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Le voci degli artisti: Andrea Andrillo (di Andrea Ibba Monni)

Come posso essere imparziale nel parlare di Andrea Andrillo? Non posso, non voglio. Lo amo e lo ama chiunque lo conosca e chi non lo conosce non ha idea di che sfortuna lo ha colpito. Artisticamente si può rimediare iscrivendosi al suo canale YouTube (CLICCA QUI) umanamente basta andare a una sua serata, perché come i più grandi, i grandissimi, lui è avvicinabilissimo. Un difetto ce l’ha ed è imperdonabile: si sottovaluta troppo.

ANDREA IBBA MONNI – Oltre che a livello umano io ti stimo tanto dal punto di vista professionale e come scriverò nell’intervista sei uno dei pochi intervistati con cui mi sento davvero a mio agio perché ti vivo molto vero, pulsante nel panorama musicale. Quindi le domande arrivano da un fan oltre che da un collega artista, sappilo. La prima domanda è una richiesta d’aiuto: siccome non voglio farti alcun santino cosa posso scrivere di Andrea Andrillo per chi non ti dovesse conoscere …ma anche per chi ti conosce solo musicalmente?

ANDREA ANDRILLO – Mi presento, tecnicamente sono un cantautore, ma soprattutto credo di essere un cantastorie.

Quali storie canti? Come le scegli o come “arrivano”?

Me lo sono chiesto diverse volte.. credo che in questa mia maturità a tratti tormentata avessi bisogno di cantare le persone “insufficienti”. Ho cantato l’amore di un padre sordo che non può cantare per sua figlia; ho cantato le persone ormai prive di una lingua che non riescono a comunicare in un mondo che affonda in Atlantide prima della pioggia. Ho cantato l’angoscia del migrante in Deserti di sale tutto questo in realtà è parte di un quadro più ampio, che col tempo si sta delineando. Forse sto solo cantando le storie dei nostri giorni, compresa la mia.

Qual è la tua storia? Immagino non abbia voglia di raccontarmela ma puoi dirmi almeno se è una storia a lieto fine? È una commedia? Una tragedia?

Il lieto fine, che io sappia, esiste solo se si impara a morire serenamente. La mia storia fin qui è stata una ricerca, però. A fasi alterne, con clamorose cadute, interruzioni nel percorso, problemi fisici che sembravano di volta in volta sempre più pesanti, addii e “ups, sono tornato” …
Nel frattempo ho capito che la mia ricerca come cantante – e come musicista in senso più ampio – era in realtà un bisogno di far chiarezza, di scoprire ciò che mancava.
E così “cercando la voce”, cercando il suono della mia voce, poco alla volta ho trovato me stesso. E mi sono accorto che non si è trattato di una ricerca tecnica, quanto di una ricerca spirituale. Ora, a ben 50 anni, debuttante a 49, con già due dischi da solista alle spalle in due anni, mi appresto a chiudere un cerchio .. e forse a iniziare un’altra fase del viaggio
… almeno credo. Il futuro non è scritto.. non del tutto: è un documentario. Tipo quelli con gli orsi in letargo, le anatre ferite dai cacciatori, il sole che sorge, la pioggia che tempesta la foresta e le formiche che balzano indaffarate da una parte all’altra per non affogare.

Debuttante a 49 anni?

Il mio primo disco è del 2018, otto luglio, il giorno del mio 49simo compleanno. Andrillo nasce fra il 2013 e il 2015 .. piano piano si definisce nel suo stile, mi salva la pelle, perché Andrillo è uno spiritello stronzetto che a volte fa cose belle; e a 49 anni debutta in grande stile. Roba mica da poco eh!

Andrillo” perché? Cosa vuol dire?

