie Curie! Poi la professoressa dopo un paio di mesi di prove mi ha chiesto se mi piacesse la parte che mi avevano dato. Il dialogo è stato più o meno questo:

Prof: Beh Claudia e allora? Che ne pensi, ti piace la parte di Marie Curie?

Claudia: ma si dai, però sinceramente avrei preferito il dialogo di Galileo.

Prof: Va beh Claudia, siete ragazze, è normale che vi diamo la parte di Marie Curie e non di Galileo, vi abbiamo dato la parte femminile…

Claudia: Ma in realtà io non credo che questo sia un problema!

Prof: Perfetto! Allora visto che non è un problema ti fai anche i dialoghi di Galileo (“Vita di Galileo” di Bertolt Brecht).

Quindi possiamo dire che il teatro e la passione per scienza sono andati di pari passo… e infatti per RAPSODIA:STAMINA” hai ideato la performance Macchina Elettrica! 

Non proprio di pari passo, ma avendo avuto questa formazione, peraltro da una prof. di informatica, ho sempre avuto, diciamo… un occhio per la didattica non convenzionale. I ragazzi riescono a interessarsi più facilmente a un argomento scientifico e noioso, se viene affrontato in un certo modo, per esempio portandolo in scena, e questa esperienza mi ha ispirata per Macchina Elettrica. 

Mi sono scervellata per trovare una performance a scopo scientifico interessante anche per un pubblico di adolescenti – il concept di Macchina Elettrica è l’uomo trattato come se fosse una macchina, che si muove in base a un certo stimolo, quindi perfetto con i circuiti elettrici e gli interruttori!

Puoi gestire l’uso degli utilizzatori: perché non fare in modo che l’uomo sia una macchina e scomporre il suo corpo in pezzi che funzionano uno per uno? 

Ho saldato un circuito elettrico, con led e un cavo di due metri circa attaccato al corpo del performer in totale sicurezza. Se il Led era acceso, il performer poteva/doveva muovere quella parte. 

Macchina Elettrica – Rapsodia: Stamina, foto di Roberta Plaisant

Il tuo personaggio preferito tra quelli che hai interpretato? 

La Regina Bandita” sicuramente – ero uno spirito che parlava della disamistade. Poi sicuramente ho amato moltissimo Speranzina Curreli per “Libera nos a malo”, per certi versi la trovavo molto simile a me e mi piaceva interpretarla. E poi Anne Sexton, per “Sylvia Plath – il richiamo fatale della perfezione”, era un personaggio particolarmente affascinante. 

Roberta Mossa

La mia Ferai – quarta parte (di Andrea Ibba Monni)

Nel 2014 accade qualcosa: iniziamo a trovarci a disagio in un posto che non ci apparteneva del tutto. È l’anno in cui nascono i primi problemi con la gestione dello spazio in via Ada Negri, l’anno in cui proviamo a collaborare con una scuola di danza ma capiamo che dobbiamo assumerci tutte le responsabilità e firmare ogni errore, ogni fallimento solo col nostro nome.

Troviamo subito uno spazio: un seminterrato di quasi 300 mq in via Eroi d’Italia a Pirri, Cagliari; davanti un ampio parcheggio, sopra un esercizio commerciale sfitto; il posto è caldo d’inverno e fresco d’estate (sì: è umido) ed economicamente possiamo provarci. Andiamo via da via Ada Negri e dalla scuola di danza in punta di piedi, senza polemiche e con molta gioia ma da li a poco inizio a rendermi conto di quanto fosse importante il passo. Fortunatamente Ga’ è sempre presente a tenermi coi piedi per terra e passo dopo passo iniziamo a ingranare.

Inauguriamo lo spazio con due delle tre giornate del Baratto Teatrale “Zoi” (100 performance in tre giorni) ma in via Eroi d’Italia, al Ferai Teatro Off sono soprattutto gli anni degli eventi natalizi per bambini, gli anni dei grandi successi come “I monologhi della Vagina” e “Cuore di Tenebra”. La nostra scuola si articola in quattro classi: Odeon, Drury Lane, La Fenice e Kammerspiele e tentiamo l’esperimento della classe di commedia musicale “Ferai Singing” che dura due anni.

E arrivano, tra i tantissimi, due membri di quello che sarà lo staff della compagnia a partire dal 2018: Roberta Plaisant e Andrea Mura.

