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Ferai Teatro: “Hole of fame” di Andrea Ibba Monni

Vogliamo che siate parte attiva e vitale e che possiate letteralmente entrare dentro le nostre storie. Non vogliamo emozionarvi, non ci basta più: vogliamo portarvi dentro, in profondità, insieme a noi.

Ferai Teatro presenta la prima edizione di “Hole of Fame” di Andrea Ibba Monni, un vero e proprio viaggio che comincerà nel momento della prenotazione e terminerà il giorno dopo il nostro incontro. Ma non vogliamo svelarvi tutto e subito, lo scoprirete…

Con (in ordine di apparizione): Davide Sitzia, Andrea Mura, Andrea Oro, Claudia Congiu, Matteo Genco, Cristian Casanova, Giulia Maoddi, Clotilde Cocco, Andrea Vargiu, Francesca Cabiddu e Ga’.

Saranno ammesse un massimo di venti persone alla volta.

Date e orari:

sabato 7 maggio – prima recita alle ore 19:00, replica alle ore 21:00;

domenica 8 maggio – spettacolo unico alle ore 19:00;

sabato 14 maggio – prima recita alle ore 19:00, replica alle ore 21:00;

domenica 15 maggio – spettacolo unico alle ore 19:00.

Il biglietto unico costa 10 euro e si può acquistare esclusivamente presso la Silvery Fox Factory, via Dolcetta 12 a Cagliari, nei giorni e negli orari concordabili telefonicamente al 3755789748 (non sarà possibile acquistare il biglietto nei giorni di spettacolo)*

*I biglietti prenotati dovranno essere ritirati entro le giornate di venerdì 6 (per il primo week end di recite) e venerdì 13 (per l’ultimo week end di repliche)

Le voci degli artisti: Andrea Andrillo (di Andrea Ibba Monni)

Come posso essere imparziale nel parlare di Andrea Andrillo? Non posso, non voglio. Lo amo e lo ama chiunque lo conosca e chi non lo conosce non ha idea di che sfortuna lo ha colpito. Artisticamente si può rimediare iscrivendosi al suo canale YouTube (CLICCA QUI) umanamente basta andare a una sua serata, perché come i più grandi, i grandissimi, lui è avvicinabilissimo. Un difetto ce l’ha ed è imperdonabile: si sottovaluta troppo.

ANDREA IBBA MONNI – Oltre che a livello umano io ti stimo tanto dal punto di vista professionale e come scriverò nell’intervista sei uno dei pochi intervistati con cui mi sento davvero a mio agio perché ti vivo molto vero, pulsante nel panorama musicale. Quindi le domande arrivano da un fan oltre che da un collega artista, sappilo. La prima domanda è una richiesta d’aiuto: siccome non voglio farti alcun santino cosa posso scrivere di Andrea Andrillo per chi non ti dovesse conoscere …ma anche per chi ti conosce solo musicalmente?

ANDREA ANDRILLO – Mi presento, tecnicamente sono un cantautore, ma soprattutto credo di essere un cantastorie.

Quali storie canti? Come le scegli o come “arrivano”?

Me lo sono chiesto diverse volte.. credo che in questa mia maturità a tratti tormentata avessi bisogno di cantare le persone “insufficienti”. Ho cantato l’amore di un padre sordo che non può cantare per sua figlia; ho cantato le persone ormai prive di una lingua che non riescono a comunicare in un mondo che affonda in Atlantide prima della pioggia. Ho cantato l’angoscia del migrante in Deserti di sale tutto questo in realtà è parte di un quadro più ampio, che col tempo si sta delineando. Forse sto solo cantando le storie dei nostri giorni, compresa la mia.

Qual è la tua storia? Immagino non abbia voglia di raccontarmela ma puoi dirmi almeno se è una storia a lieto fine? È una commedia? Una tragedia?

Il lieto fine, che io sappia, esiste solo se si impara a morire serenamente. La mia storia fin qui è stata una ricerca, però. A fasi alterne, con clamorose cadute, interruzioni nel percorso, problemi fisici che sembravano di volta in volta sempre più pesanti, addii e “ups, sono tornato” …
Nel frattempo ho capito che la mia ricerca come cantante – e come musicista in senso più ampio – era in realtà un bisogno di far chiarezza, di scoprire ciò che mancava.
E così “cercando la voce”, cercando il suono della mia voce, poco alla volta ho trovato me stesso. E mi sono accorto che non si è trattato di una ricerca tecnica, quanto di una ricerca spirituale. Ora, a ben 50 anni, debuttante a 49, con già due dischi da solista alle spalle in due anni, mi appresto a chiudere un cerchio .. e forse a iniziare un’altra fase del viaggio
… almeno credo. Il futuro non è scritto.. non del tutto: è un documentario. Tipo quelli con gli orsi in letargo, le anatre ferite dai cacciatori, il sole che sorge, la pioggia che tempesta la foresta e le formiche che balzano indaffarate da una parte all’altra per non affogare.

Debuttante a 49 anni?

Il mio primo disco è del 2018, otto luglio, il giorno del mio 49simo compleanno. Andrillo nasce fra il 2013 e il 2015 .. piano piano si definisce nel suo stile, mi salva la pelle, perché Andrillo è uno spiritello stronzetto che a volte fa cose belle; e a 49 anni debutta in grande stile. Roba mica da poco eh!

Andrillo” perché? Cosa vuol dire?

Solo un nomignolo che casualmente mi è stato affibbiato da un collega quando lavoravo nel nord Sardegna. Arrivato a Cagliari, convinto che non avrei mai più suonato o scritto canzoni, mi sono dedicato alla musica altrui. “Andrillo” nasce quindi come speaker per una radio web, Radio Level One, nel .. boh? 2011? Non me lo ricordo più. Mi serviva un nome che non fosse il mio nome vero, perché avevo appena iniziato un nuovo lavoro e non sapevo se fosse saggio mischiare la mia vita artistica e privata con la vita lavorativa. Mi è tornato in mente il nomignolo e l’ho usato. Faceva e fa ridere. Ma se lo ricordano tutti. Poi la cosa curiosa è stato ricevere messaggi da alcuni “Andrillo” (veri!) dal Brasile.. ma non sono mai riuscito a spiegare che non eravamo cugini lontani, perché non parlo portoghese e loro non capivano l’inglese. E così la tribù, almeno virtualmente, è diventata subito cosmopolita.

Avevi smesso di suonare?

È successo molte volte. Il mio non è stato un percorso lineare. Non sono mai stato un professionista. Le band di cui facevo parte, il rock elettrico, i due dischi delle mie vite precedenti a questa..i fallimenti, i successi, le pause …tutto è stato prezioso. I fallimenti sono stati i miei più grandi maestri. Ne avrei anche fatto a meno, ma ora che sono me, che non sto in una band e che sono totalmente responsabile di tutto ciò che faccio, mi accorgo che nel rapporto col pubblico, nel mio pormi di fronte alla musica con rispetto, tutto ciò che ho vissuto è stato davvero prezioso.

Poi ci sono anche state pause “fisiche”, dovuti a problemi vari che non stiamo ad elencare; e pause dovute al lavoro, trasferimenti.. tutto fino a che non ho deciso di fare da solo. La grande conquista: credere in sé stessi al punto di fare da soli. Anche questa è stata una grande conquista per me, per quanto possa sembrare banale dirlo così

Se e quando non suoni cosa fai ma soprattutto come stai?

Non benissimo, lo confesso. Il rapporto col pubblico è come una droga. Le persone che vengono ad abbracciarti, che ti parlano .. è tanta roba. Solo chi sa… sa.

Lavoro, bado ai figli, cerco di star sveglio e non addormentarmi in piedi, perché prima del Covid mi alzavo ogni giorno alle cinque per lavorare… Però poi la gioia di afferrare una intuizione, di mettere l’anima in subbuglio per scrivere un testo, o programmare un concerto.. in questi due anni che mi separano dal primo disco ho fatto decine e decine di concerti. Non vedo l’ora di tornare a farne altrettanti e molti di più.

