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Ferai Teatro: “Hole of fame” di Andrea Ibba Monni

Vogliamo che siate parte attiva e vitale e che possiate letteralmente entrare dentro le nostre storie. Non vogliamo emozionarvi, non ci basta più: vogliamo portarvi dentro, in profondità, insieme a noi.

Ferai Teatro presenta la prima edizione di “Hole of Fame” di Andrea Ibba Monni, un vero e proprio viaggio che comincerà nel momento della prenotazione e terminerà il giorno dopo il nostro incontro. Ma non vogliamo svelarvi tutto e subito, lo scoprirete…

Con (in ordine di apparizione): Davide Sitzia, Andrea Mura, Andrea Oro, Claudia Congiu, Matteo Genco, Cristian Casanova, Giulia Maoddi, Clotilde Cocco, Andrea Vargiu, Francesca Cabiddu e Ga’.

Saranno ammesse un massimo di venti persone alla volta.

Date e orari:

sabato 7 maggio – prima recita alle ore 19:00, replica alle ore 21:00;

domenica 8 maggio – spettacolo unico alle ore 19:00;

sabato 14 maggio – prima recita alle ore 19:00, replica alle ore 21:00;

domenica 15 maggio – spettacolo unico alle ore 19:00.

Il biglietto unico costa 10 euro e si può acquistare esclusivamente presso la Silvery Fox Factory, via Dolcetta 12 a Cagliari, nei giorni e negli orari concordabili telefonicamente al 3755789748 (non sarà possibile acquistare il biglietto nei giorni di spettacolo)*

*I biglietti prenotati dovranno essere ritirati entro le giornate di venerdì 6 (per il primo week end di recite) e venerdì 13 (per l’ultimo week end di repliche)

Le voci degli artisti: Roberta Locci (di Ga’)

Roberta Locci è attrice, insegnante di recitazione, drammaturga, regista e aiuto-regista, ha una carriera dedicata alla formazione, alla ricerca – come dice lei stessa – non finalizzate a un punto di vista assoluto ma sempre in ascolto di un limite, uno sguardo diretto alle possibilità della ricerca. Nel curriculum di Roberta troviamo nomi celebri, da Claudia Castellucci, Else Marie Laukvik dell’Odin Teatret, Sainkho Namchylak, fino a Zigmunt Molik e questo solo per citare in modo riduttivo alcuni dei tanti, solo per farci l’idea di un’artista che in quanto tale non ha mai rinunciato alla formazione e al confronto continuo con realtà esterne e il cui lavoro ultimamente è direzionato particolarmente alla formazione dei più giovani (anagraficamente parlando) vediamo in che modo, nella nostra intervista.

GA’: Bene, come sai l’intervista verrà pubblicata su OFF il magazine online di Ferai Teatro e come sai ti ho promesso un’intervista assolutamente non-pretestuosa, ma partiamo da una domanda abbastanza pretestuosa per scongiurare il tutto, e la domanda è: Chi è Roberta Locci? Dovessi rispondere io per quel che so, ci sarebbero molte risposte diverse, tanti ambiti, la tua risposta invece… è ?

ROBERTA LOCCI: La risposta è credo semplice: sono quello che vedi tu, quello che vedono gli altri o ciò che non sempre si vede ma che in un modo o nell’altro si manifesta.

Ciò che non si vede, ma in qualche modo si manifesta, potrebbe sembrare un tema artistico che ti è caro più di altri? O sbaglio? Personalmente per esempio mi affascina il lato immateriale delle arti, musica, pittura astratta, arte concettuale in genere, è così anche per te? O … meno?

Sì direi di sì anche se non è assoluto, a volte trovo fascino e bellezza dove non avrei mai detto di poter trovare

Assolutamente, Zappareddu ad esempio (e tanti altri) affermava che “se ti prende, se ti è emoziona” è sempre “primo teatro” che sia uno spettacolo performativo e tecnologico o che sia il più tradizionale Amleto russo. Andando su cose attuali, come stai passando questo periodo, mi fai una sintesi alla russa di come hai passato/passi da artista questa quarantena?

Mi sono FERMATA. Sono sospesa, non so come spiegarti il mio stato, è come se avessi bisogno di stare immobile a guardare. Leggo, guardo film, imparo a cucire, e faccio la badante provvisoria.

Saper cucire è utile in mille occasioni. La badante provvisoria? Dimmi dimmi

La badante è proprio un’esperienza, ho uno zio prete e una zia zitella che vivono insieme e sono entrambi molto vecchi. In questo periodo sono stati “abbandonati” dalla signora che si occupava di loro. Ora ci vado io un giorno sì e uno no. Occuparsi di due corpi fragili e inermi è toccante. Gioco a palletta con lo zio e faccio dipingere la zia. Un mondo sospeso anche il loro.

Un’esperienza, decisamente. A me capita che, avendo più tempo, che oltre allo studio personale, ci sia anche uno strano ascolto, un ascolto diverso della creatività, a te sta capitando? Sentire che ci sono idee nell’aria, che anche se sei ferma c’è qualcosa che cova da qualche parte, oppure è solo un “ferma ferma ferma”?

Per quanto riguarda l’ascolto di ciò che accade è confuso. Mi ritrovo a volte infastidita da alcune idee di “ripresa”, ma la mia testa non è ferma.

Senti, mi racconti, così come ti viene un’esperienza artistica che ti ha segnata, ma che non rifaresti e una che invece rifaresti anche adesso.

Un’esperienza che mi ha segnata… Ora mi/ti spiazzo. Il lavoro con la scuola Meucci lo scorso anno: un lavoro laboratoriale difficilissimo ma che mi ha fatto capire di cosa mi voglio occupare. Ormai da anni sono proiettata al lavoro con e per i giovani e giovanissimi. Scontrarmi con una realtà giovanile così complicata ha risvegliato in me la voglia di cambiare il mondo. Quella che ti spinge verso il processo artistico, la voglia di sporcarti le mani, senza patine, senza voler mostrare, con onestà profonda, intima. Lavorare per dare uno strumento in mano ad altri “di poter dire” per poter esistere fuori dall’etichetta comune. Ecco un po’ questo, l’esperienza artistica che non rifarei invece non te la dico!