Roberta Plaisant, negli anni ‘70 era una timida bambina che sognava di diventare un’attrice. Il teatro è per lei mezzo col quale esprimersi e creare empatia. Durante una sua performance sui tessuti aerei conosce Ga’: comincia così, nel 2013, la sua esperienza con Ferai con cui porta in scena “I Monologhi della Vagina: Donne con la D Maiuscola” e “La dolce morte di Virginia G.”. In costante formazione nello staff Ferai è attrice e performer con l’obiettivo di contribuire a un teatro in cui abbattere le distanze fra pubblico e attori: un teatro “immersivo” in cui immergersi.

Andrea Mura classe 1983, vede il teatro come un modo per uscire dalla realtà quotidiana e una passione sempre più forte. Ha iniziato a recitare quasi per caso dopo aver partecipato ad una prova della classe Ferai/La Fenice. Nella compagnia è attore, membro dello staff informatico, regista e attore di “Vincenzo: l’uomo diventato Santo” e si sta formando nella parte tecnica luci. Il teatro del futuro per lui è di protesta, deve trattare argomenti scomodi e usa messaggi chiari e forti per arrivare alla gente.

 

Le voci degli artisti: Alberto Rizzi (di Andrea Ibba Monni)

Ogni giorno che ho passato in teatro mi sono sentito fortunato.”

Secondo l’autobiografia sbarazzina (che si può leggere qui) Alberto Rizzi fonda a 18 anni la casa di produzioni teatrali e cinematografiche Ippogrifo Produzioni dopo aver completato gli studi classici, poi se ne va a Milano a diplomarsi in regia cinematografica, poi a Roma a lavorare nel cinema ma torna a Verona per fare teatro. Si definisce attore per contingenza, regista per vocazione e scrittore per passione.

Mi son messo a studiare Alberto Rizzi dopo aver ospitato nel 2017 la sua compagnia in occasione della replica cagliaritana di “Sic transit gloria mundi” (qui il trailer) ma lui non l’ho mai incontrato né abbiamo mai parlato. Beh ho scoperto che siamo molto simili: pensiamo che Milano sia abbastanza brutta, riteniamo che le donne siano fondamentali nel nostro lavoro, crediamo nell’artigianato del nostro mestiere, viviamo l’arte ogni giorno tutto il giorno.

Le differenze? Io ho fatto il Nautico e non il Liceo (anche se so più di Sofocle che di effemeridi); a me piace da morire parlare mentre lui dice di essere abbastanza schivo. Inoltre lui è simpaticissimo.

Ecco la nostra conversazione:

ANDREA IBBA MONNI – Chiedo ovviamente all’artista Rizzi, non al giovane uomo (non mi permetterei mai di fare una domanda personale dal momento che in passato hai dichiarato “Se potessi vivere nascosto lo farei”): ora che siamo tutti fermi tu che fai? Come passi le tue giornate?

ALBERTO RIZZI – Continuo con la parte del mio lavoro che posso fare da casa, del resto in quanto regista e autore buona parte del mio lavoro si svolge anche alla scrivania. Comunque non sono rimasto fermo perché durante la quarantena ho creato e realizzato la smart serie “Memorie dalla quarantena” (trovate i fantastici video sulla loro pagina Facebook n.d.r.) per cui sono impegnato su questo e sulla progettazione anche se cerco di evitare la bulimia da lavoro: un po’ di pausa ci vuole, d’altronde questo periodo non è congeniale per scrivere in realtà.

Neppure un momento di smarrimento? Un sentirsi un po’ disorientato? 

Assolutamente sì. Anzi direi che la creatività è un processo che, almeno per quanto mi riguarda, ha bisogno di stimoli, di vita, di aria. Questo periodo così nebuloso è per me nemico della produttività. Sono anche disorientato. come molti del nostro settore perché il futuro è del tutto ignoto e incerto. 

Che ne pensi del polverone nato dalle dichiarazioni di Lucia Calamaro (queste)?

Non so di che parli.

Beato te! In sostanza la nostra pluripremiata e blasonatissima collega ha lanciato un anatema contro chi potrebbe (o vorrebbe) tradurre la pandemia in espressione teatrale.

Sinceramente spero che non ci sia un eccesso di spettacoli, di film e di romanzi che parlino della pandemia.

Che cos’è “un eccesso”, scusa?

Ho solo il timore che quando torneremo in teatro ci troveremo con 200 monologhi sul covid, 82 documentari sulla quarantena… una bulimia narrativa. Come dopo l’11 settembre quando la quantità di prodotto artistico su quell’argomento fu eccessiva. Spero invece che si riesca a parlare di altro, penso che ne avremmo bisogno in primis in quanto spettatori.