Cosa fa sì che torni a comporre, a imbracciare la chitarra, a cantare dopo una pausa?

Un bisogno ..fisico. Forse le persone profondamente sole fanno questo, non lo so. Cercare di accarezzare il mondo, accarezzare le persone con ciò che hai dentro. Raccontargli storie, prestargli i tuoi occhi. Le mie non sono canzoni facili e io non sono un autore accomodante, piacione. Ma cerco di costruire attorno a me un mondo di relazioni, di persone che si incontrano. In questi anni ho visto persone speciali che vengono ai concerti, ti stanno vicine.. non è esattamente un pubblico, è una comunità, una bozza di comunità. E io ho bisogno di parlare a loro … e di ascoltare loro.

A proposito di ascolto come affronti il doppio ruolo di padre e artista nei confronti dei tuoi figli? Esiste l’esempio e l’educazione all’arte?

Certo, ma esiste anche l’eterna, atavica conflittualità padre – figli (soprattutto maschi), che fa sì che la musica di papà sia “noiosa”. Però poi quando vedono le persone che mi fanno i complimenti sono felici. Ma farli venire ai concerti.. una impresa! Dopo tutto per loro io non sono magia, io sono papà, quello che gli chiede dei fare i compiti e che gli frigge i sofficini a merenda.. non riescono a vedermi – e chissà se accadrà mai – come quello che è arrivato in città con la chitarra a cantare per noi .. Loro mi sentono cantare in casa, mi vedono con la chitarra che cerco di mettere su un pezzo nuovo.. per loro sono un semplice papà canterino. E va bene così, direi. È nell’ordine delle cose.

Come sei arrivato tu a capire che la musica era il tuo mezzo di comunicazione?

Ho iniziato molto presto, poi ho capito perché. Ho cercato di entrare in un gruppo metal a 15 anni, ma facevo talmente schifo.. poi a 17 ho messo su la mia band. E ho rovinato del tutto la voce. A 19 ho incontrato un Maestro, Bruno Lampis, un baritono che lavorava all’Ente Lirico di Cagliari, cui devo tutto, che mi ha insegnato la tecnica di base, che mi ha salvato la voce. E mi ha detto la famosa frase “cerca il suono”. E io ho cominciato a cercarlo, “come un bambino insegue un aquilone”, mi viene da dire .. E man mano che facevo enormi sacrifici per imparare a cantare mi chiedevo perché lo faccio? E ho capito che volevo parlare con le persone, sentirle vicino. Ma la svolta è arrivata quando non mi sono presentato davanti al pubblico per prendere, ma per dare qualcosa. È stato così che è nato Andrillo. E ho capito che la musica era e sarebbe sempre stata l’unica cosa che davvero alla fine ho fatto bene nella mia vita. Strano no? Anche un po’ romantico se vuoi, ma anche no.. chiaroscuri, come in tutte le vite.

A 15 anni cosa ti ha fatto dire “adesso faccio metal” invece che “adesso faccio danza” oppure “adesso faccio teatro” per esempio? La musica: perché?

Credo – ma lo dico per darmi un tono che “credo”, in realtà ne sono matematicamente certo, che fossi un ragazzino con un sacco di guai. Un ragazzino sostanzialmente solo, complicato, ferito. Credo stessi cercando solo di dire alle persone attorno “Hey, lo sapete che esisto?” E’ capitato che un ottimo gruppo già avviato, i Rod Sacred, con i quali mantengo rapporti di amicizia da allora (!) avessero bisogno di un cantante. Era il 1983 o 1984, Jurassic Drillo, capito ? E ho provato. Se dopo il primo provino mi avessero detto “no” e basta, avrei finito lì. Ma mi hanno detto “no, però torna che non siamo convinti del no”. Ed è cominciato tutto. Poi ho anche fatto teatro con Fueddu e Gestu, una compagnia talmente straordinaria che se stesse a New York sarebbero famosi in tutto il mondo. E però fare l’attore.. non riesco a fare l’attore. Mi spiego meglio: non riesco a interpretare il personaggio. Divento il personaggio. E praticamente non ho filtri, non ho difese. Mi può uccidere questa cosa e non ho intenzione neppure di provarci più.

“Se stesse a New York sarebbero famosi in tutto il mondo” e Andrillo invece?

Boh, avrebbe fatto lo stesso cammino frastagliato, ma come l’Andrillo che sta qui – che ha peraltro scelto di stare qui, dopo aver pure vissuto all’estero e persino un po’ a NY – come l’Andrillo che sta qui avrebbe finito con il ritenere più importante il cammino dell’anima al mero guadagno materiale o alla popolarità fine a se stessa.
In questi due anni ho visto il mio pubblico crescere esponenzialmente… ma non sono numeri. Sono persone, sono cammini che si incrociano. Non credo si possa parlare di “popolarità” in questi termini. Chi se ne frega di essere “popolare”. A me interessa questo calore, questo dialogo mai interrotto. E comunque se vuoi diventare famoso, vai, ti spogli alla stazione dei treni e fai l’elicottero per i passanti. Il tuo quarto d’ora di notorietà è assicurato!

Se ti dico che mi fa incazzare che tu non sia conosciuto come credo meriti cosa mi rispondi?

Che è un bel complimento, che ti fa male arrabbiarti per cose senza importanza e che il terzo disco sarà una figata assurda che ti lascerà di sasso e che va bene così.

Andrea Ibba Monni

Le voci degli artisti: Roberta Locci (di Ga’)

Roberta Locci è attrice, insegnante di recitazione, drammaturga, regista e aiuto-regista, ha una carriera dedicata alla formazione, alla ricerca – come dice lei stessa – non finalizzate a un punto di vista assoluto ma sempre in ascolto di un limite, uno sguardo diretto alle possibilità della ricerca. Nel curriculum di Roberta troviamo nomi celebri, da Claudia Castellucci, Else Marie Laukvik dell’Odin Teatret, Sainkho Namchylak, fino a Zigmunt Molik e questo solo per citare in modo riduttivo alcuni dei tanti, solo per farci l’idea di un’artista che in quanto tale non ha mai rinunciato alla formazione e al confronto continuo con realtà esterne e il cui lavoro ultimamente è direzionato particolarmente alla formazione dei più giovani (anagraficamente parlando) vediamo in che modo, nella nostra intervista.

GA’: Bene, come sai l’intervista verrà pubblicata su OFF il magazine online di Ferai Teatro e come sai ti ho promesso un’intervista assolutamente non-pretestuosa, ma partiamo da una domanda abbastanza pretestuosa per scongiurare il tutto, e la domanda è: Chi è Roberta Locci? Dovessi rispondere io per quel che so, ci sarebbero molte risposte diverse, tanti ambiti, la tua risposta invece… è ?

ROBERTA LOCCI: La risposta è credo semplice: sono quello che vedi tu, quello che vedono gli altri o ciò che non sempre si vede ma che in un modo o nell’altro si manifesta.

Ciò che non si vede, ma in qualche modo si manifesta, potrebbe sembrare un tema artistico che ti è caro più di altri? O sbaglio? Personalmente per esempio mi affascina il lato immateriale delle arti, musica, pittura astratta, arte concettuale in genere, è così anche per te? O … meno?

Sì direi di sì anche se non è assoluto, a volte trovo fascino e bellezza dove non avrei mai detto di poter trovare

Assolutamente, Zappareddu ad esempio (e tanti altri) affermava che “se ti prende, se ti è emoziona” è sempre “primo teatro” che sia uno spettacolo performativo e tecnologico o che sia il più tradizionale Amleto russo. Andando su cose attuali, come stai passando questo periodo, mi fai una sintesi alla russa di come hai passato/passi da artista questa quarantena?