Posso almeno immaginarla? Forse posso.

Beh, hai scelta. Scherzo!

Per concludere, visto che il tempo è poco, ti chiedo proprio questo, il tuo prossimo lavoro quindi sarà orientato in tal senso, aldilà che ora siamo fermi, ma la testa no, l’obiettivo è rilavorare con giovani con cui studiare questi strumenti o prenderai qualcosa anche “per te” per un tuo lavoro in solitaria o in compagnia?

Beh lo sguardo è in quella direzione ma non è assoluto. Uso il termine sguardo non a caso. È il suo limite ciò che mi interessa. Quello che di solito non vediamo perché impegnati a mettere a fuoco ciò che ci appare come immagine principale, in fondo qualsiasi progetto affronterò ruoterà sempre sugli stessi concetti. Io lavoro sempre sulle stesse cose in fondo.

Il Teatro racconta le cose della vita, limitate e sempre quelle, ma appunto, non è il concetto, è probabilmente il come, è il limite, lo sguardo di cui parli ciò che fa dire “ricercare ha senso.” Io direi che siamo stati bravissimi a stare nei brevi tempi a disposizione, spero che parleremo dei reciproci “sguardi” presto di persona, anzi, non presto: ma nel tempo giusto.

GA’

Le voci di Ferai: Andrea Mura (di Roberta Mossa)

Ciao Andrea, come sempre, parlaci un po’ di te: come ti presenteresti ai nostri lettori?

Ho 37 anni, nella vita faccio il parrucchiere ma sempre ho svariati hobby in campo artistico, penso alla pittura e al disegno ma anche la costruzione di oggetti, il cosplay, la fotografia, la scrittura e tanto altro, e da qualche anno mi sono avvicinato al teatro. Ho partecipato a varie produzioni Ferai sia come allievo di laboratorio che come regista e attore/performer di alcuni spettacoli di compagnia.

Come hai iniziato a fare teatro?

La risposta è buffa. Ero in un chiosco del Poetto e ho incontrato Andrea Ibba Monni e Ga’. Seguivo già Ferai come spettatore da tempo e mentre chiacchieravamo hanno invitato me e Fabrizio Ippoliotti a partecipare alla lezione di prova della classe di laboratorio la Fenice. Da li… Beh è partito il delirio! Il primo anno ho fatto tre spettacoli, due con la Fenice e uno con la classe del venerdì che faceva commedia musicale. Ho sempre visto spettacoli di vario genere, da quando andavo a scuola alle medie però non avevo mai pensato di recitare. È nato tutto per caso, ma non mi sono mai pentito di aver iniziato… Anche se la mia prima esperienza recitativa fu come tamburino, avevo 8 o 10 anni, per una recita in chiesa! (ride)

La tua esperienza più importante?

Dal punto di vista recitativo mi ha colpito molto sia “Libera nos a malo” (recitavo la parte di Guido Lobina), sia lo Spaventapassere di “Wonderful Oz”. Due personaggi totalmente diversi con cui ho dovuto cimentarmi in due spettacoli consecutivi ma che mi hanno messo parecchio alla prova, entrambi da un punto di vista molto personale. Parlare di certi argomenti ti porta a mettere in discussione alcune cose della tua vita o approfondire dei lati totalmente estranei e non sempre lo capisci nell’immediato: a volte arriva tempo dopo, come una eco lontana. Però ti rimane dentro. La scena tra Guido e Giovanni in “Libera nos a malo” mi colpì talmente tanto che piansi fisicamente sul palco. (Guido e Giovanni erano segretamente amanti e si dicevano addio, ndr). Da un punto di vista fisico, anche emotivo, ma sopratutto fisico, mi ha colpito molto “H168”. Fisico perché a causa di un dolore fisico che ho scoperto essere coliche renali, abbandonai lo spettacolo e rimpiango ancora il non averlo terminato. Ma mi dovevo fermare. L’arte si ferma quando viene meno il controllo del corpo.

Cosa pensi dell’arte performativa?

L’arte performativa ti permette di comunicare utilizzando mezzi multipli, mi piace soprattutto questo aspetto. Puoi utilizzare molteplici materiali, molteplici insiemi artistici mischiando tutto… mi spiego meglio: puoi ballare mentre urli e costruisci qualcosa, o stare immobile o costruire un’installazione in cui vivere qualche attimo indimenticabile o riflessivo. Collegandomi ad “H168” penso a “The Buddah’s Hideway” la caverna che ho fatta di luce e origami.

E… riguardo “H168”?

La mia esperienza in “H168” non la saprei definire. Se mi chiedi se mi aspettavo di vivere quello che ho vissuto ti dico a mente fredda assolutamente no. Sicuramente mi ha colpito, anche artisticamente: ho capito che alcune cose che uno ha in mente non sempre riescono nella pratica come le avevi immaginate, non sempre la gente capisce cosa vuoi dire o ti vive passivamente come spesso si fa nei musei. Ma il bello dell’arte performativa è anche quello! “Rapsodia:Stamina” era concepita diversamente, anche se ho partecipato in minima parte, per me è stata un esperienza più “lineare”, usiamo questo termine.

Concordo sul fatto che “H168” sia stata un’esperienza imprevedibile! Hai dei progetti per il futuro riguardo – anche – il teatro performativo?

Sì, sto lavorando a un progetto, momentaneamente sospeso causa Covid-19 per rischio di assembramento sul palco (ride). È un progetto che sto portando avanti con Ga’, anche a livello di regia e sviluppo perfomance, con la collaborazione di alcuni membri dello staff e un performer esterno a Ferai. Per quanto riguarda i temi trattati, ma non voglio anticipare nulla, sono molto attuali in questo periodo. Spero prima o poi si possa riprendere il lavoro. Il mio rapporto con l’arte è variabile e vario, spazio in molti ambiti in base all’ispirazione e al periodo. La performance teatrale aiuta anche a conciliare tutte queste cose.