Ma se io ho voglia/bisogno di scriverlo e tu pure, come si fa? Siamo già in due. E se poi ne han voglia/bisogno pure tutti gli altri?

Bella domanda… non lo so. In questo caso parlo più da spettatore che da autore.

Una domanda pesante, banale ma che voglio proprio farti è: dove/come nascono i tuoi progetti artistici?

Domanda impegnativa. Ogni progetto nasce in modo diverso. A volte i progetti nascono come una scintilla nella testa, spesso anche solo un’immagine e o un tema di cui voglio parlare. Poi se ne stanno in cassetto a volte anche per anni, in attesa che il momento diventi propizio per sbucare fuori. Poi di solito è sempre qualcosa di esterno che li mette in moto: una necessità produttiva o distributiva o perché è il momento giusto per fare quello spettacolo.

Ti interroghi mai sul perché fai teatro?

A dire il vero raramente me lo domando. Lo vivo come un mestiere ed è l’unico che so fare. E poi non potrei rinunciare al divertimento nei camerini!

Hai dichiarato “io sono un regista, non faccio il regista” e anche in questo la pensiamo allo stesso modo. Ma  adesso ti faccio una domanda che odio mi si rivolga, ma chi se ne frega, facciamo un gioco, ragioniamo per assurdo: se non facessi arte cosa vorresti fare e cosa invece forse ti ritroveresti a fare?

Probabilmente se non facessi questo lavoro, teatro o cinema che sia, credo che studierei. Studiare mi piace un sacco. Non so se ti pagano per studiare ma tanto neanche con il mio mestiere si diventa ricchi. Insomma ho la vocazione alla precarietà. Forse dovrei puntare a fare in dentista… è che guardare tutto il giorno nelle bocche delle persone mi spaventerebbe.

Quindi precario fino alla morte ma con lo stomaco forte! Ogni volta che hai potuto hai sempre speso grandi paroloni per le altre due anime di Ippogrifo Produzioni: l’attrice Chiara Mascalzoni e l’organizzatrice Barbara Baldo. Elogi che per altro non posso che condividere avendoci lavorato seppur per poco nel 2018. Ciò che ti chiedo è: ma quindi la musa è femmina?

Barbara e Chiara sono le altre due anime di Ippogrifo, non le considero le mie muse: sono piuttosto le mie collaboratrici, le mie compagne di viaggio. Chiara è un’attrice di incredibile talento e generosità, lavoriamo insieme da 10 anni e non avrei potuto realizzare certi spettacoli se non con lei. Barbara è una straordinaria organizzatrice con qualità comunicative e umane sopra la media. Sono molto fortunato ad averle incontrate: ogni giorno mi ispirano a lavorare meglio. Forse è quello che fanno le muse. Allora sì sono le muse. E sono anche donne. Io mi sempre trovato meglio a lavorare con le donne, perché completano la mia visione che inevitabilmente è maschile. Siamo una famiglia: siamo come le famiglie di Paperopoli piene di fratelli, di cugini e di zii ma neanche una mamma e un papà… siamo Qui Quo e Qua. 

E come si tengono separate le dinamiche private da quelle lavorative?

Semplice: non le separiamo. Facciamo gli spettacoli come si fa una crostata in cucina andiamo in tournée come si fa in gita, ci vogliamo bene e lavoriamo insieme. Nel lavoro ci ritroviamo e ci rispecchiamo, negli spettacoli c’è sempre un po’ di noi. Ippogrifo è una casa e anche tutti quelli che lavorano con noi, attori e tecnici, li trattiamo come se fossero parte della famiglia.

Quanto è stato vero, pure per me e tutta Ferai nel 2017! Ultima domanda: che mi dici dell’ambiente artistico veronese? 

Eheheh!

Ma non è una risposta!

Non farmi sbilanciare…

Ma io voglio che ti sbilanci!

Eheheeh!

Ma non è una risposta! Senti, se non vuoi essere shady bitchy dimmi le cose buone e non quelle meno buone, ok? 

Verona è una città bellissima.

Non ci siamo lasciati così: l’ho fatto sbottonare su un gossip che ho giurato di non rivelare ma intendo ricattarlo: Rizzi, se Ippogrifo non torna a Cagliari vendo lo scoop! 

Andrea Ibba Monni

Ippogrifo Produzioni presenta: Memorie dalla quarantena - VERONA ...

