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Le voci di Ferai: Andrea Mura (di Roberta Mossa)

Ciao Andrea, come sempre, parlaci un po’ di te: come ti presenteresti ai nostri lettori?

Ho 37 anni, nella vita faccio il parrucchiere ma sempre ho svariati hobby in campo artistico, penso alla pittura e al disegno ma anche la costruzione di oggetti, il cosplay, la fotografia, la scrittura e tanto altro, e da qualche anno mi sono avvicinato al teatro. Ho partecipato a varie produzioni Ferai sia come allievo di laboratorio che come regista e attore/performer di alcuni spettacoli di compagnia.

Come hai iniziato a fare teatro?

La risposta è buffa. Ero in un chiosco del Poetto e ho incontrato Andrea Ibba Monni e Ga’. Seguivo già Ferai come spettatore da tempo e mentre chiacchieravamo hanno invitato me e Fabrizio Ippoliotti a partecipare alla lezione di prova della classe di laboratorio la Fenice. Da li… Beh è partito il delirio! Il primo anno ho fatto tre spettacoli, due con la Fenice e uno con la classe del venerdì che faceva commedia musicale. Ho sempre visto spettacoli di vario genere, da quando andavo a scuola alle medie però non avevo mai pensato di recitare. È nato tutto per caso, ma non mi sono mai pentito di aver iniziato… Anche se la mia prima esperienza recitativa fu come tamburino, avevo 8 o 10 anni, per una recita in chiesa! (ride)

La tua esperienza più importante?

Dal punto di vista recitativo mi ha colpito molto sia “Libera nos a malo” (recitavo la parte di Guido Lobina), sia lo Spaventapassere di “Wonderful Oz”. Due personaggi totalmente diversi con cui ho dovuto cimentarmi in due spettacoli consecutivi ma che mi hanno messo parecchio alla prova, entrambi da un punto di vista molto personale. Parlare di certi argomenti ti porta a mettere in discussione alcune cose della tua vita o approfondire dei lati totalmente estranei e non sempre lo capisci nell’immediato: a volte arriva tempo dopo, come una eco lontana. Però ti rimane dentro. La scena tra Guido e Giovanni in “Libera nos a malo” mi colpì talmente tanto che piansi fisicamente sul palco. (Guido e Giovanni erano segretamente amanti e si dicevano addio, ndr). Da un punto di vista fisico, anche emotivo, ma sopratutto fisico, mi ha colpito molto “H168”. Fisico perché a causa di un dolore fisico che ho scoperto essere coliche renali, abbandonai lo spettacolo e rimpiango ancora il non averlo terminato. Ma mi dovevo fermare. L’arte si ferma quando viene meno il controllo del corpo.

Cosa pensi dell’arte performativa?

L’arte performativa ti permette di comunicare utilizzando mezzi multipli, mi piace soprattutto questo aspetto. Puoi utilizzare molteplici materiali, molteplici insiemi artistici mischiando tutto… mi spiego meglio: puoi ballare mentre urli e costruisci qualcosa, o stare immobile o costruire un’installazione in cui vivere qualche attimo indimenticabile o riflessivo. Collegandomi ad “H168” penso a “The Buddah’s Hideway” la caverna che ho fatta di luce e origami.

E… riguardo “H168”?

La mia esperienza in “H168” non la saprei definire. Se mi chiedi se mi aspettavo di vivere quello che ho vissuto ti dico a mente fredda assolutamente no. Sicuramente mi ha colpito, anche artisticamente: ho capito che alcune cose che uno ha in mente non sempre riescono nella pratica come le avevi immaginate, non sempre la gente capisce cosa vuoi dire o ti vive passivamente come spesso si fa nei musei. Ma il bello dell’arte performativa è anche quello! “Rapsodia:Stamina” era concepita diversamente, anche se ho partecipato in minima parte, per me è stata un esperienza più “lineare”, usiamo questo termine.

Concordo sul fatto che “H168” sia stata un’esperienza imprevedibile! Hai dei progetti per il futuro riguardo – anche – il teatro performativo?

Sì, sto lavorando a un progetto, momentaneamente sospeso causa Covid-19 per rischio di assembramento sul palco (ride). È un progetto che sto portando avanti con Ga’, anche a livello di regia e sviluppo perfomance, con la collaborazione di alcuni membri dello staff e un performer esterno a Ferai. Per quanto riguarda i temi trattati, ma non voglio anticipare nulla, sono molto attuali in questo periodo. Spero prima o poi si possa riprendere il lavoro. Il mio rapporto con l’arte è variabile e vario, spazio in molti ambiti in base all’ispirazione e al periodo. La performance teatrale aiuta anche a conciliare tutte queste cose.

Come stai lavorando alla regia di questo progetto? Cosa consiglieresti a chi affronta l’esperienza di regista per la prima volta?

La regia di questo spettacolo sarà un po’ elaborata, poi il progetto è nato da poco tempo perciò ci sono tante cose che dovranno cambiare, è un lavoro che si effettua in corso d’opera. La mia prima esperienza di regia è stata molto particolare: per “Vincenzo, l’uomo diventato Santo” non avevo nessuna nozione di regia, mi sono ispirato ad altre cose che avevo visto ma alla fine come prima esperienza credo sia uscito un lavoro discreto. Solo con “Vincenzo, l’uomo diventato Santo” ho affrontato un’esperienza di regia individuale, adesso invece, sia con “TV all you can eat” (titolo provvisorio) che con lo spettacolo performativo mi sto confrontando con la regia collettiva, che forse è più semplice da un certo punto di vista perché hai la possibilità di confrontarti con altre persone e si riesce a focalizzare meglio attenzioni e idee. Sto ancora esplorando il mondo della regia, l’unico consiglio che darei sulla base della mia esperienza è questo: la prima idea spesso si rivela la migliore e se è forte bisogna portarla avanti. Vedere spettacoli con un occhio diverso aiuta ad imparare tanto e a dare suggerimenti. Sicuramente è più facile gestire una regia per se stessi, rispetto ad una regia che comporta il dirigere altre persone. Gli errori e i fallimenti, come i successi, fanno crescere e capire come non ripetere gli stessi “errori”. Ma la parola errore è relativa, preferisco la parola esperienza.