Come stai lavorando alla regia di questo progetto? Cosa consiglieresti a chi affronta l’esperienza di regista per la prima volta?

La regia di questo spettacolo sarà un po’ elaborata, poi il progetto è nato da poco tempo perciò ci sono tante cose che dovranno cambiare, è un lavoro che si effettua in corso d’opera. La mia prima esperienza di regia è stata molto particolare: per “Vincenzo, l’uomo diventato Santo” non avevo nessuna nozione di regia, mi sono ispirato ad altre cose che avevo visto ma alla fine come prima esperienza credo sia uscito un lavoro discreto. Solo con “Vincenzo, l’uomo diventato Santo” ho affrontato un’esperienza di regia individuale, adesso invece, sia con “TV all you can eat” (titolo provvisorio) che con lo spettacolo performativo mi sto confrontando con la regia collettiva, che forse è più semplice da un certo punto di vista perché hai la possibilità di confrontarti con altre persone e si riesce a focalizzare meglio attenzioni e idee. Sto ancora esplorando il mondo della regia, l’unico consiglio che darei sulla base della mia esperienza è questo: la prima idea spesso si rivela la migliore e se è forte bisogna portarla avanti. Vedere spettacoli con un occhio diverso aiuta ad imparare tanto e a dare suggerimenti. Sicuramente è più facile gestire una regia per se stessi, rispetto ad una regia che comporta il dirigere altre persone. Gli errori e i fallimenti, come i successi, fanno crescere e capire come non ripetere gli stessi “errori”. Ma la parola errore è relativa, preferisco la parola esperienza.

Roberta Mossa

La mia Ferai – quinta parte (di Andrea Ibba Monni)

È il 2015 quando un gruppetto di ragazz* dell’Università di Cagliari ci propone una collaborazione per la loro neonata associazione che si chiama UnicaLGBT. Nascono progetti di laboratori gratuiti trimestrali per gli associati e esperienze di teatro per i Diritti Civili, sono anni meravigliosi di progetti entusiasmanti che vedono coinvolto un numero sempre crescente di partecipanti: “Basta che succeda: Teatro per sentinelle in piedi, vedette sedute e guardiani sdraiati” è il primo progetto; nel 2016 è la volta di “Le avventure di Finocchio” dall’opera di Carlo Collodi; seguirà “Niente e così sia” del 2017 e “Quel giorno sulla Luna” del 2018.

Sono anni in cui lavoro e vita si mescolano come non mai, anni in cui raccogliamo testimonianze crude, qualche lacrime, vari coming out e tantissime risate, abbiamo conosciuto tanti amori e purtroppo anche la morte (quella di Simone che ho ricordato qui).

In questi anni ricchi di emozioni sono arrivat* tre dei membri dello staff di Ferai Teatro: Simone, Claudia e Davide, tutt* e tre per il progetto “Le avventure di Finocchio”.

Simone Cogoni, classe 1994, inizia l’esperienza teatrale proprio con Ferai, spinto dal desiderio di mettersi in gioco. All’interno dello staff è attore e performer e si sta formando in altri ambiti. Vede il teatro come l’arte che più di tutte consente l’esplorazione, l’approfondimento e la condivisione delle emozioni, e spera che in futuro possa svilupparsi verso una commistione sempre più ampia tra i diversi linguaggi artistici, oltre che in uno spazio più cosciente, più personale, anche oltre il limite tradizionale del palcoscenico. Ha partecipato come professionista a “La Passione che ha salvato il mondo”“RAPSODIA:STAMINA” 

Claudia Congiu nasce a Cagliari nel 1993. Il teatro per lei è una passione, un hobby, una valvola di sfogo, un mezzo dinamico, efficace e diretto per trasmettere un messaggio. Ha frequentato diversi laboratori scolastici prima di arrivare a Ferai Teatro. Attrice e membro dello staff informatico, attualmente si prepara per i nuovi progetti. Vorrebbe che il teatro fosse un mezzo “didattico” ossia che servisse per imparare in maniera meno noiosa e più diretta. Nel suo curriculum da professionista la partecipazione a “Fuorisede: un Natale Fuori!”“RAPSODIA:STAMINA” 

Davide Sitzia nasce nel 1994 e si avvicina al mondo del teatro con Ferai per iniziare a dare sfogo a quello che dentro di lui è sempre stato un forte desiderio: recitare. Per lui il teatro è la condivisione in forma artistica di una vita interiore e spirituale in grado di emozionare ed arricchire le persone. Nel suo curriculum da professionista la partecipazione a “Fuorisede: un Natale Fuori!”“RAPSODIA:STAMINA” 

Le voci degli artisti: Anna Gualdo (di Andrea Ibba Monni)

Anna Gualdo in una foto di Marcello Norberth, 2020

Il 2011 è un’altra vita: il ventottenne che ero inizia a sentire che c’è qualcosa di fasullo, di stantio, in ciò con cui ho a che fare sulla scena cagliaritana. Domenica 29 maggio 2011 al Teatro Civico di Castello a Cagliari va in scena “Macadamia Nut Brittle” di Ricci/Forte (questo) e resto stregato da tutto e da tutti ma sopratutto e soprattutti da Anna Gualdo, dal suo sguardo, dalla sua voce, dal suo corpo e da come usa tutto in tutti i modi possibili: su quel palco la sua anima sanguina e il suo corpo vive una vera e propria Passio Christi. Riconosco tutto e penso: questo è il teatro che mi interessa ora e ora posso concretizzarlo dal momento che non è solo una mia pulsione.

Sarà una delle prime volte in cui capirò che io e Ga’ stiamo mettendo Ferai Teatro sulla buona strada.

In quegli anni facebook è agli esordi e mentre la gente invia poke e si scambia pollame e ortaggi, io chiedo l’amicizia sfacciatamente a tutto il cast. Ogni tanto sento Gianni Forte e Anna Gualdo, cerco di non essere invadente, nascono scambi sporadici ma sempre abbastanza interessanti.