Da sinistra: Barbara Baldo, Chiara Mascalzoni e Alberto Rizzi

Fonti: Ippogrifo Produzioni; Paperblog

 

La mia Ferai – seconda parte (di Andrea Ibba Monni)

Sono arrivato nella Chiesa di Santa Lucia a Cagliari quando la dirigeva con piglio sicuro e sorriso bonario il leggendario Don Pietro Meneghini. Enzo Parodo mi chiamò per recitare coi suoi ragazzi nel 2001 (finalmente!) e il Presidente della Compagnia Santa Lucia, Giorgio Mulas due anni dopo mi chiedeva se volessi provare a fare un laboratorio in oratorio. Dal 2003 al 2007 furono quattro anni importanti e fondamentali: quando nel 2007 chiesi a Ga’ di unire le forze e il laboratorio divenne a tutti gli effetti della neonata Ferai Teatro avevo già fatto molta esperienza e imparato dai parecchi errori (ancora ne avrei fatto e spero di poterne fare ancora tantissimi).

L’era di Ferai Teatro nella chiesa di Santa Lucia è la scusa per parlare delle prime due arrivate nello staff di Ferai: Ilenia e Giulia.

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Ilenia Cugis nasce nel 1991, definisce il teatro “cibo che sfama le sue personalità latenti e inespresse”.

Nel 2007 è fra il pubblico del primo spettacolo di Ferai Teatro, “Air Can Hurt You”, promette a sé stessa di diventare un’attrice di Ferai: dieci anni dopo è parte della compagnia. Attrice dello staff, si occupa anche di marketing e grafica.

Desidera che il teatro torni ad essere avanguardia, arte trainante nell’innovazione e nella nascita di nuovi movimenti artistici di commistione in quanto “unica forma d’arte che in sé rappresenta contenitore e contenuto.”

Giulia Maoddi (Jules934) su PinterestGiulia Maoddi, classe 1987, ha fatto del teatro il suo linguaggio e il mezzo col quale comunicare col resto del mondo.

Ha iniziato a studiare teatro nel 2007 in un corso universitario ed è entrata a far parte della scuola Ferai nel 2010.

All’interno della compagnia oltre ad essere attrice e performer si occupa del settore organizzativo e di quello informatico per il quale cura i testi. Auspica che il teatro del futuro sia più libero, innovativo e pop: un luogo dove fare arte, un luogo fresco e attivo lontano dall’idea di qualcosa di vecchio e desueto che in troppi oggi hanno.

Con loro e Andrea Mura andrà in scena uno spettacolo divertente sulla storia dell’Italia e della televisione italiana che avrebbe dovuto debuttare ad aprile ma che è solo rimandato!

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La mia Ferai – prima parte (di Andrea Ibba Monni)

Per sostenere la raccolta fondi a favore di Ferai Teatro in piena emergenza Covid ho registrato frettolosamente un video di tre minuti (questo qui) in cui ho cercato di contenere le mie emozioni dal momento che non sono riuscito a contenere capelli e occhiaie. Per cui eccomi qui: pettinatissimo e con un incarnato perfetto (auch! peccato non possiate vedermi eh!) ma col cuore libero da ogni ritegno. Signore e signori questa è la versione del tutto personale e inevitabilmente sentimentale di come e quando è nata Ferai Teatro nel 2007, scritta di getto, spontaneamente e come se non l’avessi già raccontata mille volte: ma questa è stata la mia prima (e fino ad oggi unica) svolta epocale di vita. Se non fosse successo tutto quel che sto per raccontarvi forse ora sarei un mediocre giornalista televisivo alla disperata ricerca del modo di partecipare a un reality qualunque.

Nel novembre del 2005 il grande Pierfranco Zappareddu mi taglia fuori dalla produzione “Nei sensi la vita” e ci resto così male che non lo sento per i sei mesi successivi finché leggo sul giornale che il suo nuovo spettacolo era stato “rimandato”. Lo chiamo, gli lascio un messaggio in segreteria in cui gli dico “se serve son qui” sentendomi Bruce Wayne che scruta il cielo di Gotham City. Una settimana dopo sono sul palco del Teatro delle Saline Akroama protagonista di “Che tu sia per me il coltello”.

Tra il pubblico un’ex attrice di Zappareddu: lei evidentemente più permalosa di me dato che non lo sentiva da vent’anni e proprio quella volta era tornata da lui. Questa ex attrice ora aveva velleità registiche e una produzione in ballo col Teatro Alkestis (tenete bene in mente questo nome) e voleva che io partecipassi al progetto. Così è stato: va in scena “Voci nel buio” nella cui produzione c’era un ragazzo di vent’anni, Ga’.