Mi sono FERMATA. Sono sospesa, non so come spiegarti il mio stato, è come se avessi bisogno di stare immobile a guardare. Leggo, guardo film, imparo a cucire, e faccio la badante provvisoria.

Saper cucire è utile in mille occasioni. La badante provvisoria? Dimmi dimmi

La badante è proprio un’esperienza, ho uno zio prete e una zia zitella che vivono insieme e sono entrambi molto vecchi. In questo periodo sono stati “abbandonati” dalla signora che si occupava di loro. Ora ci vado io un giorno sì e uno no. Occuparsi di due corpi fragili e inermi è toccante. Gioco a palletta con lo zio e faccio dipingere la zia. Un mondo sospeso anche il loro.

Un’esperienza, decisamente. A me capita che, avendo più tempo, che oltre allo studio personale, ci sia anche uno strano ascolto, un ascolto diverso della creatività, a te sta capitando? Sentire che ci sono idee nell’aria, che anche se sei ferma c’è qualcosa che cova da qualche parte, oppure è solo un “ferma ferma ferma”?

Per quanto riguarda l’ascolto di ciò che accade è confuso. Mi ritrovo a volte infastidita da alcune idee di “ripresa”, ma la mia testa non è ferma.

Senti, mi racconti, così come ti viene un’esperienza artistica che ti ha segnata, ma che non rifaresti e una che invece rifaresti anche adesso.

Un’esperienza che mi ha segnata… Ora mi/ti spiazzo. Il lavoro con la scuola Meucci lo scorso anno: un lavoro laboratoriale difficilissimo ma che mi ha fatto capire di cosa mi voglio occupare. Ormai da anni sono proiettata al lavoro con e per i giovani e giovanissimi. Scontrarmi con una realtà giovanile così complicata ha risvegliato in me la voglia di cambiare il mondo. Quella che ti spinge verso il processo artistico, la voglia di sporcarti le mani, senza patine, senza voler mostrare, con onestà profonda, intima. Lavorare per dare uno strumento in mano ad altri “di poter dire” per poter esistere fuori dall’etichetta comune. Ecco un po’ questo, l’esperienza artistica che non rifarei invece non te la dico!

Posso almeno immaginarla? Forse posso.

Beh, hai scelta. Scherzo!

Per concludere, visto che il tempo è poco, ti chiedo proprio questo, il tuo prossimo lavoro quindi sarà orientato in tal senso, aldilà che ora siamo fermi, ma la testa no, l’obiettivo è rilavorare con giovani con cui studiare questi strumenti o prenderai qualcosa anche “per te” per un tuo lavoro in solitaria o in compagnia?

Beh lo sguardo è in quella direzione ma non è assoluto. Uso il termine sguardo non a caso. È il suo limite ciò che mi interessa. Quello che di solito non vediamo perché impegnati a mettere a fuoco ciò che ci appare come immagine principale, in fondo qualsiasi progetto affronterò ruoterà sempre sugli stessi concetti. Io lavoro sempre sulle stesse cose in fondo.

Il Teatro racconta le cose della vita, limitate e sempre quelle, ma appunto, non è il concetto, è probabilmente il come, è il limite, lo sguardo di cui parli ciò che fa dire “ricercare ha senso.” Io direi che siamo stati bravissimi a stare nei brevi tempi a disposizione, spero che parleremo dei reciproci “sguardi” presto di persona, anzi, non presto: ma nel tempo giusto.

GA’

Le voci di Ferai: Andrea Mura (di Roberta Mossa)

Ciao Andrea, come sempre, parlaci un po’ di te: come ti presenteresti ai nostri lettori?

Ho 37 anni, nella vita faccio il parrucchiere ma sempre ho svariati hobby in campo artistico, penso alla pittura e al disegno ma anche la costruzione di oggetti, il cosplay, la fotografia, la scrittura e tanto altro, e da qualche anno mi sono avvicinato al teatro. Ho partecipato a varie produzioni Ferai sia come allievo di laboratorio che come regista e attore/performer di alcuni spettacoli di compagnia.

Come hai iniziato a fare teatro?

La risposta è buffa. Ero in un chiosco del Poetto e ho incontrato Andrea Ibba Monni e Ga’. Seguivo già Ferai come spettatore da tempo e mentre chiacchieravamo hanno invitato me e Fabrizio Ippoliotti a partecipare alla lezione di prova della classe di laboratorio la Fenice. Da li… Beh è partito il delirio! Il primo anno ho fatto tre spettacoli, due con la Fenice e uno con la classe del venerdì che faceva commedia musicale. Ho sempre visto spettacoli di vario genere, da quando andavo a scuola alle medie però non avevo mai pensato di recitare. È nato tutto per caso, ma non mi sono mai pentito di aver iniziato… Anche se la mia prima esperienza recitativa fu come tamburino, avevo 8 o 10 anni, per una recita in chiesa! (ride)

La tua esperienza più importante?

Dal punto di vista recitativo mi ha colpito molto sia “Libera nos a malo” (recitavo la parte di Guido Lobina), sia lo Spaventapassere di “Wonderful Oz”. Due personaggi totalmente diversi con cui ho dovuto cimentarmi in due spettacoli consecutivi ma che mi hanno messo parecchio alla prova, entrambi da un punto di vista molto personale. Parlare di certi argomenti ti porta a mettere in discussione alcune cose della tua vita o approfondire dei lati totalmente estranei e non sempre lo capisci nell’immediato: a volte arriva tempo dopo, come una eco lontana. Però ti rimane dentro. La scena tra Guido e Giovanni in “Libera nos a malo” mi colpì talmente tanto che piansi fisicamente sul palco. (Guido e Giovanni erano segretamente amanti e si dicevano addio, ndr). Da un punto di vista fisico, anche emotivo, ma sopratutto fisico, mi ha colpito molto “H168”. Fisico perché a causa di un dolore fisico che ho scoperto essere coliche renali, abbandonai lo spettacolo e rimpiango ancora il non averlo terminato. Ma mi dovevo fermare. L’arte si ferma quando viene meno il controllo del corpo.

Cosa pensi dell’arte performativa?

L’arte performativa ti permette di comunicare utilizzando mezzi multipli, mi piace soprattutto questo aspetto. Puoi utilizzare molteplici materiali, molteplici insiemi artistici mischiando tutto… mi spiego meglio: puoi ballare mentre urli e costruisci qualcosa, o stare immobile o costruire un’installazione in cui vivere qualche attimo indimenticabile o riflessivo. Collegandomi ad “H168” penso a “The Buddah’s Hideway” la caverna che ho fatta di luce e origami.

E… riguardo “H168”?

La mia esperienza in “H168” non la saprei definire. Se mi chiedi se mi aspettavo di vivere quello che ho vissuto ti dico a mente fredda assolutamente no. Sicuramente mi ha colpito, anche artisticamente: ho capito che alcune cose che uno ha in mente non sempre riescono nella pratica come le avevi immaginate, non sempre la gente capisce cosa vuoi dire o ti vive passivamente come spesso si fa nei musei. Ma il bello dell’arte performativa è anche quello! “Rapsodia:Stamina” era concepita diversamente, anche se ho partecipato in minima parte, per me è stata un esperienza più “lineare”, usiamo questo termine.

Concordo sul fatto che “H168” sia stata un’esperienza imprevedibile! Hai dei progetti per il futuro riguardo – anche – il teatro performativo?

Sì, sto lavorando a un progetto, momentaneamente sospeso causa Covid-19 per rischio di assembramento sul palco (ride). È un progetto che sto portando avanti con Ga’, anche a livello di regia e sviluppo perfomance, con la collaborazione di alcuni membri dello staff e un performer esterno a Ferai. Per quanto riguarda i temi trattati, ma non voglio anticipare nulla, sono molto attuali in questo periodo. Spero prima o poi si possa riprendere il lavoro. Il mio rapporto con l’arte è variabile e vario, spazio in molti ambiti in base all’ispirazione e al periodo. La performance teatrale aiuta anche a conciliare tutte queste cose.

