Alcuni anni fa con Ferai Teatro partecipavamo ad un workshop tenuto a Cagliari da Eugenio Barba, fondatore e direttore dell’Odin Teatret. Nel parlare del mestiere dell’attore, tra le considerazioni che mi rimasero più impresse ricordo l’esempio della penna. Ve lo riporto di seguito, così come lo ricordo.
Ora, supponete di tenere in mano una penna. Fatelo, fate il gesto, senza avere fisicamente alcuna penna in mano. Recitate, come se la penna fosse tra le vostre dita, tra il pollice e l’indice. Poi, andare a prendere in mano una vera penna. Sentitene il peso, il modo in cui sta in equilibrio, la pressione che esercitano i vostri polpastrelli sulla penna, la sensazione della plastica al tatto, la temperatura della penna, sentite tutto.
Adesso, ripetiamo il primo esercizio: andiamo a recitare di tenere in mano una penna che non abbiamo effettivamente più in mano. Ci renderemo conto che ciò che stiamo recitando ora è molto diverso, perché nella nostra mente abbiamo impresso il peso, la temperatura, il materiale, la sensazione e il ricordo della penna che prima avevamo in mano. Allo stesso modo per poter recitare dovremo andare a ricavare nei nostri ricordi sensazioni ed esperienze vissute in prima persona e dar loro nuovamente vita.
Ricordo bene quest’esercizio perché la stessa sera mi capitò di discuterne con un’altra persona, un’aspirante attrice, che sosteneva fosse una tesi falsa. Perché secondo lei il mestiere dell’attore non è rivivere le proprie esperienze, ma fingere ciò che viene richiesto dal ruolo da recitare. Allora io le dissi:
“Ma, supponi che in scena si debba recitare un orgasmo, credi che una persona che non ha mai provato un orgasmo sarebbe in grado di recitarlo?”
“Certo, è proprio questo il tuo lavoro.”
“Ma come fai a recitare un orgasmo che non hai mai provato?”
“Perché lo sai fare, perché l’hai visto da altri.”
“Imiti ciò che, per esempio, hai visto fare nei film?”
“Esatto.”
“E pensi di recitarlo con la stessa credibilità di chi l’ha vissuto?”
“Se sono brava sì!”
Io non sono tutt’ora d’accordo. Penso che bisogna esplorare il proprio bagaglio emotivo e di vita per poter essere un attore credibile. Non dico che per poter recitare, che ne so, il dolore del lutto, uno debba aver vissuto quel lutto nello specifico, ma deve aver sofferto per qualcosa e attingere a quel ricordo per poter far vivere il dolore che deve andare a recitare. Se davvero il nostro lavoro fosse quello di fingere, imitando ciò che abbiamo visto recitare agli altri attori, saremmo tutti attori dentro una caverna. Come nel mito di Platone, saremmo rinchiusi in una caverna e guarderemmo le ombre proiettate sulla parete di pietra, considerando quella la realtà, senza renderci conto che stiamo guardando ombre, e che il mondo vero, le emozioni vere, la vera recitazione, sono fuori da questa caverna, in un mondo fatto di esperienze, di vita, di diversità, di confronti. E se noi dovessimo salire su un palco, per recitare le ombre che ci siamo esercitati ad imitare, il pubblico che ha vissuto nel mondo reale capirebbe subito che stiamo recitando ombre, che non siamo credibili, non siamo sinceri, non siamo reali, il pubblico vedrebbe subito che siamo aridi.
Sterili.
Ombre senza vita.
Ilenia Cugis