Sabato 11 marzo 2017 al Teatro Massimo di Cagliari va in scena “Still life” (questo) Anna è pressoché immobile sulla scena ma proprio per questo il suo sguardo e il suo corpo, il suo essere al tempo presente è ancora più potente. La sua interpretazione è da brividi: l’inaspettata staticità è stata controbilanciata impeccabilmente. Mi fiondo nei camerini in barba a qualunque principio di buona educazione, la vedo, li vedo tutti, tutti felici come bambini, madidi di sudore. Lei mi accoglie come una sorella maggiore accoglie il fratellino un po’ invadente ma mi abbraccia nonostante la lombalgia la inchiodi da giorni.

Lunedì 11 maggio le strappo questa intervista in chat messenger: non so perché me la concede, ma non so neppure perché mi ha accettato tra gli amici di facebook nove anni fa né perché mi ha accolto fraternamente nei camerini nel 2017. So solo che ho il privilegio di avere a che fare con un’attrice vera, brava, preparata.

Prima di lasciarvi all’intervista vi svelo un segreto: dal 2011 ogni volta che ho a che fare con un’attrice, che sia un’allieva o una collega io la misuro su Anna Gualdo.anna gualdo | venere in forse

ANDREA IBBA MONNI: Non è un’accusa ma una premessa: online si trova poco di te, della tua vita e della tua formazione. Ma tu chi sei? Chi è la professionista Anna Gualdo? Cosa scrivo?

ANNA GUALDO: Io sono un’attrice – oggi controvoglia detta “performer” – molto poco social e molto poco autoreferenziale. Faccio molta fatica a raccontare cosa faccio e cosa sono fuori dal mio lavoro poiché spero di mettere me stessa in quello e spero non sia poco.

Qual è stato il tuo punto di partenza, l’anno zero? Insomma: quando e come hai deciso di fare teatro per la prima volta?

La prima apparizione pubblica risale al maggio del 1972, in “Cappuccetto rosso” alla 24 Maggio di Trastevere. Poi dobbiamo arrivare al 1984 quando comunicai a due professori universitari di Paleografia e Latino Medievale la mia intenzione di iscrivermi all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Tralascio le loro reazioni.

Hai ricordi di mercoledì 24 maggio 1972?

Come fosse oggi. Alla recita scolastica venne solo mia nonna, i miei già troppo impegnati iniziarono il lento e frustrante logorio educativo. Recitavo e cantavo nel mio mantello rosso, come trent’anni dopo in “Grimmless” (questo) Fu un successo enorme anche perché recitai le battute di un lupo piagnone e smemorato di sei anni: avevo sei anni ma anche “Grimmless” nacque come ricordo di quella bambina oggi senza favole. Mi sentivo contenta, eccitata, piccola e capace di stregare gli spettatori.

È cambiato qualcosa o sei sempre quella attrice eccitata e capace di stregare gli spettatori? Va be’, potrei chiederti semplicemente se senti sempre l’eccitazione perché gli spettatori li streghi, te lo garantisco io.

Il mio attuale fidanzato dice che dopo gli spettacoli sono sempre l’unica a ridere ai ringraziamenti forse perché sono ancora eccitata dalla capacità di coinvolgere e coinvolgermi. Non è cambiato niente, stesse sensazioni, paura… e qualche ruga.

Parliamo un po’ di questa “paura”?

Paura ed eccitazione vanno di pari passo: la paura è adrenalina e sensazione di essere impreparati ma anche la paura di rimettersi in gioco davanti al pubblico. Non ho mai avuto un metodo mentale fisico e respiratorio di concentrazione per cui è come se mi sbattessero sempre sul palco all’improvviso senza sapere per un attimo cosa fare o cosa dire.

In questo siamo molto simili, anzi identici! Io canticchio ma più che altro è un “rito” quasi… Sogni mai di fare uno spettacolo per il quale non hai fatto mezza prova?

Sì lo sogno e l’ho pure fatto! E per giunta con Luca Ronconi: alle 10:00 sono tornata a Roma da Sarasota (Florida), alle 16:00 stavo al Piccolo a fare le prove.  Ho passato la notte ad ascoltare la cassetta di Massimo Popolizio con tutte le battute mie e il giorno dopo ho sostituito Laura Marinoni in Beatrice ne “I due gemelli veneziani” di Carlo Goldoni.  E veramente non sapevo cosa ci facevo su quel palco. Paura???

Sarei morto. Com’è andata?

Come “Cappuccetto rosso“. Il jet lag fece da anestesia stordente e allucinogena.

Concedimi una domanda stupida: quale vorresti fosse la direzione finale? Se, follemente, dovessi pensare al tuo futuro, dove e come troviamo la performer Anna Gualdo nel 2060? Che starà facendo?

Avrei 93 anni: la nuova Paola Borboni! Mi vedo più col giardinaggio in Costiera, oppure un’arcigna professoressa di dizione.

Quindi contempli l’idea di non recitare più? Di non dirigere? Di non stare neppure dietro le quinte?

Non recitare più mai. Dirigere mai. Per me il teatro è solo essere un’attrice e detesto gli incontri col pubblico e le interviste, esclusa questa. Esisto solo quando recito.

Che domande idiote, ma son curioso: quale vorresti fosse il tuo ultimo spettacolo? Quello dopo il quale non reciterai più.

Forse l’ho già fatto e non me l’hanno detto. Forse “Cappuccetto rosso” e tornare tra i banchi. Ma la verità è che non c’è un ultimo spettacolo né un ultimo personaggio perché dentro ci sono sempre stata io in quel momento con i miei problemi, i miei amori, i miei acciacchi e ogni futuro spero sia il penultimo.

Ci sei sempre tu, visceralmente tu. Ti ho vista due volte e ti ho “sentita” sempre e sempre tantissimo. Come fai a non farti male dando così tanto alla scena? Riesci sempre a tenere una piccolissima parte “presente” al fine di controllare tutto o si va sempre senza rete?