Come stai lavorando alla regia di questo progetto? Cosa consiglieresti a chi affronta l’esperienza di regista per la prima volta?

La regia di questo spettacolo sarà un po’ elaborata, poi il progetto è nato da poco tempo perciò ci sono tante cose che dovranno cambiare, è un lavoro che si effettua in corso d’opera. La mia prima esperienza di regia è stata molto particolare: per “Vincenzo, l’uomo diventato Santo” non avevo nessuna nozione di regia, mi sono ispirato ad altre cose che avevo visto ma alla fine come prima esperienza credo sia uscito un lavoro discreto. Solo con “Vincenzo, l’uomo diventato Santo” ho affrontato un’esperienza di regia individuale, adesso invece, sia con “TV all you can eat” (titolo provvisorio) che con lo spettacolo performativo mi sto confrontando con la regia collettiva, che forse è più semplice da un certo punto di vista perché hai la possibilità di confrontarti con altre persone e si riesce a focalizzare meglio attenzioni e idee. Sto ancora esplorando il mondo della regia, l’unico consiglio che darei sulla base della mia esperienza è questo: la prima idea spesso si rivela la migliore e se è forte bisogna portarla avanti. Vedere spettacoli con un occhio diverso aiuta ad imparare tanto e a dare suggerimenti. Sicuramente è più facile gestire una regia per se stessi, rispetto ad una regia che comporta il dirigere altre persone. Gli errori e i fallimenti, come i successi, fanno crescere e capire come non ripetere gli stessi “errori”. Ma la parola errore è relativa, preferisco la parola esperienza.

Roberta Mossa

Le voci di Ferai: Roberta Mossa (di Ilenia Cugis)

Intervisterò oggi, per voi, Roberta Mossa. Attrice di Ferai Teatro, ha performato durante “H168” ed è stata una delle due protagoniste dell’ultima edizione de “I Monologhi della Vagina”. Roberta non è una gran espansiva, a freddo, ma basta toccare le corde giuste e scoprirete, insieme a me, quanto diventi chiacchierona! Intanto, se non la conoscete, di lei posso dirvi che l’ho vista mangiare una rapa rossa in scena, mentre il succo della rapa le colava lungo il braccio in maniera estremamente sensuale. Alcune volte ho pensato che Roberta fosse troppo bona per fare teatro (mi distraggo a guardarla!), d’altra parte la trovo invece così brava che sarebbe proprio un peccato non lo facesse. Se l’avete conosciuta durante gli Open Mic nei panni di Suor Michelina (foto), capite cosa intendo. Ok, era una pessima battuta. Beh, che dire, buona lettura!

 

Ciao, Roberta! Innanzitutto grazie per aver accettato di passare dalla parte dell’intervistatore a quella dell’intervistato! Come al solito ti chiedo di parlarci un po’ di te, presentati ai nostri lettori.

Ciao Ile, grazie a te per l’intervista! Allora, questa è la parte più difficile. Ho 28 anni, sono nata e cresciuta a Cagliari, sono laureata in Giurisprudenza, il futuro è un po’ incerto soprattutto dopo che è scoppiata una pandemia globale, un po’ come tutti, credo. Vorrei trovare un lavoro che mi permetta di conciliare la passione per l’arte e nello specifico il teatro con quello che ho studiato per anni, ci sto lavorando diciamo!

Come ti sei avvicinata al mondo dell’arte e poi, nello specifico, al teatro?

Praticamente da subito. Da bambina disegnavo ovunque, quaderni, album, libri e persino sui muri, scrivevo storie e volevo diventare una scrittrice. Volevo pubblicare il primo libro a 9 anni ma il tempo passava e non riuscivo a finire il romanzo… Vorrei ritrovarlo, chissà che avevo scritto! Poi c’è stata l’adolescenza di mezzo e mi sono persa un po’. Ho abbandonato le “ambizioni” artistiche, anche se ho fatto il Conservatorio, ma è un po’ come se anziché sviluppare le attitudini artistiche mi avesse abituato al pensiero strettamente logico e ho perso completamente la creatività. Per la cronaca, ero una violoncellista che in realtà voleva essere violinista… Poi quando avevo 22 anni ho sentito parlare di Ferai. Stavo pensando da un po’ di tempo che mi sarebbe piaciuto provare a fare teatro, ero molto timida e sarebbe stata una bella sfida. Quindi ho convinto la mia migliore amica Ilaria a provare il corso di Ferai e ci siamo ritrovate ogni martedì e giovedì in via Ada Negri, e da quel momento non ho più smesso.

Ci dici che avevi 22 anni… quindi correva l’anno…?

2013/2014, l’esito scenico era “Goethe – Faust

Il Faust, andato in scena al teatro La Vetreria, vero? Me lo ricordo molto bene, ero tra il pubblico!

Sì, ricordi bene!

Ci racconti le tre cose più difficili che hai dovuto superare a teatro?

Innanzitutto la paura del giudizio, l’onnipresente giudizio che ti blocca e ti fa avere sempre paura di sbagliare. E non solo il giudizio degli altri, proprio il tuo. Liberarsi dall’ansia di categorizzare tutto quello che fai in giusto o sbagliato, bene, male, mediocre, così così… Che poi associ anche a te stesso queste categorie, cioè se sbagli o se fai male una cosa vuol dire che sei tu incapace e che non vali abbastanza. E invece il vero errore è non fare niente per paura. Andrea e Ga’ mi dicevano sempre che “l’unico errore è non fare” quando all’inizio non volevo fare le cose, tipo “oggi guardo e basta così capisco”, “no, questa cosa non me la sento di farla” e così via. Bene, hai sbagliato e sei ancora vivo, visto? Cioè dovrebbe essere una cosa scontata, ma per me non lo era affatto in quel periodo. Poi la paura di stare al centro della scena, mi nascondevo sempre un po’. Questo per “Habeas Corpus” soprattutto, avevo un personaggio, Anna, che era una super diva, la odiavo moltissimo! (uno degli spettacoli in cui Roberta era così bella da distrarmi, ndr) Si trattava praticamente di mettere da parte me stessa e lasciar agire il personaggio. E poi ultimamente sto cercando di prestare attenzione ai dettagli, niente approssimazione, ma precisione in tutto, soprattutto nei movimenti in scena.

All’inizio, quando ti sei presentata, ci hai raccontato che da bambina sognavi di fare la scrittrice. Ora vorrei chiederti se la passione per la scrittura ti è rimasta e se il teatro in qualche modo ti dà la libertà di continuare a coltivare anche quel “vecchio” sogno.

Sento che non è ancora il momento per scrivere qualcosa di totalmente mio, non so esattamente perché. Però sarebbe bellissimo scrivere un copione. Per ora abbiamo iniziato un esperimento di scrittura collettiva con lo staff di Ferai, finora è stato molto interessante.

Di cosa si tratta questo esperimento di “scrittura collettiva”? Come hai avuto l’idea?

Nasce per caso da una chiacchierata con un amico, eravamo in Marina e stavamo parlando di cosa fare “da grandi” e ci siamo resi conto di trovarci in una situazione molto simile, quella di andare avanti senza sapere bene dove e perché. Quindi ci siamo chiesti se fosse davvero un problema solo nostro, e abbiamo iniziato a dire “anche Tizio ha questo problema, anche Caia in realtà, solo che lei se la vive bene, pensa che la flessibilità sia un’opportunità” e così via, nel senso, secondo noi è una situazione abbastanza comune. E pensandoci ancora meglio, dopo, non è solo precarietà lavorativa, è precarietà su tutti i fronti, emotiva, relazionale, ognuno a suo modo, quindi esistenziale dovrebbe essere la definizione giusta. Se il teatro in qualche modo deve essere attuale, contemporaneo, beh potrebbe raccontare questa condizione, questo senso di smarrimento, dell’impossibilità di controllare tutto e dell’imprevedibilità della vita. E siccome risentiamo molto della mancanza di una comunità, nel senso che devi sempre cavartela da solo a prescindere dagli strumenti a disposizione, viviamo nel mito dell’auto-realizzazione, dell’esaltazione dell’ego ecc ecc, ho pensato che sarebbe stato bello che questo copione lo scrivessimo in gruppo. È bello anche investire le proprie energie in qualcosa che appartenga a tutti e non a me stessa e basta, credere negli altri oltre che in se stessi.