Roberta Mossa

Le voci di Ferai: Raffaella Ruiu (di Roberta Mossa)

Ciao Raffaella, piccola introduzione: chi sei, di cosa ti occupi, insomma come ti presenteresti ai nostri lettori?

Ho sempre avuto un po’ di difficoltà con le presentazioni, mi sembra di dover per forza mettere un’etichetta e fissare dei paletti su chi sono. In ogni caso ci provo.

La presentazione è sempre la parte più difficile!

Mi chiamo Raffaella, ho festeggiato i miei 39 anni in lockdown ma ho la fortuna di avere persone speciali nella mia vita che lo hanno reso comunque bello. Sono socia fondatrice e lavoro per l’Associazione Codice Segreto Onlus che si occupa di attività artistiche, ricreative e di stimolo per l’autonomia individuale per giovani e meno giovani con disabilità intellettiva. Codice Segreto è la mia seconda famiglia, il mio porto sicuro, una delle cose fondamentali della mia vita. Sono curiosa, testarda, affidabile, puntigliosa e rompiscatole.

Una mia curiosità Raffaella: come e perché sei arrivata a Codice Segreto?

Codice Segreto nasce ufficialmente nel 2010 dalla volontà di un gruppo di amici, che facevano parte di un’associazione culturale che si occupava teatro amatoriale, di creare qualcosa di proprio e condividere la loro passione per il palcoscenico. Ufficiosamente nasce molto prima, nel 2008 quando alcuni di quegli amici hanno vissuto settimana intensa di volontariato durante una manifestazione sportiva con atleti diversamente abili. Quella settimana ha lasciato un segno importante nell’animo di tutti e da lì è stato più che naturale che le strade si intrecciassero fino a diventare un’unica realtà.

Quindi si può dire che la fondazione di Codice e la passione per il teatro sono andati – quasi – di pari passo?

Diciamo che prima che Codice nascesse il teatro faceva già parte della mia vita, in maniera differente. Quello che accomuna queste realtà all’interno della mia vita è sicuramente la voglia di fare sempre qualcosa di nuovo, di salire un altro gradino. Con tutta l’ansia, la paura e i pensieri che questo comporta nella mia mente fin troppo sincronizzata con la routine quotidiana. La novità è fonte di effervescenza, ma anche di preoccupazione, sempre.

La cosa più bella del tuo lavoro?

Credo la certezza di sapere che avrò sempre qualcuno accanto, nei momenti felici, come in quelli tristi, nelle scelte e nei tentennamenti. E gli sguardi, quegli occhi che ti scandagliano dentro in venti secondi senza darti il tempo di nascondere niente. E gli abbracci, quelli che ora mi mancano.

Ecco, come ve la siete cavata col lockdown? I ragazzi l’hanno vissuta bene, siete riusciti a continuare le attività?

È stato un po’ difficoltoso. Alcune attività si sono necessariamente dovute interrompere perché comportano le necessità di una presenza fisica, altre sono continuate con i metodi telematici a disposizione: ci sono state e ci sono attività didattiche, attività di supporto e di ascolto, videochiamate multiple e infinite, dirette facebook, messaggi… insomma, tutto ciò che può servire perché i progressi ottenuti durante tutto l’anno non vadano persi e per continuare ad essere presenti nonostante la lontananza fisica forzata.

E invece riguardo il teatro qual è lo spettacolo di Ferai che hai amato di più? Io personalmente ho adorato Ada in “Maria Gratia Plena” e anche in “Libera nos a malo” ma scommetto che è stato anche il tuo preferito!

Ada Lobina è certamente un personaggio che, una volta incontrato, ti rimane attaccato addosso, si ruba un pezzetto della tua anima, quindi si, posso dire che “Maria Gratia Plena” e “Libera nos a malo” siano gli spettacoli a cui sono più legata. Però c’è un altro spettacolo a cui sono particolarmente legata, “Silvery Fox”, per la libertà assoluta con cui l’ho vissuto e per tutti i rimandi che si è portato dietro e che ritornano, sempre.

Hai affrontato l’esperienza di fare la regia de “La Passione che ha salvato il mondo”. Com’è stato? Cosa consiglieresti a chi decide per la prima volta di fare la regia di uno spettacolo?

Una regia è sicuramente impegnativa e mette in campo energie e metodologie totalmente diverse da quelle che si utilizzano da “semplice” attore. Devi trasformare tutte le immagini, le sensazioni, gli odori, i movimenti che hai nella tua testa in qualcosa che possa suscitare le stesse emozioni in chi guarda. L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di buttarsi, di non aver paura di tentare e poi correggere di prova in prova le intuizioni avute, in base a ciò che si crea quando le diverse anime che lavoreranno a quello spettacolo si incontrano. Inizialmente ero spaventata all’idea, ma poi piano piano tutto si è sciolto, anche grazie agli splendidi colleghi con cui ho avuto la fortuna di lavorare.

Hai in programma di scrivere qualcosa di tuo?

Scrivere mi è sempre piaciuto. Per il momento ti dico di no, ma in futuro, chissà…

Roberta Mossa