Da lì a poco ci ritroviamo a chiacchierare a lungo, decidiamo di vederci il giorno dopo e di andare in spiaggia a finire la conversazione: era l’8 luglio 2007 e per otto ore non facciamo altro che parlare stesi sulla sabbia l’uno accanto all’altro. Il giorno dopo la mia guancia destra e la sua sinistra presentano ustioni importanti, letteralmente: eravamo deturpati ma innamorati.

Ferai nasce praticamente subito: lui sta scrivendo una tesi per il DAMS di Bologna sul Baratto Teatrale dell’Odin Teatret, io lo porto da Zappareddu che si è formato in Danimarca con Eugenio Barba e che ha portato il Baratto in Sardegna. Ovviamente Pierfranco non se lo lascia scappare e insieme facciamo “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” ma questa è un’altra storia meravigliosa.

Stanchi di fare spettacoli d’altri? Forse. Più che altro con una gran voglia di fare cose nostre gli offro di partecipare come insegnante al mio laboratorio presso l’oratorio della Chiesa di Santa Lucia (ne parlerò in seguito) e scopro la generosità e la passione di un’anima più che bella. Va be’ avete capito che per me lui è tutto.

Abbiamo conosciuto la fame, la nostra spesa settimanale non superava mai i 10 euro (grazie ai migliori discount a disposizione), ci facevamo invitare spesso alla tavola di sua sorella Consuelo con una scusa o con l’altra per mangiare qualcosa di buono, lui faceva volantinaggio e ripetizioni di inglese, io facevo ripetizioni di qualunque materia (e diamine se li facevo sgobbare quegli asinelli!) ma soprattutto insieme facevamo teatro: “Sangue d’angelo” ed “Air can hurt you” i nostri primi lavori insieme.

Di seguito il dialogo accaduto per la scelta del nome della neonata compagnia:

IO – Come ci chiamiamo? Ci serve un nome!

GA’ – I nomi devono portare fortuna, dice Pierfranco…

IO – Il nome del primo spettacolo dell’Odin?

GA’ – Uhm, troppo cacofonico “Ornitofilene”

IO – Il secondo? Oddio che difficile “Min fars hus”

GA’ – Ma il terzo si chiama “Ferai

Eccoci, siamo nati. E ora volevamo fare la storia: la nostra personale, vera, lunga, tortuosa e perché no, magari quella dei libri di storia. Stiamo puntando alto? E allora miriamo alle stelle e ai pianeti se il cielo non basterà.

La storia continuerà.

Andrea Ibba Monni

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Perché e come ho iniziato a fare teatro (di Ilenia Cugis)

2008: Air Can Hurt You

È il 2008, lo spettacolo di baratto teatrale si intitola “Air Can Hurt You”, ed è il momento esatto in cui mi innamoro del teatro.

È notte. Sono in macchina con un’amica di mia madre. Guida nel buio delle strade strette della campagna di Flumini di Quartu. La macchina si ferma sulla strada. Scendo.

C’è un grandissimo cancello di metallo, grigio. Ga’ è vestito di nero, ha un cappello in mano, dal quale fa pescare alle persone un pezzo di cartoncino. Sul mio cartoncino c’è un segno di pittura blu. Vengo separata dalle persone con cui sono arrivata e insieme a qualche estraneo attraverso un giardino e arrivo in una stanza, abbastanza grande. C’è una televisione. C’è un ragazzo (Enrico Cara n.d.r.), di spalle, con ali da angelo e la schiena scoperta. La sua ombra è proiettata sul muro.

Parte un video. Le immagini sono mischiate, sovrapposte, i temi sono tanti, frammentati, iniziano si fermano ricominciano. Il video è un sogno. Poi finisce.

Siamo condotti all’esterno. Vedo che nelle altre stanze accadono altre cose. Io sono sul porticato. Un’attrice, Andreina, ha un enorme blocco di rami secchi in mano. Sembra respingere e scacciare dei fantasmi dal suo passato.

Poi, inizia qualcosa.

Che solo più tardi, scoprirò essere la “Stanza Rossa”.

Ci sono Andrea Ibba Monni e un’attrice che non conosco, che non ho mai conosciuto. Lei è mora. Ed è molto bella (Barbara Piu n.d.r.).