Così, in sei, abbiamo avviato una fase di ricerca libera da condividere con gli altri. Se uno di noi trovava un film interessante sul tema lo consigliava a tutti, stesso discorso per libri, opere d’arte visive, articoli di giornale, qualsiasi cosa. In particolare ci siamo concentrati su interviste a persone che secondo noi avevano una storia interessante, perché volevamo prendere spunto dalla realtà, soprattutto in casi particolari, per esempio abbiamo deciso di affrontare il problema della precarietà nelle disabilità, non volevamo una rappresentazione edulcorata del disabile ma un ritratto psicologico vero per creare un personaggio, non un cliché. Quindi abbiamo raccolto tutto il materiale, lo abbiamo letto e ci siamo fatti una nostra idea dello spettacolo e dei personaggi. E poi, brainstorming per capire cosa scrivere: cioè la trama e le singole scene dello spettacolo. La storia che abbiamo creato è completamente diversa rispetto a quella che immaginavo all’inizio e sono stata molto felice di questo! E infine ci siamo affidati ognuno una scena da scrivere, alcune a due mani. Ora sto rivedendo il copione, sto tagliando e sintetizzando, questo lavoro deve farlo una sola persona perché è più pratico. Tutto ci sto tagliando! Che bello!

Rido. Non vedo l’ora di scoprire il risultato!

Devo dire che per fortuna nel gruppo c’era chi aveva già esperienza nel scrivere copioni in 3/4 persone, altrimenti sarebbe stato più complicato! Siamo quasi alla conclusione, te lo prometto. Adesso, Roberta, ci descriveresti la tua esperienza in “H168” usando solo 12 parole?

H168”! Follia, intensità, fiducia, empatia, rischio, ansia, follia al quadrato, scala rot… Ehm. Euforia, tristezza, paranoia, silenzio, intimità, concentrazione.

Grazie mille Roberta, è stata una chiacchierata molto interessante! Prima di congedarci, un’ultima domanda: Se la tua vagina potesse parlare, cosa direbbe?

Ride. Questa non me l’aspettavo! La mia vagina è una tipa che ha idee progressiste ma sogna il principe azzurro, dice che spera che tutte le vagine del mondo siano felici e che godano sempre moltissimo, anzi è anche un po’ ingenua e si è candidata a “Miss Italia delle Vagine” e dice che il suo sogno è la pace nel mondo, e si augura che le ragazze smettano di fingere gli orgasmi per compiacere i partner e che inizino a conoscersi meglio quindi a masturbarsi senza vergogna e a provare piacere quando, come e con chi vogliono! Direbbe di seguire i propri istinti e ascoltare le vagine che hanno sempre ragione! Che poi… anche se si è candidata per Miss Italia, non vuole lo stesso farsi vedere in pubblico!

Una vagina che quando vuole sa essere una gran chiacchierona, come la nostra Roberta!

Ilenia Cugis

Le voci degli artisti: Sergio Piano (di Ga’)

Sergio Piano è da tantissimi anni professionista del teatro, co-fondatore dello storico teatro “Alkestis” e fondatore del Teatro “Intrepidi Monelli” primo spazio teatrale a sorgere a Sant’Avendrace. Ma tra i sogni del regista non c’era solo quello di poter inaugurare un teatro nel proprio quartiere di nascita, ma anche tanti altri progetti, tante strade che attraversano i diversi generi teatrali, le diverse esperienze del passato, dal teatro di ricerca degli anni 70’ ai laboratori di formazione fino all’organizzazione di festival comici e brillanti; tra tutte queste strade, un punto fermo: mai arrendersi, perché il teatro è vivo e alla portata di chiunque.

Come va Sergio? Grazie per aver accettato l’intervista. Chiacchieriamo un po’ sul teatro che è un argomento sempre buono. Visto che a livello di pratica possiamo fare poco per ora, possiamo soffermarci su qualche riflessione in più, tu e il tuo Teatro “Intrepidi Monelli” come state affrontando questo periodo di sospensione delle attività?

Sospensione, è realmente, sì, un periodo di sospensione. Lo spazio degli Intrepidi aveva moltissime attività e due nostre produzioni in corso di preparazione, ora è tutto fermo. Ma non sono spaventato, al di là delle difficoltà economiche (e tante altre naturalmente) in questi giorni “di sospensione” la testa è andata indietro nel passato, è sorta una voglia di recuperare determinati studi, i miei inizi a teatro, ma anche ridare nuova vita a vecchi progetti.

Quando parli del passato, parli di ciò che c’è stato prima degli Intrepidi Monelli, del teatro di ricerca, la storia del teatro del novecento, da Jerzy Grotowski in poi.

Esattamente, Grotowski, ma anche tutto il contesto, la ricerca fatta muovendosi, a volte isolandosi, studiando sul posto, studiando il teatro dei riti, dei primi rituali, poi i dervisci, e ancora Yoshi Oida, Zygmunt Molik, Ryszard Cieslak. C’è il forte desiderio di riprendere quei materiali.

E questo teatro di ricerca che affonda le radici in un tempo così lontano, oggi è praticabile, fattibile, in che modo? So che hai visto il nostro “RAPSODIA:ORIGINS” che traeva spunto da quel tipo di ricerche rituali, quindi sai bene che la domanda non è per niente disinteressata.

Sì, “RAPSODIA:ORIGINS” l’ho visto, sai bene quindi anche tu che è il teatro di ricerca è realizzabile sempre e sono dell’idea che le cose si evolvono. La ricerca non smette di esistere nel Novecento, ce la portiamo dietro e in qualche modo si evolve perché è diversa la vita oggi ma ripeto, lo sai bene, c’è quella fame, quell’esigenza, quella necessità.

Lo so, infatti “chiedevo per un amico” nel senso: una volta ogni tre mesi più o meno, qualcuno si sveglia e grida questo parere non richiesto “la ricerca teatrale è morta, inutile, non attuabile” e che anche “i grandi Maestri sono morti, non esistono più, quindi tutto è perduto, non esiste più il vero teatro e chi può insegnarlo!”

Ma i grandi Maestri in realtà ci sono, esistono, vanno conosciuti, vanno cercati se non hai la fortuna che ti capitano davanti. Soprattutto l’attore deve studiare sempre, approfondire con sé stesso: un attore che non ha fatto i suoi studi, che non li ha scelti, che non si è formato, in scena lo vedi, lo capisci subito.

Quindi il teatro è vivo e anche chi lo insegna, possiamo tranquillizzare gli scettici.

Ti racconto un aneddoto. Molti anni fa Pierfranco Zappareddu aveva organizzato un laboratorio tenuto da Ryszard Cieslak, l’attore di Grotowski. Eravamo una trentina di allievi, ma tra me e Ryszard ci fu subito un rapporto molto diretto, una grande intesa, verso la fine del percorso mi chiese se volevo seguire io da insegnante un laboratorio all’estero. Io però avevo davvero degli impedimenti gravosi e l’impossibilità di partire, insomma, uno dei miei compagni di quel laboratorio non poteva credere che fossi costretto a rifiutare così. A volte nelle esperienze teatrali capita questo: passa un treno e non puoi prenderlo oppure ti trovi davanti a un grande Maestro, ma in quel momento non ti accorgi o c’è molto altro. Ma se vai a cercare, la tua formazione la trovi, io ho lavorato tanti anni con Claudio Morganti, tuttora vivente, in anni mi ha dato moltissimo, torniamo sempre a questo: che l’attore deve fare un percorso personale molto forte, con molta pazienza, con molta dedizione, senza voler arrivare dal nulla al “tutto e subito.”

