Anna Gualdo in una foto di Marcello Norberth, 2020
Il 2011 è un’altra vita: il ventottenne che ero inizia a sentire che c’è qualcosa di fasullo, di stantio, in ciò con cui ho a che fare sulla scena cagliaritana. Domenica 29 maggio 2011 al Teatro Civico di Castello a Cagliari va in scena “Macadamia Nut Brittle” di Ricci/Forte (questo) e resto stregato da tutto e da tutti ma sopratutto e soprattutti da Anna Gualdo, dal suo sguardo, dalla sua voce, dal suo corpo e da come usa tutto in tutti i modi possibili: su quel palco la sua anima sanguina e il suo corpo vive una vera e propria Passio Christi. Riconosco tutto e penso: questo è il teatro che mi interessa ora e ora posso concretizzarlo dal momento che non è solo una mia pulsione.
Sarà una delle prime volte in cui capirò che io e Ga’ stiamo mettendo Ferai Teatro sulla buona strada.
In quegli anni facebook è agli esordi e mentre la gente invia poke e si scambia pollame e ortaggi, io chiedo l’amicizia sfacciatamente a tutto il cast. Ogni tanto sento Gianni Forte e Anna Gualdo, cerco di non essere invadente, nascono scambi sporadici ma sempre abbastanza interessanti.
Sabato 11 marzo 2017 al Teatro Massimo di Cagliari va in scena “Still life” (questo) Anna è pressoché immobile sulla scena ma proprio per questo il suo sguardo e il suo corpo, il suo essere al tempo presente è ancora più potente. La sua interpretazione è da brividi: l’inaspettata staticità è stata controbilanciata impeccabilmente. Mi fiondo nei camerini in barba a qualunque principio di buona educazione, la vedo, li vedo tutti, tutti felici come bambini, madidi di sudore. Lei mi accoglie come una sorella maggiore accoglie il fratellino un po’ invadente ma mi abbraccia nonostante la lombalgia la inchiodi da giorni.
Lunedì 11 maggio le strappo questa intervista in chat messenger: non so perché me la concede, ma non so neppure perché mi ha accettato tra gli amici di facebook nove anni fa né perché mi ha accolto fraternamente nei camerini nel 2017. So solo che ho il privilegio di avere a che fare con un’attrice vera, brava, preparata.
Prima di lasciarvi all’intervista vi svelo un segreto: dal 2011 ogni volta che ho a che fare con un’attrice, che sia un’allieva o una collega io la misuro su Anna Gualdo.
ANDREA IBBA MONNI: Non è un’accusa ma una premessa: online si trova poco di te, della tua vita e della tua formazione. Ma tu chi sei? Chi è la professionista Anna Gualdo? Cosa scrivo?
ANNA GUALDO: Io sono un’attrice – oggi controvoglia detta “performer” – molto poco social e molto poco autoreferenziale. Faccio molta fatica a raccontare cosa faccio e cosa sono fuori dal mio lavoro poiché spero di mettere me stessa in quello e spero non sia poco.
Qual è stato il tuo punto di partenza, l’anno zero? Insomma: quando e come hai deciso di fare teatro per la prima volta?
La prima apparizione pubblica risale al maggio del 1972, in “Cappuccetto rosso” alla 24 Maggio di Trastevere. Poi dobbiamo arrivare al 1984 quando comunicai a due professori universitari di Paleografia e Latino Medievale la mia intenzione di iscrivermi all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Tralascio le loro reazioni.
Hai ricordi di mercoledì 24 maggio 1972?
Come fosse oggi. Alla recita scolastica venne solo mia nonna, i miei già troppo impegnati iniziarono il lento e frustrante logorio educativo. Recitavo e cantavo nel mio mantello rosso, come trent’anni dopo in “Grimmless” (questo) Fu un successo enorme anche perché recitai le battute di un lupo piagnone e smemorato di sei anni: avevo sei anni ma anche “Grimmless” nacque come ricordo di quella bambina oggi senza favole. Mi sentivo contenta, eccitata, piccola e capace di stregare gli spettatori.
È cambiato qualcosa o sei sempre quella attrice eccitata e capace di stregare gli spettatori? Va be’, potrei chiederti semplicemente se senti sempre l’eccitazione perché gli spettatori li streghi, te lo garantisco io.