Il pezzo è una lotta lenta e veloce per l’amore, è violenza e tenerezza, la Stanza Rossa è complessa, complessa come la passione, la rabbia, l’affetto, la gelosia. I loro corpi si trovano e non si trovano. Lei fugge e si rifugia, lui la cerca, la prende, la perde.

Per come lo ricordo io, alla fine vincono la violenza e la gelosia. Eppure Andrea canta, perché l’amore c’è ancora.

Inizia una musica. La sento ancora dentro le orecchie, 12 anni dopo.

Restiamo nel portico, mi pare che tutto il pubblico si sia ora ricongiunto.

La musica è forte e una luce fievole si muove da dietro la casa. Sono tre candele e un ragazzo, Giacomo (Peddis n.d.r.), le tiene davanti a sé. Arriva circa davanti al portico, lo vediamo tutti. Lo vediamo contorcersi mentre le candele illuminano e scaldano punti diversi del suo corpo nudo, magro, allenato, si muove e ad ogni movimento cambia forma, il suo corpo in eterna danza con le candele.

La cera finisce di bruciare e non c’è più musica.

Sono certa che siamo tutto il pubblico ora, insieme, veniamo condotti giù dal portico, camminiamo verso il lato destro della casa, siamo nel retro del giardino. C’è qualche albero e una luce lieve. Ed è lì, sul pavimento di terra, erba e foglie secche, sui rami caduti, in mezzo a spine e cespugli, è lì, che appare Nastas’ja Filippovna.

Con le sue maschere. Con le sue gambe. Con la sua voce. Quella voce che ve lo assicuro posso sentirla nelle orecchie. Ha anche un libro in mano. Un ombrello. Teli. Mi innamoro di Nastas’ja, piango, sono scossa, ho i brividi, è il momento esatto in cui capisco che cosa significhi il teatro per Ferai. Quando il pezzo finisce il mio cuore è assetato, forse famelico, dice: “ancora, ancora”.

L’ultima scena è La Cena.

Ci sono adesso tutti gli attori intorno ad una tavola. Mangiano ravioli. Giocano con il cibo. Con le posate. Sono pericolosi coi coltelli. Si sfidano. Non vogliono mangiare, ci sono infiniti spettri di disturbi alimentari e relazioni parentali malate.

Alla fine, un primo di loro, si accorge che manca qualcuno, o qualcosa.

“Laura (Solla n.d.r.), anche l’aria può ferirti”.

La cena si scompone e gli attori cercano disperatamente ciò che manca, per tutto il grande giardino. Noi li seguiamo. La ricerca termina al cancello. Gli attori sono tutti lì, con gli occhi verso il cielo, nella notte buia.

Infine, questo è ciò che ricorda la mia mente, gli attori sono scomparsi. Nel nulla. Siamo rimasti solo noi, spettatori, davanti al cancello grigio. Insieme a Ga’, vestito di nero, con il suo grande cappello, in testa. Che ci mandava via, a casa.

“Ancora, ancora”, ripete il mio cuore estremamente confuso e affamato. Due mesi dopo ho frequentato la mia prima lezione di teatro.

Ilenia Cugis

RAPSODIA:STAMINA – frammenti (di Ilenia Cugis)

Nel silenzio della Silvery Fox Factory c’erano rumori di passi lenti e suole di scarpe che scricchiolano.

C’erano gli occhi di Andrea Ibba Monni che guarda dritto davanti a sé, sono stampati nella mia memoria.

Insieme al rito della notte.

Mentre la luce si rifletteva sulla grotta bianca di Ga’.

Ga’, ballava; davanti a lui c’era un mio amico, che piangeva. Guardava Ga’ che ballava per lui, e piangeva.

Mi fa sorridere.

C’era un sacco di cibo all’ingresso. Finché l’abbiamo rimosso. Tante tantissime banane. Banane banane e banane. Le ho portate a casa.

Arrivavo sempre di notte alla factory, quando finivo di lavorare. La luce ovattata, mi cullava. Una notte ho sentito il suono di una sedia che veniva spostata da una ragazza del pubblico. Lei ha scritto qualcosa su un quaderno e l’ha passato ad Andrea, lui ha annuito e sorriso con gli occhi, perché aveva la bocca coperta col nastro. Molto lentamente e in maniera estremamente religiosa Andrea ha messo via i chicchi di riso. Ha preso le mani della ragazza davanti a lui. Si sono toccati.

Mi piaceva guardare i chicchi di riso.

Mi piaceva guardare le mani che si toccano.