Quando ti occupi di una nuova produzione, che caratteristica ha l’attore che ti rimane nel cuore, cosa è in grado di materializzare per te regista, sulla scena?

Tra le tante persone con cui ho lavorato, attori, allievi, devo dire che sono rimasti tutti nel cuore per qualche motivo. Quello che posso dirti è che ti rimane l’attore formato, quello che sa vivere la sua tecnica in scena, che sa farti vivere delle emozioni nel momento, questo non significa per forza l’attore con la dizione perfetta come si è soliti credere o l’attore che scimmiotta quel modo di parlare artefatto: quella è una cosa che non mi è mai interessata e anzi spesso mi annoia, deve esserci dell’altro.

Cosa farai “dopo” ? Dopo tutti questi anni, dopo la fondazione, sei anni fa, degli Intrepidi Monelli, dopo tanto lavoro, c’è un progetto, “lo spettacolo della vita” qualcosa che vuoi realizzare perché senti che ti manca.

C’è. Si tratta di uno studio che in parte ho già affrontato in passato ma non l’ho mai concretizzato, un lavoro sul Don Chisciotte” di Cervantes, non ti so nemmeno dire, non mi metto nemmeno io il limite, se lo affronterei come teatro di ricerca, come un’attività contaminata o qualcosa di più brillante, forse anche un insieme di tutte queste cose, per quanto può sembrare enorme, ampio o presuntuoso.

Come mai tra tanti materiali proprio il “Don Chisciotte”?

Don Chisciotte” perché è molto attuale nel parlarci della Lotta. Una lotta contro i mulini a vento che per noi, nella nostra professione artistica è tutto ed è tutto ciò che c’è da raccontare. Un racconto di avversità. Potrei nominarne moltissime avversità, ma il nocciolo, quella principale è che quando vai a fare questo lavoro, la professione del teatro, non puoi avere una vita normale, le rinunce sono tante, rinunci anche agli affetti, ai rapporti che chiunque in un’altra professione darebbe scontati. Al tempo stesso le persone con cui collabori, gli allievi, i maestri, tutti, in qualche modo diventano una famiglia, però sei sempre in lotta, contro qualcosa che non si può sconfiggere, ma non è importante, perché l’importante è solo il lottare.

Quindi abbiamo questo frammento del futuro, le produzioni con gli Intrepidi Monelli e in qualche modo, prima o poi Don Chisciotte”Produrrai o dirigerai qualcos’altro?

Ultimamente, soprattutto negli ultimi due anni ho preferito fare un po’ di spazio agli altri, una cosa che non è facile nel nostro settore, perché vedi sempre l’ego delle persone che emerge, ma io sono sempre stato un po’ così e negli ultimi due anni in particolare mi sono reso conto che se non si sta troppo concentrati solo su se stessi, ma si allarga l’orizzonte, si invitano compagnie, si guarda come gli altri lavorano, come fanno laboratorio, se si fanno collaborazioni, in questo modo si viene a conoscenza di cose che non si sarebbero mai immaginate, mi ha arricchito moltissimo vedere gli altri lavorare ed è giusto riuscire a lasciare spazio anche agli altri.

Collaborare porta anche ad attirare più pubblico, far conoscere realtà diverse che s’incontrano, come è andata da questo punto di vista?

Il pubblico ha reagito bene, piacciono le attività e le diverse cose che proponiamo, ma la cosa che da più soddisfazione è che ci sia il modo di far conoscere il teatro al pubblico, perché ancora oggi molti arrivano a vederlo per la prima volta. Da quando abbiamo aperto lo spazio, più di una volta mi è successo che una persona, l’ultima volta per esempio una signora “Ma quindi il teatro è così? Il teatro è questo” “Si signora, il teatro è questo.” C’è molta disinformazione su cosa succeda in uno spettacolo, ma quando si va a teatro, se gli attori in scena sono preparati, non si può non restare innamorati.

Ga’

La voce degli allievi: Angela Mulas

Iniziamo con qualcosa di semplice semplice (forse) mi racconti come ti sei avvicinata al teatro e perché?

Mi sono avvicinata al teatro casualmente e soltanto perché una mia amica (Vittoria) desiderava fare questa esperienza. La mia curiosità mia ha portato a conoscenza dell’esistenza di una nascente scuola di Teatro, Ferai per l’appunto. Da qui il passo è breve per prendere contatto con Andrea tramite fb e chiedere informazioni sui laboratori e sulla possibilità di frequentarli nonostante l’età avanzata.

Parliamo di questa “età avanzata” ha avuto qualche impatto in particolare? E al tempo stesso, in contrasto, il teatro che impatto ha avuto nella tua vita? Una bella passione e basta o ha trovato collegamenti che non ti aspettavi in altre cose?

Il teatro per me è stato come un campo aperto dove non c’era nulla, dove ho potuto coltivare in modo puro e libero da qualsiasi condizionamento tutti i talenti repressi durante l’infanzia e ancor di più nella mancata adolescenza. Il teatro è stata per me l’opportunità di far germogliare, strato dopo strato, la Primavera della mia vera essenza. Personalmente penso che la Primavera non sia da associare alla giovinezza del corpo fisico, come comunemente accade, ma allo sbocciare lento e spontaneo di chi siamo veramente chiamati ad essere nel corso della nostra vita. Poeticamente direi: “La Primavera non è una passeggiata sul prato della spensieratezza, è molto di più, è un dolore che rompe il nostro involucro da dentro per divenire ciò che vorrai essere nelle stagioni che verranno.“

C’è sempre molta poesia, anche disegno che io sappia, poi lo Yoga, tante cose, queste cose sono arrivate o ci sono state anche prima o solo dopo il teatro? Il teatro hai detto, lo hai conosciuto per caso, le altre “vocazioni” invece?

Il disegno e lo Yoga fanno parte di me da sempre, anche se non lo sapevo… nel senso che, se ripenso ai momenti felici di me bambina, mi rivedo leggera e quasi sospesa da terra proprio mentre disegnavo o facevo ginnastica artistica. Per quanto riguarda il teatro ci sono tre aneddoti che lo richiamano nella mia infanzia: il primo è il ricordo legato ad uno zio invalido che viveva con noi in famiglia e che amava le opere classiche. Mentre lui cantava io recitavo col corpo il senso delle parole di quell’opera; il secondo ricordo è una recita scolastica che per lo più mi ha lasciato impresso l’odore, il rumore, la luce e il buio del palcoscenico; il terzo è un saggio di danza artistica sempre sul palco di un teatro.

C’è sempre molto corpo, molto colore, che per me è normalissimo ovviamente, non li vedo come cose separate, ma spesso non lo si vive così.

L’incontro con lo Yoga vero e proprio è stato comunque casuale in età avanzata e in questo caso devo ringraziare Vittoria perché mi ha in qualche modo restituito la stessa opportunità che io le ho offerto col teatro. Mi ha invitato ad una lezione prova presso il centro yoga gestito da sua sorella. Quella lezione per me fu illuminante perché mi sentii da subito a “casa mia”, tanto che dopo sei mesi di pratica presi la decisione di fare il corso di formazione.

Yoga e teatro possono incontrarsi? Lo hanno mai fatto per quanto riguarda te? O lo faranno mai?

Da subito ho avuto questa percezione. Avendo alle spalle già qualche anno di esperienza teatrale, mentre avanzavo nel percorso yogico, sentivo sempre più prepotentemente la connessione tra questi due mondi, quasi come se l’uno fosse dentro l’altro. Infatti il mio desiderio nascosto sarebbe quello di far confluire le due discipline.

E la poesia?

