Andrea Ibba Monni: com’è iniziata la mia vita sul palcoscenico.

Avevo 9 anni e iniziavo già a sentire un senso di inadeguatezza e smarrimento che mi avrebbe portato presto a sentirmi un alieno incapace di comunicare con chiunque. Una cosa abbastanza comune per un preadolescente che si affaccia a quella fase della vita tanto necessaria quanto spiacevole chiamata pubertà, se non fosse che avevo passato il mio primo decennio a sentirmi dire quanto fossi speciale e quanto fossi più unico che raro senza però averne alcuna prova tangibile.

Ero solo, non ci capivo nulla del mio esistere e quando mi dicevano che ero speciale pensavo fossero tutti scemi.

Arrivo in queste condizioni nel mondo del Teatro.

Fino al 1992 avevo passato molto tempo a scorrazzare tra gli allestimenti di recite amatoriali senza però dar granché peso all’attività teatrale finché mia madre venne chiamata a far parte del cast di una produzione professionale “Su vapori” della compagnia Teatro Studio di Cagliari.

Incuriosito da queste nuove persone che erano entrate nella vita dei miei genitori, quasi li obbligai a portarmi a una delle prove dello spettacolo diretto da Enzo Parodo: iniziò il consueto terrorismo psicologico dello stai-zitto-non-muoverti-non-parlare-non-disturbare-non-farci-fare-figuracce eccetera. Più scoraggiato che invogliato, tuttavia non rinunciai ad assistere alle mie prime prove teatrali di professionisti: ho ancora nitide le sensazioni, le emozioni e tutto ciò che ho provato quella sera.

Capii subito che quel gioco che si chiama “teatro” poteva avere delle regole che mi avrebbero permesso di non sentirmi smarrito, una volta tanto avrei potuto non essere un alieno, non avrei provato il senso di inadeguatezza perenne, avrei avuto l’occasione di comunicare con gli altri. 

La storia era tutta scritta nel copione e tutti stavano parlando lo stesso linguaggio: quello dell’arte. Ma soprattutto anche io avrei potuto definirmi speciale perché mi sarei sentito tale.

La recitazione era la mia strada.

Recitare significava poter vivere una vita normale: non sapevo ancora che sarebbero passati quasi dieci anni prima di riuscire a farlo.

Ho elemosinato una parte per tanti anni, non perdendomi più una prova, un debutto, nemmeno una replica di ogni recita da “Su vapori” a “De suncunas”, da “Passillendi cun tziu Paddori” a “Passio” per oltre sei anni sono stato l’ombra di mia madre impegnata a fare i suoi primi spettacoli da attrice professionista, più che altro caratterista professionista. Ero chiuso in me stesso, in una parte molto oscura della mia anima e desideravo arrivare al teatro per trovare la mia voce.

Poi arrivò “Mialinu”: correva l’anno 1998 e Enzo Parodo doveva stare in scena, quindi gli serviva qualcuno che mettesse le musiche durante le prove. Era la mia occasione.

Con un enorme senso di responsabilità e altrettanta frustrazione mi impegnai al massimo per far partire la traccia audio secondo copione, interrompendola dopo una determinata battuta, facendola sfumare dopo una data azione o abbassandone il volume affinché diventasse il sottofondo richiesto. Da lì a poco mi chiese anche di “dare le luci” pronunciando a voce alta ogni luce segnata nel copione, compito che affrontavo come se quel “Luce 2!” o “Buio!” fossero le battute del personaggio protagonista dello spettacolo più importante del mondo: fin da allora affronto ogni cosa abbia a che vedere col teatro come se ne andasse delle sorti dell’umanità, anche perché credo che se non dessi importanza io a ciò che faccio, chi gliela dovrebbe dare?

Ci misi tutto il mio pur di dimostrare affidabilità e dedizione e forse ci riuscì fin troppo bene dato che a 15 anni diventai assistente alla regia dando le indicazioni ai tecnici durante gli spettacoli: ero felice della fiducia che mi era stata accordata ma ovviamente dispiaciuto di non avere un ruolo sul palcoscenico. Prima di ogni spettacolo stavo sempre in camerino a respirare quell’aria elettrica piena di gioia e subito dopo lo spettacolo abbracciavo e baciavo tutti per aver anche io un po’ di quel sudore addosso, per sentire i costumi di scena madidi, i cuori palpitare e i corpi fremere per la fatica. Se all’epoca avessi potuto immaginare cosa significasse essere qualcuno, ecco: io ero qualcuno. Sempre considerandomi l’ultima ruota del carro, sempre mascotte del gruppo (e quindi bistrattato e deriso, poco considerato), io però ero frustrato ma allo stesso tempo ero felice perché “lavoravo” in teatro.

Semplicemente non c’era spazio per me nei loro copioni: dopo “Mialinu” arrivò “Su stani” e mi ritrovai a calcare le scene con loro soltanto nel 2005 con “Rimas de Casteddu”. Non sapevo che mi stavano regalando una gavetta impagabile perché infatti ho iniziato a imparare il mio mestiere guardandoli per anni dal momento della prima lettura del testo fino all’ultima replica davanti al pubblico.

Conoscevo tutto a memoria: ogni battuta, ogni nota, ogni copione tecnico, ogni tic, mania e vizio degli attori. Quelle persone mi hanno insegnato a recitare senza saperlo. Potevo sostituirli benissimo e in qualsiasi momento (e infatti in qualche prova è successo). Ho imparato da loro quasi tutte le basi del mestiere e anche a come ci si comporta e come non ci si comporta sopra e giù dal palco. Non sono stati tutti esempi umani e artistici sempre e solo positivi, ma è anche per questo che credo di aver assimilato bene tutte le cose che so. Ero lì a dire ai tecnici quando mettere quella traccia musicale e quando preparare il cambio luce, loro mi trattavano come una seccatura e un po’ riluttanti eseguivano perché dovevano, ma piano piano guadagnai un’autorità morale ai loro occhi. Se le cose andavano bene mi sentivo parte di una grande famiglia, quando le cose sono andate male mi sono sentito in colpa fino alle lacrime. 

Avevo quindici anni e sentivo una grande responsabilità sulle spalle. Ma io volevo recitare. Ho dovuto aspettare che un attore si ammalasse per sostituirlo a dieci giorni dallo spettacolo: la prima delle botte di fortuna della mia carriera. Ma questo ve lo racconto la prossima volta.

Andrea Ibba Monni

(continua…)

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