Mi sono seduta davanti a Simone con una bacinella sulle gambe. Abbiamo lavato e strizzato e bagnato e strizzato.

Mi piaceva guardare le ragazze che lo aiutavano a cucire. Tutto, ovattato, nella notte, nel silenzio, nella calma apparente.

Una notte quando sono arrivata era quasi l’una. Era già giovedì. Erano rimasti tre performer per “Democratic Schism”. Davide, Ilaria, Francesca, così stanchi che avrei avuto voglia di abbracciarli. In movimento da quattro ore, rimasti solo in tre. I corpi sfiniti. Erano molto belli. A momenti mi incantavo a fissare una di loro tre. Poi l’altro, poi l’altra.

Andrea era in piedi.

Sentivo, non so perché, che stesse in piedi nel tentativo di dare tutta la sua energia ai tre performer e beh, dopo 4 giorni qui, dentro la Factory, uno l’energia se la sarebbe voluta centellinare, mentre Andrea la stava espandendo, voleva darla, voleva inondare lo spazio, l’aria era piena di energia calma e pacifica.

Quella stessa notte, più tardi, forse intorno alle due e mezza, ho visto Andrea e Ga’ che si guardavano. Quando sono tornata a casa ho mandato un messaggio ad una mia amica e ho scritto: penso che abbiano bisogno di toccarsi, di abbracciarsi.

Ho visto tre amiche, una per volta, aiutare Ga’ nella grotta bianca. Con grandi cappelli di carta di giornale. L’ho trovato divertente ogni giorno che è capitato. I grandi cappelli di carta di giornale. Nei momenti della mia giornata di lavoro, pensavo alla grotta bianca. “Chissà come sarà quando tornerò dentro la Factory”.

Chissà come sarà.

Vorrei parlarvi di RAPSODIA:STAMINA solo che non ci riesco, ho capito che non ve lo posso spiegare. Era necessario viverlo e per ogni spettatore è stato diverso.

Ho visto le persone piangere e ridere, senza apparente motivo. Ho visto sorrisi di cera e ne ho avuto addosso uno anche io, ma la cera si scioglie, il cuore batte, il sangue scorre.

Ho visto me stessa piangere e ridere, senza apparente motivo.

C’è stata tanta pace, tanto silenzio, tanta energia.

C’è stata la vita.

C’è stata la poesia.

C’è stata l’arte.

Come si può tentare di descrivere tutto questo a parole?

C’è stata la forza di volontà dell’artista.

Ilenia Cugis

E tu come memorizzi un copione?

Risultato immagini per memory

Di seguito alcuni metodi di memorizzazione di un copione da parte di qualche allievo del laboratorio di recitazione di Ferai Teatro. Li abbiamo riassunti, alcuni uniti perché tanto simili e con pochissime (ma importanti differenze). Va detto che ognuno ha il proprio personale modo di memorizzare una parte (o dovrebbe averlo) e che quindi vi riportiamo i vari modi, ognuno valido nella misura in cui va ovviamente bene per chi lo utilizza, cercando di evidenziarne sia i vantaggi ma anche gli eventuali punti deboli.

Dopo aver sottolineato, leggo e ripeto frase per frase, man mano che vado avanti con le frasi ripeto sempre dall’inizio aggiungendo la frase nuova. Se necessario sbircio dal foglio e ripeto finché non è più necessario il foglio, cercando nel tutto di concentrarmi sul senso di quello che dico. Questo è un metodo che ha come svantaggio il fatto che le battute finali son quelle che si provano di meno.

Registrazione. Utile per correggere articolazione, respirazione, dizione, difetti di pronuncia ma potrebbe risultare arido alla lunga a livello interpretativo.

Io leggo molte volte e poi provo a ripetere pezzo per pezzo. Lo faccio davanti allo specchio per aggiungere al monologo l’espressione del viso e per tenermi composta quando parlo. Il rischio è che il controllo delle espressioni del viso tenda a sconfinare nella regia del pezzo, ma è un rischio abbastanza remoto.

Leggo e ripeto, leggo e ripeto dividendole battute in frasi e concetti, cercando di capire e interpretare pienamente ciò che c’è scritto. Bisogna poi cercare di unire il tutto in modo omogeneo in modo da non avere troppi frammenti slegati tra loro.