Doppia è la domanda e dicotomica la risposta: vado senza rete, emotiva e fisica e mi faccio spesso male, sia ai sentimenti che ai legamenti crociati; ma sono una Vergine e il controllo non lo perdo neanche sotto la tortura di un’improvvisazione riccifortesca sul sesso.

Questo “sbaraglio” serve più a te o più a noi che ti guardiamo? Perché arrivare a farsi male anche se “verginamente” controllata?

È dal 1985 che sogno di essere Sonja, seduta, e diretta da Lev Dodin ma non ho mai fatto Cechov. Lo sbaraglio è il naturale uso del corpo come parte integrante del mio essere attrice, dove il coinvolgimento riguarda tutta me stessa e credo sia imprescindibile nel rapporto platonico attore spettatore: farsi male è un incidente di percorso doloroso e trascurabile che fa parte del gioco.

Ci vai a teatro? E se in scena non vedi quel che dai tu come attrice come vivi l’esperienza da spettatrice?

A teatro ci vado spessissimo, sopratutto ora che lavoro poco… e per niente ora che purtroppo sono chiusi. Comunque la prendo malissimo, pur restando convinta che spesso ottimi attori salvino pessimi spettacoli.

Le voci di Ferai: Claudia Congiu

Oggi vi presento l’intervista alla nostra Claudia Congiu, attrice e performer dello Staff di Ferai Teatro. Ho conosciuto Claudia al Drury Lane, modulo comico, lo spettacolo si chiamava “Ma non farmi ridere”, era sopravvissuta all’Erasmus e catapultata a Ferai pochi giorni dopo. Claudia è una tipa carismatica, ironica e sicura di sé – ovviamente mi sfotterà per questa descrizione. Spoiler alert: è ingegnera e ama moltissimo la scienza e tutte quelle cosettine semplici semplici tipo circuiti elettrici, calcoli matematici e varie amenità che istigano al suicidio i miei neuroni da giurista!

Ciao Claudia, piccola premessa: come ti presenteresti ai nostri lettori?

Ciao a tutti, sono Claudia, nella vita studio ingegneria informatica, ora sono alla magistrale. Ho collaborato a costruire il sito di Ferai (questo qui)e poi da qualche mese a questa parte mi sto occupando delle tecniche audio luci: ho fatto il tecnico per RAPSODIA:ORIGINS” andato in scena al Teatro Massimo dal 17 gennaio 2019 per dieci repliche.

Come nasce la tua passione per il teatro?

In realtà è nata quasi per sbaglio! (ride) Alle medie dovevamo fare dei laboratori pomeridiani obbligatori, cose tipo giornalino della scuola, uncinetto, latino (che poi il latino o lo metti come materia obbligatoria o un ragazzino non lo studierà mai!), musica oppure un fantastico corso di teatro e ho detto “va beh proviamo!”

Non siamo mai andati in scena perché la tipa che teneva il corso voleva farci fare cose fighissime, importanti, molto famose, ma senza nessuna base.

Fatto sta che non siamo mai andati in scena, per fortuna, io ero Mirandolina nello spettacolo e odiavo quel personaggio perché… Beh, a 13 anni che ne sapevo della civetteria!

Poi alle superiori ho fatto il liceo scientifico ed era passata una circolare in cui si diceva che iniziava un corso di teatro e che potevamo iscriverci, così ho convinto una delle migliori amiche a fare il corso, voluto e gestito dall’insegnante di informatica. 

L’esito scenico era un vaneggio in cui si parlava della didattica a scuola, una lezione pitagorica e euclidea.

Per dire, scena c’erano Pitagora e Euclide che parlavano di matematica…

La regista ci ha insegnato come respirare di pancia, muoversi in scena, respirare di pancia, occupare lo spazio, insomma le basi. 

Quindi ho fatto circa 4 anni di laboratori prima di conoscere Ferai.

La Regina Bandita, foto di Valeria Castellino

Vuoi raccontarmi qualcosa di particolare di questo periodo? Tipo un aneddoto divertente…

Non lo so se è divertente, comunque in terza abbiamo preparato uno spettacolo per il Festival della Scienza, abbiamo portato in scena i dialoghi di tre personaggi, Leonardo da Vinci, Galileo Galilei e Marie Curie, interpretati da più persone. Ovviamente alle ragazze avevano dato la parte di Marie Curie! Poi la professoressa dopo un paio di mesi di prove mi ha chiesto se mi piacesse la parte che mi avevano dato. Il dialogo è stato più o meno questo:

Prof: Beh Claudia e allora? Che ne pensi, ti piace la parte di Marie Curie?

Claudia: ma si dai, però sinceramente avrei preferito il dialogo di Galileo.

Prof: Va beh Claudia, siete ragazze, è normale che vi diamo la parte di Marie Curie e non di Galileo, vi abbiamo dato la parte femminile…

Claudia: Ma in realtà io non credo che questo sia un problema!

Prof: Perfetto! Allora visto che non è un problema ti fai anche i dialoghi di Galileo (“Vita di Galileo” di Bertolt Brecht).

Quindi possiamo dire che il teatro e la passione per scienza sono andati di pari passo… e infatti per RAPSODIA:STAMINA” hai ideato la performance Macchina Elettrica! 

Non proprio di pari passo, ma avendo avuto questa formazione, peraltro da una prof. di informatica, ho sempre avuto, diciamo… un occhio per la didattica non convenzionale. I ragazzi riescono a interessarsi più facilmente a un argomento scientifico e noioso, se viene affrontato in un certo modo, per esempio portandolo in scena, e questa esperienza mi ha ispirata per Macchina Elettrica. 

Mi sono scervellata per trovare una performance a scopo scientifico interessante anche per un pubblico di adolescenti – il concept di Macchina Elettrica è l’uomo trattato come se fosse una macchina, che si muove in base a un certo stimolo, quindi perfetto con i circuiti elettrici e gli interruttori!

Puoi gestire l’uso degli utilizzatori: perché non fare in modo che l’uomo sia una macchina e scomporre il suo corpo in pezzi che funzionano uno per uno? 

Ho saldato un circuito elettrico, con led e un cavo di due metri circa attaccato al corpo del performer in totale sicurezza. Se il Led era acceso, il performer poteva/doveva muovere quella parte. 