La mia formazione scolastica, come forse ti ho già raccontato, è stata interrotta bruscamente a causa di una situazione familiare molto difficile. Mio padre si è ammalato in giovane età e con cinque figli. La sua malattia è poi avanzata con l’amputazione di entrambi gli arti inferiori. Non c’erano le possibilità economiche per farci studiare e quindi all’età di quindici anni ho iniziato a lavorare come commessa in un negozio di calzature, dove col tempo mi sono fatta spazio esprimendo la mia vena artistica nel campo dell’esposizione assumendo il ruolo di vetrinista.
Le lacune culturali come ben puoi immaginare erano e sono tantissime, ma la curiosità mi ha sempre spinta a imparare da autodidatta. Con questa premessa puoi ben capire che scrivere poesia o prosa non era per me consuetudine ma neanche attitudine perché non l’ho mai fatto neanche in tenera età.

La Poesia è arrivata nella mia vita all’età di 48 anni, esattamente in corrispondenza con la morte di mia zia, sorella più piccola di mia madre. Lei era una pittrice e scrittrice di poesie. Il giorno prima che morisse sono rimasta tutta la sera con lei mano nella mano e ogni tanto tentava di dirmi qualcosa ma non riuscivo a comprenderla. La salutai e quando rientrai a casa sentii un forte impulso di scrivere in versi, cosa mai fatta, tanto che mi spaventai. Di getto scrissi una poesia per lei e da quel momento non ho mai smesso di scrivere. Mi piace pensare che quella sera, attraverso quella stretta di mano, mi abbia trasmesso la sua energia e la sua vena poetica. Ga’ la mia vita è troppo lunga, pensa che con Vittoria stiamo scrivendo un libro a quattro mani, ti dico solo il titolo: “La Sedia”

Uno Scoop editoriale in pratica, dovrò leggerlo assolutamente allora, nel mentre parlami dei personaggi che hai interpretato al laboratorio teatrale e durante gli esiti scenici, il tuo preferito?

Se devo indicarne solo uno allora dico Lady Bracknell di “Habeas Corpus” che è stato il personaggio che mi ha fatto divertire tantissimo perché dentro ho potuto esprimere tutti i miei talenti, le sfumature e i colori della mia personalità. Dal punto di vista personale Lady Bracknell rappresenta la mia parte luminosa e giocosa, mentre Freya e la Donna di fango (“A Oriente del Sole e a Occidente della Luna”) rappresentano il mio lato oscuro. Dal punto di vista teatrale, penso rappresentino le maschere, simbolo principe del teatro stesso. In un futuro teatrale potrebbero incontrarsi magari per chiudere il cerchio… Dopo “A Oriente del Sole e a Occidente della Luna” ho sempre pensato che la Donna di fango avesse molto altro da dire…

Ga’

 

Le voci degli allievi: Matteo Genco

Il progetto “Senilia” di Ferai Teatro nasce nel lontano 2012 come luogo di aggregazione e confronto tra over 60 che vogliono stare tra di loro a imparare e mettersi in gioco nel campo della recitazione teatrale. Tenuto a battesimo da Ga’ e Andrea Ibba Monni, il progetto viene ripreso nel 2019 e affidato a Francesca Cabiddu che con la supervisione e la direzione artistica di Ferai, firma i progetti “Santa Trofimena”, “Pinocchio” e “Il viale dei ciliegi”. Tra i vari partecipanti alla classe della terza età, Matteo Genco a cui abbiamo ricolto qualche domanda (segue dopo la foto)

Matteo, cosa possiamo dire di te per presentarti?

Ho 65 anni ed un carattere estroverso ed espansivo, sono una persona solare e con il sorriso sempre pronto a fare nuove esperienze e amicizie.

Teatro perché?

Sin da piccolo volevo fare del teatro ma per vari motivi non ho mai avuto l’opportunità di frequentare una scuola di teatro. Quando mia cognata mi ha invitato a partecipare al corso “Senilia” di Ferai Teatro mi è sembrato di poter realizzare il mio sogno ed ho accettato con tanto entusiasmo.

Un entusiasmo contagioso! Quanto influisce l’età sulla recitazione a tuo parere?

Per me l’età anagrafica non è rilevante in quanto ritengo che si possa fare teatro a qualunque età.

E condividi questa esperienza con moglie e cognata…

È una bella esperienza che tutti noi condividiamo piacevolmente.

Lo spettacolo del cuore in cui hai recitato fino ad ora?

È stato quello della mia prima esperienza, la prima volta che ho calpestato le assi di un palcoscenico teatrale con la recita “Santa Trofimena” che mi ha permesso di realizzare quel sogno che avevo sin da bambino.

N.B.O.

Le voci degli allievi: Federica Pittau

Federica Pittau sei un’artista neo diciottenne che tra le varie forme d’arte esplora anche la recitazione dal momento che frequenti la classe Odeon di Ferai Teatro. Ma tu come ti descriveresti?

È una domanda difficilissima! Credo di essere tante cose, tante piccole essenze. Una cosa di cui sono pienamente consapevole è che sono estremamente sensibile ed empatica, cosa che mi aiuta molto nell’ambito artistico al quale da un anno a questa parte mi sono completamente dedicata.

Credo di essere combattiva, so ciò che voglio e sono disposta a tutto per raggiungerlo: non importa la difficoltà o la fatica, anzi, la soddisfazione sarà migliore, no? Ho sempre pensato che noi nasciamo per poter creare sogni, coltivarli, lottare, raggiungerli e poi goderceli. Ho imparato che la mia felicità sta nelle piccole cose, come può essere un momento passato con le persone che amo di più o anche solo vedere un loro sorriso sincero; mi godo i piccoli ma spensierati momenti, i piccoli traguardi o semplicemente tre minuti della mia canzone preferita. Sono uno spirito libero, amo infrangere gli standard o la “normalità”, amo la ribellione sana, amo la rottura degli schemi, amo abbattere giudizi e pregiudizi e amo combattere per la libertà mia e altrui.

Perché fai teatro?

È da tempi “immemori” che ho un’attrazione sproporzionata verso la recitazione, da qui il mio primo musical serio a 9 anni nel quale interpretato il piccolo Michael Banks di Mary Poppins. Ho sempre guardato i film in modo diverso dalle altre persone, oltre l’immagine, studiando fin da subito le movenze, le mimiche facciali e la grandezza degli attori. L’amore verso il teatro in particolare poi è sbocciato proprio durante la mia fase acuta adolescenziale, quando frequentavo le medie. Ho avuto la fortuna di avere un’insegnante d’Italiano straordinaria, tutt’ora uno dei miei idoli indiscussi, amante anche lei di questo mondo speciale che è riuscita a trasmettermi e a far crescere dentro di me questa passione. Grazie a lei sono entrata nel mondo del palcoscenico, ho visto tanti spettacoli e guardato e sentito tanti attori che mi hanno stregata, portandomi a pensare “un giorno vorrei essere così!”.

Cos’è per te il teatro?

Faccio teatro perché amo il teatro e amo fare teatro in tutte le sue sfumature: cambiare e diventare qualcun altro rappresenta tantissime sfide (perché non è mai semplice interpretare, inventare o reinventare personaggi molte volte completamente differenti da te e con diversa situazione). Il palcoscenico poi è un mondo a parte distaccato dal nostro quotidiano, una dimensione dove la vita è eterna, dove i personaggi nascono, vivono e muoiono in continuazione, dove anche la più piccola cosa assume un significato esponenziale. Ora come ora sto studiando sodo, cerco ogni giorno di affrontare e sconfiggere le mie difficoltà perché vorrei portare questa passione oltre una passione stessa, realizzare il mio sogno più grande in assoluto ossia diventare abbastanza brava da poter trasformare tutto questo in lavoro.