Il mio attuale fidanzato dice che dopo gli spettacoli sono sempre l’unica a ridere ai ringraziamenti forse perché sono ancora eccitata dalla capacità di coinvolgere e coinvolgermi. Non è cambiato niente, stesse sensazioni, paura… e qualche ruga.
Parliamo un po’ di questa “paura”?
Paura ed eccitazione vanno di pari passo: la paura è adrenalina e sensazione di essere impreparati ma anche la paura di rimettersi in gioco davanti al pubblico. Non ho mai avuto un metodo mentale fisico e respiratorio di concentrazione per cui è come se mi sbattessero sempre sul palco all’improvviso senza sapere per un attimo cosa fare o cosa dire.
In questo siamo molto simili, anzi identici! Io canticchio ma più che altro è un “rito” quasi… Sogni mai di fare uno spettacolo per il quale non hai fatto mezza prova?
Sì lo sogno e l’ho pure fatto! E per giunta con Luca Ronconi: alle 10:00 sono tornata a Roma da Sarasota (Florida), alle 16:00 stavo al Piccolo a fare le prove. Ho passato la notte ad ascoltare la cassetta di Massimo Popolizio con tutte le battute mie e il giorno dopo ho sostituito Laura Marinoni in Beatrice ne “I due gemelli veneziani” di Carlo Goldoni. E veramente non sapevo cosa ci facevo su quel palco. Paura???
Sarei morto. Com’è andata?
Come “Cappuccetto rosso“. Il jet lag fece da anestesia stordente e allucinogena.
Concedimi una domanda stupida: quale vorresti fosse la direzione finale? Se, follemente, dovessi pensare al tuo futuro, dove e come troviamo la performer Anna Gualdo nel 2060? Che starà facendo?
Avrei 93 anni: la nuova Paola Borboni! Mi vedo più col giardinaggio in Costiera, oppure un’arcigna professoressa di dizione.
Quindi contempli l’idea di non recitare più? Di non dirigere? Di non stare neppure dietro le quinte?
Non recitare più mai. Dirigere mai. Per me il teatro è solo essere un’attrice e detesto gli incontri col pubblico e le interviste, esclusa questa. Esisto solo quando recito.
Che domande idiote, ma son curioso: quale vorresti fosse il tuo ultimo spettacolo? Quello dopo il quale non reciterai più.
Forse l’ho già fatto e non me l’hanno detto. Forse “Cappuccetto rosso” e tornare tra i banchi. Ma la verità è che non c’è un ultimo spettacolo né un ultimo personaggio perché dentro ci sono sempre stata io in quel momento con i miei problemi, i miei amori, i miei acciacchi e ogni futuro spero sia il penultimo.
Ci sei sempre tu, visceralmente tu. Ti ho vista due volte e ti ho “sentita” sempre e sempre tantissimo. Come fai a non farti male dando così tanto alla scena? Riesci sempre a tenere una piccolissima parte “presente” al fine di controllare tutto o si va sempre senza rete?
Doppia è la domanda e dicotomica la risposta: vado senza rete, emotiva e fisica e mi faccio spesso male, sia ai sentimenti che ai legamenti crociati; ma sono una Vergine e il controllo non lo perdo neanche sotto la tortura di un’improvvisazione riccifortesca sul sesso.
Questo “sbaraglio” serve più a te o più a noi che ti guardiamo? Perché arrivare a farsi male anche se “verginamente” controllata?
È dal 1985 che sogno di essere Sonja, seduta, e diretta da Lev Dodin ma non ho mai fatto Cechov. Lo sbaraglio è il naturale uso del corpo come parte integrante del mio essere attrice, dove il coinvolgimento riguarda tutta me stessa e credo sia imprescindibile nel rapporto platonico attore spettatore: farsi male è un incidente di percorso doloroso e trascurabile che fa parte del gioco.
Ci vai a teatro? E se in scena non vedi quel che dai tu come attrice come vivi l’esperienza da spettatrice?
A teatro ci vado spessissimo, sopratutto ora che lavoro poco… e per niente ora che purtroppo sono chiusi. Comunque la prendo malissimo, pur restando convinta che spesso ottimi attori salvino pessimi spettacoli.