Macchina Elettrica – Rapsodia: Stamina, foto di Roberta Plaisant

Il tuo personaggio preferito tra quelli che hai interpretato? 

La Regina Bandita” sicuramente – ero uno spirito che parlava della disamistade. Poi sicuramente ho amato moltissimo Speranzina Curreli per “Libera nos a malo”, per certi versi la trovavo molto simile a me e mi piaceva interpretarla. E poi Anne Sexton, per “Sylvia Plath – il richiamo fatale della perfezione”, era un personaggio particolarmente affascinante. 

Roberta Mossa

Perché e come ho iniziato a fare teatro (di Ilenia Cugis)

2008: Air Can Hurt You

È il 2008, lo spettacolo di baratto teatrale si intitola “Air Can Hurt You”, ed è il momento esatto in cui mi innamoro del teatro.

È notte. Sono in macchina con un’amica di mia madre. Guida nel buio delle strade strette della campagna di Flumini di Quartu. La macchina si ferma sulla strada. Scendo.

C’è un grandissimo cancello di metallo, grigio. Ga’ è vestito di nero, ha un cappello in mano, dal quale fa pescare alle persone un pezzo di cartoncino. Sul mio cartoncino c’è un segno di pittura blu. Vengo separata dalle persone con cui sono arrivata e insieme a qualche estraneo attraverso un giardino e arrivo in una stanza, abbastanza grande. C’è una televisione. C’è un ragazzo (Enrico Cara n.d.r.), di spalle, con ali da angelo e la schiena scoperta. La sua ombra è proiettata sul muro.

Parte un video. Le immagini sono mischiate, sovrapposte, i temi sono tanti, frammentati, iniziano si fermano ricominciano. Il video è un sogno. Poi finisce.

Siamo condotti all’esterno. Vedo che nelle altre stanze accadono altre cose. Io sono sul porticato. Un’attrice, Andreina, ha un enorme blocco di rami secchi in mano. Sembra respingere e scacciare dei fantasmi dal suo passato.

Poi, inizia qualcosa.

Che solo più tardi, scoprirò essere la “Stanza Rossa”.

Ci sono Andrea Ibba Monni e un’attrice che non conosco, che non ho mai conosciuto. Lei è mora. Ed è molto bella (Barbara Piu n.d.r.).

Il pezzo è una lotta lenta e veloce per l’amore, è violenza e tenerezza, la Stanza Rossa è complessa, complessa come la passione, la rabbia, l’affetto, la gelosia. I loro corpi si trovano e non si trovano. Lei fugge e si rifugia, lui la cerca, la prende, la perde.

Per come lo ricordo io, alla fine vincono la violenza e la gelosia. Eppure Andrea canta, perché l’amore c’è ancora.

Inizia una musica. La sento ancora dentro le orecchie, 12 anni dopo.

Restiamo nel portico, mi pare che tutto il pubblico si sia ora ricongiunto.

La musica è forte e una luce fievole si muove da dietro la casa. Sono tre candele e un ragazzo, Giacomo (Peddis n.d.r.), le tiene davanti a sé. Arriva circa davanti al portico, lo vediamo tutti. Lo vediamo contorcersi mentre le candele illuminano e scaldano punti diversi del suo corpo nudo, magro, allenato, si muove e ad ogni movimento cambia forma, il suo corpo in eterna danza con le candele.

La cera finisce di bruciare e non c’è più musica.

Sono certa che siamo tutto il pubblico ora, insieme, veniamo condotti giù dal portico, camminiamo verso il lato destro della casa, siamo nel retro del giardino. C’è qualche albero e una luce lieve. Ed è lì, sul pavimento di terra, erba e foglie secche, sui rami caduti, in mezzo a spine e cespugli, è lì, che appare Nastas’ja Filippovna.

Con le sue maschere. Con le sue gambe. Con la sua voce. Quella voce che ve lo assicuro posso sentirla nelle orecchie. Ha anche un libro in mano. Un ombrello. Teli. Mi innamoro di Nastas’ja, piango, sono scossa, ho i brividi, è il momento esatto in cui capisco che cosa significhi il teatro per Ferai. Quando il pezzo finisce il mio cuore è assetato, forse famelico, dice: “ancora, ancora”.

L’ultima scena è La Cena.

Ci sono adesso tutti gli attori intorno ad una tavola. Mangiano ravioli. Giocano con il cibo. Con le posate. Sono pericolosi coi coltelli. Si sfidano. Non vogliono mangiare, ci sono infiniti spettri di disturbi alimentari e relazioni parentali malate.

Alla fine, un primo di loro, si accorge che manca qualcuno, o qualcosa.

“Laura (Solla n.d.r.), anche l’aria può ferirti”.

La cena si scompone e gli attori cercano disperatamente ciò che manca, per tutto il grande giardino. Noi li seguiamo. La ricerca termina al cancello. Gli attori sono tutti lì, con gli occhi verso il cielo, nella notte buia.

Infine, questo è ciò che ricorda la mia mente, gli attori sono scomparsi. Nel nulla. Siamo rimasti solo noi, spettatori, davanti al cancello grigio. Insieme a Ga’, vestito di nero, con il suo grande cappello, in testa. Che ci mandava via, a casa.

“Ancora, ancora”, ripete il mio cuore estremamente confuso e affamato. Due mesi dopo ho frequentato la mia prima lezione di teatro.

Ilenia Cugis

RAPSODIA:STAMINA – frammenti (di Ilenia Cugis)

Nel silenzio della Silvery Fox Factory c’erano rumori di passi lenti e suole di scarpe che scricchiolano.

C’erano gli occhi di Andrea Ibba Monni che guarda dritto davanti a sé, sono stampati nella mia memoria.

Insieme al rito della notte.

Mentre la luce si rifletteva sulla grotta bianca di Ga’.

Ga’, ballava; davanti a lui c’era un mio amico, che piangeva. Guardava Ga’ che ballava per lui, e piangeva.

Mi fa sorridere.