Per me il teatro è vita: ho trovato lì la mia stabilità e gran parte della mia felicità e soddisfazione. È il mio posto felice, il mio luogo sicuro, la mia seconda casa. Ho trovato persone con le mie stesse passioni, amici veri, anime diverse tra loro, tante storie, amore, supporto e un’altra famiglia. Con il teatro riesco a dare sfogo al mio essere, trasmettere le mie emozioni, dare parte del mio spirito e riceverne altrettanto

Vai a teatro?

Sì, ci vado un po’ per lo stesso motivo per cui lo faccio. Sotto un punto di vista tecnico “sfrutto” gli spettacoli altrui per imparare sempre cose nuove, vari metodi di comunicazione e trasmissione, apprendere i diversi stili o conoscere altre circostanze; dall’altra vado per catapultarmi in altri luoghi, realtà parallele alla mia, perché la vita sul palco è vera, al di là dell’attore e della scenografia, ci sono personaggi e mondi reali. Nel mondo dello spettacolo poi molto spesso i limiti non esistono, c’è più libertà, più sentimento, più poesia, è tutto più profondo e spesso umano. E poi è un mondo così profondo e vivo che ogni volta è un “innamorarmi nuovamente” del teatro.

Qual è l’esperienza finora più importante con Ferai Teatro?

Anche questa è una domanda ardua perché ci sono stati moltissimi momenti vissuti con Ferai che mi hanno segnata e che mi porterò dentro per tutta la vita. L’esperienza più bella in assoluto però è stato il palco e credo continuerà ad essere tale: l’adrenalina, l’amore e l’attenzione del pubblico che è venuto lì proprio per vedere lo spettacolo a cui partecipi, la trasformazione da te al tuo personaggio, l’unione e la solidarietà, la felicità e il sostegno palpabili nell’aria, un po’ come anche la tensione prima dello spettacolo, tutto tra te e i tuoi compagni d’avventura, d’arte, i tuoi amici, coloro che diventano la tua seconda casa e famiglia, senza contare la festa, la tantissima nostalgia successiva la fine dello spettacolo e la grandissima soddisfazione dopo aver messo in scena frutto di tantissimo impegno, lavoro, sacrifici e ostacoli superati, una soddisfazione personale e collettiva. Sono sensazioni ed emozioni talmente grandi da non poterle descrivere pienamente, solo chi ha provato l’essenza di un’esperienza simile può, in parte, capire.

N.B.O.

Le voci di Ferai: Claudia Congiu

Oggi vi presento l’intervista alla nostra Claudia Congiu, attrice e performer dello Staff di Ferai Teatro. Ho conosciuto Claudia al Drury Lane, modulo comico, lo spettacolo si chiamava “Ma non farmi ridere”, era sopravvissuta all’Erasmus e catapultata a Ferai pochi giorni dopo. Claudia è una tipa carismatica, ironica e sicura di sé – ovviamente mi sfotterà per questa descrizione. Spoiler alert: è ingegnera e ama moltissimo la scienza e tutte quelle cosettine semplici semplici tipo circuiti elettrici, calcoli matematici e varie amenità che istigano al suicidio i miei neuroni da giurista!

Ciao Claudia, piccola premessa: come ti presenteresti ai nostri lettori?

Ciao a tutti, sono Claudia, nella vita studio ingegneria informatica, ora sono alla magistrale. Ho collaborato a costruire il sito di Ferai (questo qui)e poi da qualche mese a questa parte mi sto occupando delle tecniche audio luci: ho fatto il tecnico per RAPSODIA:ORIGINS” andato in scena al Teatro Massimo dal 17 gennaio 2019 per dieci repliche.

Come nasce la tua passione per il teatro?

In realtà è nata quasi per sbaglio! (ride) Alle medie dovevamo fare dei laboratori pomeridiani obbligatori, cose tipo giornalino della scuola, uncinetto, latino (che poi il latino o lo metti come materia obbligatoria o un ragazzino non lo studierà mai!), musica oppure un fantastico corso di teatro e ho detto “va beh proviamo!”

Non siamo mai andati in scena perché la tipa che teneva il corso voleva farci fare cose fighissime, importanti, molto famose, ma senza nessuna base.

Fatto sta che non siamo mai andati in scena, per fortuna, io ero Mirandolina nello spettacolo e odiavo quel personaggio perché… Beh, a 13 anni che ne sapevo della civetteria!

Poi alle superiori ho fatto il liceo scientifico ed era passata una circolare in cui si diceva che iniziava un corso di teatro e che potevamo iscriverci, così ho convinto una delle migliori amiche a fare il corso, voluto e gestito dall’insegnante di informatica. 

L’esito scenico era un vaneggio in cui si parlava della didattica a scuola, una lezione pitagorica e euclidea.

Per dire, scena c’erano Pitagora e Euclide che parlavano di matematica…

La regista ci ha insegnato come respirare di pancia, muoversi in scena, respirare di pancia, occupare lo spazio, insomma le basi. 

Quindi ho fatto circa 4 anni di laboratori prima di conoscere Ferai.

La Regina Bandita, foto di Valeria Castellino

Vuoi raccontarmi qualcosa di particolare di questo periodo? Tipo un aneddoto divertente…

Non lo so se è divertente, comunque in terza abbiamo preparato uno spettacolo per il Festival della Scienza, abbiamo portato in scena i dialoghi di tre personaggi, Leonardo da Vinci, Galileo Galilei e Marie Curie, interpretati da più persone. Ovviamente alle ragazze avevano dato la parte di Marie Curie! Poi la professoressa dopo un paio di mesi di prove mi ha chiesto se mi piacesse la parte che mi avevano dato. Il dialogo è stato più o meno questo:

Prof: Beh Claudia e allora? Che ne pensi, ti piace la parte di Marie Curie?

Claudia: ma si dai, però sinceramente avrei preferito il dialogo di Galileo.

Prof: Va beh Claudia, siete ragazze, è normale che vi diamo la parte di Marie Curie e non di Galileo, vi abbiamo dato la parte femminile…

Claudia: Ma in realtà io non credo che questo sia un problema!

Prof: Perfetto! Allora visto che non è un problema ti fai anche i dialoghi di Galileo (“Vita di Galileo” di Bertolt Brecht).

Quindi possiamo dire che il teatro e la passione per scienza sono andati di pari passo… e infatti per RAPSODIA:STAMINA” hai ideato la performance Macchina Elettrica! 

Non proprio di pari passo, ma avendo avuto questa formazione, peraltro da una prof. di informatica, ho sempre avuto, diciamo… un occhio per la didattica non convenzionale. I ragazzi riescono a interessarsi più facilmente a un argomento scientifico e noioso, se viene affrontato in un certo modo, per esempio portandolo in scena, e questa esperienza mi ha ispirata per Macchina Elettrica. 

Mi sono scervellata per trovare una performance a scopo scientifico interessante anche per un pubblico di adolescenti – il concept di Macchina Elettrica è l’uomo trattato come se fosse una macchina, che si muove in base a un certo stimolo, quindi perfetto con i circuiti elettrici e gli interruttori!

Puoi gestire l’uso degli utilizzatori: perché non fare in modo che l’uomo sia una macchina e scomporre il suo corpo in pezzi che funzionano uno per uno? 

Ho saldato un circuito elettrico, con led e un cavo di due metri circa attaccato al corpo del performer in totale sicurezza. Se il Led era acceso, il performer poteva/doveva muovere quella parte. 

Macchina Elettrica – Rapsodia: Stamina, foto di Roberta Plaisant

Il tuo personaggio preferito tra quelli che hai interpretato? 

La Regina Bandita” sicuramente – ero uno spirito che parlava della disamistade. Poi sicuramente ho amato moltissimo Speranzina Curreli per “Libera nos a malo”, per certi versi la trovavo molto simile a me e mi piaceva interpretarla. E poi Anne Sexton, per “Sylvia Plath – il richiamo fatale della perfezione”, era un personaggio particolarmente affascinante. 

Roberta Mossa