– Come primo lavoro di memorizzazione visiva scrivo le battute prima delle mie e poi le mie. Come secondo step di memorizzazione visiva scrivo solo la parte finale delle battute prima delle mie e poi ancora le mie. Come terzo step registro il 1 punto e ascolto varie volte e poi registro il 2 punto e ascolto varie volte. Come ultimo passo registro tutte le battute degli altri personaggi e lascio lo spazio vuoto per recitare le mie con cesure, intenzione e qualità del personaggio.

– Registro in continuazione tutto il pezzo poi ogni frase con parole mancanti poi ripeto senza ascoltare. Il rischio è che in questa sorta di “quiz” si perda subito la parte interpretativa (la parte principale dell’obbiettivo da raggiungere)

Io accento e metto le cesure alle mie battute e poi leggo e ripeto più volte cercando di memorizzare gli accenti e le cesure. Dopo mi registro prima cercando di stare attenta solo alla dizione, e poi faccio un’altra registrazione di tutte le battute cercando di fare sia dizione che interpretazione. Poi mi ascolto e ripeto prima solo in dizione e poi aggiungendo l’interpretazione. L’ideale sarebbe rendere la dizione scontata e l’articolazione della parola una norma in modo tale da bruciare i tempi e finalmente non separare il buon uso della vocalità a un buon uso del corpo che la racchiude (è come dire che si separa l’uso di una gamba dall’altra).

Registro le scene in cui son presente recitando tutti i personaggi e mi riascolto. Poi registro la scena solo con le battute degli altri personaggi e lasciando un “buco” di silenzio per le mie battute, così quando riascolto attacco e do io la battuta. Ultimo step quando son diventata bravina: recito a voce alta tutte le battute, mie e degli altri. Un procedimento lungo e laborioso che però sicuramente rende sicuro lo stare in scena ed è un allenamento sotto tanti punti di vista che però non deve togliere nulla al proprio lavoro.

Obbligo mia madre a fare tutti i personaggi e ripeto le mie battute. Prima veloce senza interpretazione e poi con sempre più intenzione. Dipendere dagli altri è sicuramente rischioso, soprattutto se “gli altri” non sono colleghi. Ma l’immagine di una madre “obbligata” all’esercizio è molto divertente.

Non ho un vero e proprio metodo. Memorizzo manco fossero un mantra i finali di battuta prima delle mie, quasi come facessero parte della mia battuta, e li ripeto ripeto ripeto. Mi aiuta molto memorizzare studiando in simultanea il personaggio, trovando una voce, un’intenzione. Diciamo che più interpreto, più mi vien facile. Ma alla base c’è ripetere ripetere ripetere. Non avere un metodo è sempre rischioso, lasciare al caso e all’ispirazione la preparazione di un lavoro è sempre negativo soprattutto perché affidarsi solo all’interpretazione, all’intenzione e alla “voce” è troppo casuale, approssimativo.

Scandisco ogni sillaba di ogni parola della frase mentre ripeto in modo neutro, acquisita un po’ di memoria vado più liscio sempre neutro, acquisita più memoria ancora ripeto velocemente sempre neutro ma usando il corpo (gesti, spostamenti) per vedere che mi viene da fare istintivamente, ultima fase quando ho buona memoria provo la scena direttamente se ho vuoti rallento e sillabo o faccio movimenti a ritroso. Corpo e voce riuniti come dev’essere. Approccio lungo ma che dà certamente una gran sicurezza. Bisogna solo far sì che il gesto istintivo lasci poi spazio alla tecnica, al rigore e all’elasticità in sala prove davanti a chi cura la regia e spazio all’azione di chi sta in scena con noi.

Cerco di memorizzare anche le battute precedenti alle mie, non esattamente, ma il senso generale. Cerco sempre di capire l’intenzione del personaggio, in modo da vivermi la scena e non avere problemi di memoria. Capire cosa si sta dicendo e perché lo si dice è certamente indispensabile.

Evidenzio in giallo la mia parte poi evidenzio con colori diversi le battute prima delle mie, per cercare di memorizzare. Leggo e ripeto diverse volte, cercando di ripetere con il copione chiuso. La memoria visiva certamente aiuta parecchio, ma non basta dal momento che ci lascia dipendere troppo dalle altre persone e dalla loro memoria.

Leggo. Ripeto prima la battuta a mente. Cerco la/le parola/e chiave delle battute. Poi le provo. Se non mi convince cambio la parola chiave. Solo per memorizzare però perché poi nell’interpretazione normalmente le parole chiave si inter-scambiano.

È importante darsi appigli, soprattutto interpretativi. Ma dopo aver memorizzato il testo bisogna lasciare libera ed elastica l’interpretazione.

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