C’era un sacco di cibo all’ingresso. Finché l’abbiamo rimosso. Tante tantissime banane. Banane banane e banane. Le ho portate a casa.

Arrivavo sempre di notte alla factory, quando finivo di lavorare. La luce ovattata, mi cullava. Una notte ho sentito il suono di una sedia che veniva spostata da una ragazza del pubblico. Lei ha scritto qualcosa su un quaderno e l’ha passato ad Andrea, lui ha annuito e sorriso con gli occhi, perché aveva la bocca coperta col nastro. Molto lentamente e in maniera estremamente religiosa Andrea ha messo via i chicchi di riso. Ha preso le mani della ragazza davanti a lui. Si sono toccati.

Mi piaceva guardare i chicchi di riso.

Mi piaceva guardare le mani che si toccano.

Mi sono seduta davanti a Simone con una bacinella sulle gambe. Abbiamo lavato e strizzato e bagnato e strizzato.

Mi piaceva guardare le ragazze che lo aiutavano a cucire. Tutto, ovattato, nella notte, nel silenzio, nella calma apparente.

Una notte quando sono arrivata era quasi l’una. Era già giovedì. Erano rimasti tre performer per “Democratic Schism”. Davide, Ilaria, Francesca, così stanchi che avrei avuto voglia di abbracciarli. In movimento da quattro ore, rimasti solo in tre. I corpi sfiniti. Erano molto belli. A momenti mi incantavo a fissare una di loro tre. Poi l’altro, poi l’altra.

Andrea era in piedi.

Sentivo, non so perché, che stesse in piedi nel tentativo di dare tutta la sua energia ai tre performer e beh, dopo 4 giorni qui, dentro la Factory, uno l’energia se la sarebbe voluta centellinare, mentre Andrea la stava espandendo, voleva darla, voleva inondare lo spazio, l’aria era piena di energia calma e pacifica.

Quella stessa notte, più tardi, forse intorno alle due e mezza, ho visto Andrea e Ga’ che si guardavano. Quando sono tornata a casa ho mandato un messaggio ad una mia amica e ho scritto: penso che abbiano bisogno di toccarsi, di abbracciarsi.

Ho visto tre amiche, una per volta, aiutare Ga’ nella grotta bianca. Con grandi cappelli di carta di giornale. L’ho trovato divertente ogni giorno che è capitato. I grandi cappelli di carta di giornale. Nei momenti della mia giornata di lavoro, pensavo alla grotta bianca. “Chissà come sarà quando tornerò dentro la Factory”.

Chissà come sarà.

Vorrei parlarvi di RAPSODIA:STAMINA solo che non ci riesco, ho capito che non ve lo posso spiegare. Era necessario viverlo e per ogni spettatore è stato diverso.

Ho visto le persone piangere e ridere, senza apparente motivo. Ho visto sorrisi di cera e ne ho avuto addosso uno anche io, ma la cera si scioglie, il cuore batte, il sangue scorre.

Ho visto me stessa piangere e ridere, senza apparente motivo.

C’è stata tanta pace, tanto silenzio, tanta energia.

C’è stata la vita.

C’è stata la poesia.

C’è stata l’arte.

Come si può tentare di descrivere tutto questo a parole?

C’è stata la forza di volontà dell’artista.

Ilenia Cugis

E tu come memorizzi un copione?

Risultato immagini per memory

Di seguito alcuni metodi di memorizzazione di un copione da parte di qualche allievo del laboratorio di recitazione di Ferai Teatro. Li abbiamo riassunti, alcuni uniti perché tanto simili e con pochissime (ma importanti differenze). Va detto che ognuno ha il proprio personale modo di memorizzare una parte (o dovrebbe averlo) e che quindi vi riportiamo i vari modi, ognuno valido nella misura in cui va ovviamente bene per chi lo utilizza, cercando di evidenziarne sia i vantaggi ma anche gli eventuali punti deboli.

Dopo aver sottolineato, leggo e ripeto frase per frase, man mano che vado avanti con le frasi ripeto sempre dall’inizio aggiungendo la frase nuova. Se necessario sbircio dal foglio e ripeto finché non è più necessario il foglio, cercando nel tutto di concentrarmi sul senso di quello che dico. Questo è un metodo che ha come svantaggio il fatto che le battute finali son quelle che si provano di meno.

Registrazione. Utile per correggere articolazione, respirazione, dizione, difetti di pronuncia ma potrebbe risultare arido alla lunga a livello interpretativo.

Io leggo molte volte e poi provo a ripetere pezzo per pezzo. Lo faccio davanti allo specchio per aggiungere al monologo l’espressione del viso e per tenermi composta quando parlo. Il rischio è che il controllo delle espressioni del viso tenda a sconfinare nella regia del pezzo, ma è un rischio abbastanza remoto.

Leggo e ripeto, leggo e ripeto dividendole battute in frasi e concetti, cercando di capire e interpretare pienamente ciò che c’è scritto. Bisogna poi cercare di unire il tutto in modo omogeneo in modo da non avere troppi frammenti slegati tra loro.

– Come primo lavoro di memorizzazione visiva scrivo le battute prima delle mie e poi le mie. Come secondo step di memorizzazione visiva scrivo solo la parte finale delle battute prima delle mie e poi ancora le mie. Come terzo step registro il 1 punto e ascolto varie volte e poi registro il 2 punto e ascolto varie volte. Come ultimo passo registro tutte le battute degli altri personaggi e lascio lo spazio vuoto per recitare le mie con cesure, intenzione e qualità del personaggio.

– Registro in continuazione tutto il pezzo poi ogni frase con parole mancanti poi ripeto senza ascoltare. Il rischio è che in questa sorta di “quiz” si perda subito la parte interpretativa (la parte principale dell’obbiettivo da raggiungere)

Io accento e metto le cesure alle mie battute e poi leggo e ripeto più volte cercando di memorizzare gli accenti e le cesure. Dopo mi registro prima cercando di stare attenta solo alla dizione, e poi faccio un’altra registrazione di tutte le battute cercando di fare sia dizione che interpretazione. Poi mi ascolto e ripeto prima solo in dizione e poi aggiungendo l’interpretazione. L’ideale sarebbe rendere la dizione scontata e l’articolazione della parola una norma in modo tale da bruciare i tempi e finalmente non separare il buon uso della vocalità a un buon uso del corpo che la racchiude (è come dire che si separa l’uso di una gamba dall’altra).

