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La mia Ferai – prima parte (di Andrea Ibba Monni)

Per sostenere la raccolta fondi a favore di Ferai Teatro in piena emergenza Covid ho registrato frettolosamente un video di tre minuti (questo qui) in cui ho cercato di contenere le mie emozioni dal momento che non sono riuscito a contenere capelli e occhiaie. Per cui eccomi qui: pettinatissimo e con un incarnato perfetto (auch! peccato non possiate vedermi eh!) ma col cuore libero da ogni ritegno. Signore e signori questa è la versione del tutto personale e inevitabilmente sentimentale di come e quando è nata Ferai Teatro nel 2007, scritta di getto, spontaneamente e come se non l’avessi già raccontata mille volte: ma questa è stata la mia prima (e fino ad oggi unica) svolta epocale di vita. Se non fosse successo tutto quel che sto per raccontarvi forse ora sarei un mediocre giornalista televisivo alla disperata ricerca del modo di partecipare a un reality qualunque.

Nel novembre del 2005 il grande Pierfranco Zappareddu mi taglia fuori dalla produzione “Nei sensi la vita” e ci resto così male che non lo sento per i sei mesi successivi finché leggo sul giornale che il suo nuovo spettacolo era stato “rimandato”. Lo chiamo, gli lascio un messaggio in segreteria in cui gli dico “se serve son qui” sentendomi Bruce Wayne che scruta il cielo di Gotham City. Una settimana dopo sono sul palco del Teatro delle Saline Akroama protagonista di “Che tu sia per me il coltello”.

Tra il pubblico un’ex attrice di Zappareddu: lei evidentemente più permalosa di me dato che non lo sentiva da vent’anni e proprio quella volta era tornata da lui. Questa ex attrice ora aveva velleità registiche e una produzione in ballo col Teatro Alkestis (tenete bene in mente questo nome) e voleva che io partecipassi al progetto. Così è stato: va in scena “Voci nel buio” nella cui produzione c’era un ragazzo di vent’anni, Ga’.

Da lì a poco ci ritroviamo a chiacchierare a lungo, decidiamo di vederci il giorno dopo e di andare in spiaggia a finire la conversazione: era l’8 luglio 2007 e per otto ore non facciamo altro che parlare stesi sulla sabbia l’uno accanto all’altro. Il giorno dopo la mia guancia destra e la sua sinistra presentano ustioni importanti, letteralmente: eravamo deturpati ma innamorati.

Ferai nasce praticamente subito: lui sta scrivendo una tesi per il DAMS di Bologna sul Baratto Teatrale dell’Odin Teatret, io lo porto da Zappareddu che si è formato in Danimarca con Eugenio Barba e che ha portato il Baratto in Sardegna. Ovviamente Pierfranco non se lo lascia scappare e insieme facciamo “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” ma questa è un’altra storia meravigliosa.

Stanchi di fare spettacoli d’altri? Forse. Più che altro con una gran voglia di fare cose nostre gli offro di partecipare come insegnante al mio laboratorio presso l’oratorio della Chiesa di Santa Lucia (ne parlerò in seguito) e scopro la generosità e la passione di un’anima più che bella. Va be’ avete capito che per me lui è tutto.

Abbiamo conosciuto la fame, la nostra spesa settimanale non superava mai i 10 euro (grazie ai migliori discount a disposizione), ci facevamo invitare spesso alla tavola di sua sorella Consuelo con una scusa o con l’altra per mangiare qualcosa di buono, lui faceva volantinaggio e ripetizioni di inglese, io facevo ripetizioni di qualunque materia (e diamine se li facevo sgobbare quegli asinelli!) ma soprattutto insieme facevamo teatro: “Sangue d’angelo” ed “Air can hurt you” i nostri primi lavori insieme.

Di seguito il dialogo accaduto per la scelta del nome della neonata compagnia:

IO – Come ci chiamiamo? Ci serve un nome!

GA’ – I nomi devono portare fortuna, dice Pierfranco…

IO – Il nome del primo spettacolo dell’Odin?