Registro le scene in cui son presente recitando tutti i personaggi e mi riascolto. Poi registro la scena solo con le battute degli altri personaggi e lasciando un “buco” di silenzio per le mie battute, così quando riascolto attacco e do io la battuta. Ultimo step quando son diventata bravina: recito a voce alta tutte le battute, mie e degli altri. Un procedimento lungo e laborioso che però sicuramente rende sicuro lo stare in scena ed è un allenamento sotto tanti punti di vista che però non deve togliere nulla al proprio lavoro.

Obbligo mia madre a fare tutti i personaggi e ripeto le mie battute. Prima veloce senza interpretazione e poi con sempre più intenzione. Dipendere dagli altri è sicuramente rischioso, soprattutto se “gli altri” non sono colleghi. Ma l’immagine di una madre “obbligata” all’esercizio è molto divertente.

Non ho un vero e proprio metodo. Memorizzo manco fossero un mantra i finali di battuta prima delle mie, quasi come facessero parte della mia battuta, e li ripeto ripeto ripeto. Mi aiuta molto memorizzare studiando in simultanea il personaggio, trovando una voce, un’intenzione. Diciamo che più interpreto, più mi vien facile. Ma alla base c’è ripetere ripetere ripetere. Non avere un metodo è sempre rischioso, lasciare al caso e all’ispirazione la preparazione di un lavoro è sempre negativo soprattutto perché affidarsi solo all’interpretazione, all’intenzione e alla “voce” è troppo casuale, approssimativo.

Scandisco ogni sillaba di ogni parola della frase mentre ripeto in modo neutro, acquisita un po’ di memoria vado più liscio sempre neutro, acquisita più memoria ancora ripeto velocemente sempre neutro ma usando il corpo (gesti, spostamenti) per vedere che mi viene da fare istintivamente, ultima fase quando ho buona memoria provo la scena direttamente se ho vuoti rallento e sillabo o faccio movimenti a ritroso. Corpo e voce riuniti come dev’essere. Approccio lungo ma che dà certamente una gran sicurezza. Bisogna solo far sì che il gesto istintivo lasci poi spazio alla tecnica, al rigore e all’elasticità in sala prove davanti a chi cura la regia e spazio all’azione di chi sta in scena con noi.

Cerco di memorizzare anche le battute precedenti alle mie, non esattamente, ma il senso generale. Cerco sempre di capire l’intenzione del personaggio, in modo da vivermi la scena e non avere problemi di memoria. Capire cosa si sta dicendo e perché lo si dice è certamente indispensabile.

Evidenzio in giallo la mia parte poi evidenzio con colori diversi le battute prima delle mie, per cercare di memorizzare. Leggo e ripeto diverse volte, cercando di ripetere con il copione chiuso. La memoria visiva certamente aiuta parecchio, ma non basta dal momento che ci lascia dipendere troppo dalle altre persone e dalla loro memoria.

Leggo. Ripeto prima la battuta a mente. Cerco la/le parola/e chiave delle battute. Poi le provo. Se non mi convince cambio la parola chiave. Solo per memorizzare però perché poi nell’interpretazione normalmente le parole chiave si inter-scambiano.

È importante darsi appigli, soprattutto interpretativi. Ma dopo aver memorizzato il testo bisogna lasciare libera ed elastica l’interpretazione.

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Doppia erre, doppie tette (di Ilenia Cugis)

L'immagine può contenere: una o più persone e scarpeLavori con FERRAI? Tratto da una, due, tre, storie vere

Ora. Io non so se il problema nasca dalla parlata Cagliaritana DOC per cui il raddoppio della R è una naturale e incontrollabile conseguenza dell’area geografica in cui viviamo, ma perché “Ferai” è così difficile da pronunciare?

È che poi mi prende anche male dover dire: “ehm, sì, per Ferai.”

E mi rispondono: “sì sì, Ferrai.”

E io: “Ferai.”

E loro: “Ferrai.”

Così, in un loop infinito.

 

La cosa poi mica finisce qui.

“E con Ferrai cosa state preparando? Siete nudi?

Oh, una non può recitare a tette di fuori una volta che poi lo farà in eterno? Forse l’1% degli spettacoli di Ferai ha avuto un tantino di nudità, eppure non si esce dal tunnel di quando, quasi 10 anni fa (DIECI!) il titolo di uno spettacolo revitava “Snuff – Pornografia allo stato impuro!” (qui alcune foto).

Come se tutto il nudo fosse pornografia.

Come se mettessimo in scena i nostri corpi, puliti, vulnerabili, in un atto di esibizionismo e non con un significato artistico profondo.

Come se la pelle fosse superficie e quindi anche superficialità.

La cosa divertente, poi, è che chi fa queste domande mica le fa perché ha mai visto uno spettacolo di Ferai in cui c’era del nudo. Ovviamente no. Ovviamente è tutto per sentito dire. Sentito dire da altri che non hanno visto nulla. In un parlare, parlare, parlare, continuo, privo di basi e contenuti.

Perché chi invece ha visto e vissuto questi spettacoli, ha capito la necessità del corpo di mostrarsi senza maschera, senza finzioni, puro in sé stesso. Perché chi ha visto e vissuto questi spettacoli ha capito dove c’era fragilità e dove invece c’era condanna, dove c’era provocazione e dove c’era dolcezza.

“E quindi lavori con Ferrai?”

“Eh, sì.”

“Ah! State preparando qualcosa?”

“Uno spettacolo molto bello, si chiama ¡FeRAiExTr4vaGanzA!

“Ma… siete nudi?”

“Sì. Faccio vedere le tette. Così, senza motivo. Curioso, eh?”

Ilenia Cugis