GA’ – Uhm, troppo cacofonico “Ornitofilene”

IO – Il secondo? Oddio che difficile “Min fars hus”

GA’ – Ma il terzo si chiama “Ferai

Eccoci, siamo nati. E ora volevamo fare la storia: la nostra personale, vera, lunga, tortuosa e perché no, magari quella dei libri di storia. Stiamo puntando alto? E allora miriamo alle stelle e ai pianeti se il cielo non basterà.

La storia continuerà.

Andrea Ibba Monni

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L’attore nella caverna (di Ilenia Cugis)

Alcuni anni fa con Ferai Teatro partecipavamo ad un workshop tenuto a Cagliari da Eugenio Barba, fondatore e direttore dell’Odin Teatret. Nel parlare del mestiere dell’attore, tra le considerazioni che mi rimasero più impresse ricordo l’esempio della penna. Ve lo riporto di seguito, così come lo ricordo.

Ora, supponete di tenere in mano una penna. Fatelo, fate il gesto, senza avere fisicamente alcuna penna in mano. Recitate, come se la penna fosse tra le vostre dita, tra il pollice e l’indice. Poi, andare a prendere in mano una vera penna. Sentitene il peso, il modo in cui sta in equilibrio, la pressione che esercitano i vostri polpastrelli sulla penna, la sensazione della plastica al tatto, la temperatura della penna, sentite tutto.

Adesso, ripetiamo il primo esercizio: andiamo a recitare di tenere in mano una penna che non abbiamo effettivamente più in mano. Ci renderemo conto che ciò che stiamo recitando ora è molto diverso, perché nella nostra mente abbiamo impresso il peso, la temperatura, il materiale, la sensazione e il ricordo della penna che prima avevamo in mano. Allo stesso modo per poter recitare dovremo andare a ricavare nei nostri ricordi sensazioni ed esperienze vissute in prima persona e dar loro nuovamente vita.

Ricordo bene quest’esercizio perché la stessa sera mi capitò di discuterne con un’altra persona, un’aspirante attrice, che sosteneva fosse una tesi falsa. Perché secondo lei il mestiere dell’attore non è rivivere le proprie esperienze, ma fingere ciò che viene richiesto dal ruolo da recitare. Allora io le dissi:

“Ma, supponi che in scena si debba recitare un orgasmo, credi che una persona che non ha mai provato un orgasmo sarebbe in grado di recitarlo?”

“Certo, è proprio questo il tuo lavoro.”

“Ma come fai a recitare un orgasmo che non hai mai provato?”

“Perché lo sai fare, perché l’hai visto da altri.”

“Imiti ciò che, per esempio, hai visto fare nei film?”

“Esatto.”

“E pensi di recitarlo con la stessa credibilità di chi l’ha vissuto?”

“Se sono brava sì!”

Io non sono tutt’ora d’accordo. Penso che bisogna esplorare il proprio bagaglio emotivo e di vita per poter essere un attore credibile. Non dico che per poter recitare, che ne so, il dolore del lutto, uno debba aver vissuto quel lutto nello specifico, ma deve aver sofferto per qualcosa e attingere a quel ricordo per poter far vivere il dolore che deve andare a recitare. Se davvero il nostro lavoro fosse quello di fingere, imitando ciò che abbiamo visto recitare agli altri attori, saremmo tutti attori dentro una caverna. Come nel mito di Platone, saremmo rinchiusi in una caverna e guarderemmo le ombre proiettate sulla parete di pietra, considerando quella la realtà, senza renderci conto che stiamo guardando ombre, e che il mondo vero, le emozioni vere, la vera recitazione, sono fuori da questa caverna, in un mondo fatto di esperienze, di vita, di diversità, di confronti. E se noi dovessimo salire su un palco, per recitare le ombre che ci siamo esercitati ad imitare, il pubblico che ha vissuto nel mondo reale capirebbe subito che stiamo recitando ombre, che non siamo credibili, non siamo sinceri, non siamo reali, il pubblico vedrebbe subito che siamo aridi.

Sterili.

Ombre senza vita.

Ilenia Cugis