Solo un nomignolo che casualmente mi è stato affibbiato da un collega quando lavoravo nel nord Sardegna. Arrivato a Cagliari, convinto che non avrei mai più suonato o scritto canzoni, mi sono dedicato alla musica altrui. “Andrillo” nasce quindi come speaker per una radio web, Radio Level One, nel .. boh? 2011? Non me lo ricordo più. Mi serviva un nome che non fosse il mio nome vero, perché avevo appena iniziato un nuovo lavoro e non sapevo se fosse saggio mischiare la mia vita artistica e privata con la vita lavorativa. Mi è tornato in mente il nomignolo e l’ho usato. Faceva e fa ridere. Ma se lo ricordano tutti. Poi la cosa curiosa è stato ricevere messaggi da alcuni “Andrillo” (veri!) dal Brasile.. ma non sono mai riuscito a spiegare che non eravamo cugini lontani, perché non parlo portoghese e loro non capivano l’inglese. E così la tribù, almeno virtualmente, è diventata subito cosmopolita.

Avevi smesso di suonare?

È successo molte volte. Il mio non è stato un percorso lineare. Non sono mai stato un professionista. Le band di cui facevo parte, il rock elettrico, i due dischi delle mie vite precedenti a questa..i fallimenti, i successi, le pause …tutto è stato prezioso. I fallimenti sono stati i miei più grandi maestri. Ne avrei anche fatto a meno, ma ora che sono me, che non sto in una band e che sono totalmente responsabile di tutto ciò che faccio, mi accorgo che nel rapporto col pubblico, nel mio pormi di fronte alla musica con rispetto, tutto ciò che ho vissuto è stato davvero prezioso.

Poi ci sono anche state pause “fisiche”, dovuti a problemi vari che non stiamo ad elencare; e pause dovute al lavoro, trasferimenti.. tutto fino a che non ho deciso di fare da solo. La grande conquista: credere in sé stessi al punto di fare da soli. Anche questa è stata una grande conquista per me, per quanto possa sembrare banale dirlo così

Se e quando non suoni cosa fai ma soprattutto come stai?

Non benissimo, lo confesso. Il rapporto col pubblico è come una droga. Le persone che vengono ad abbracciarti, che ti parlano .. è tanta roba. Solo chi sa… sa.

Lavoro, bado ai figli, cerco di star sveglio e non addormentarmi in piedi, perché prima del Covid mi alzavo ogni giorno alle cinque per lavorare… Però poi la gioia di afferrare una intuizione, di mettere l’anima in subbuglio per scrivere un testo, o programmare un concerto.. in questi due anni che mi separano dal primo disco ho fatto decine e decine di concerti. Non vedo l’ora di tornare a farne altrettanti e molti di più.

Cosa fa sì che torni a comporre, a imbracciare la chitarra, a cantare dopo una pausa?

Un bisogno ..fisico. Forse le persone profondamente sole fanno questo, non lo so. Cercare di accarezzare il mondo, accarezzare le persone con ciò che hai dentro. Raccontargli storie, prestargli i tuoi occhi. Le mie non sono canzoni facili e io non sono un autore accomodante, piacione. Ma cerco di costruire attorno a me un mondo di relazioni, di persone che si incontrano. In questi anni ho visto persone speciali che vengono ai concerti, ti stanno vicine.. non è esattamente un pubblico, è una comunità, una bozza di comunità. E io ho bisogno di parlare a loro … e di ascoltare loro.

A proposito di ascolto come affronti il doppio ruolo di padre e artista nei confronti dei tuoi figli? Esiste l’esempio e l’educazione all’arte?

Certo, ma esiste anche l’eterna, atavica conflittualità padre – figli (soprattutto maschi), che fa sì che la musica di papà sia “noiosa”. Però poi quando vedono le persone che mi fanno i complimenti sono felici. Ma farli venire ai concerti.. una impresa! Dopo tutto per loro io non sono magia, io sono papà, quello che gli chiede dei fare i compiti e che gli frigge i sofficini a merenda.. non riescono a vedermi – e chissà se accadrà mai – come quello che è arrivato in città con la chitarra a cantare per noi .. Loro mi sentono cantare in casa, mi vedono con la chitarra che cerco di mettere su un pezzo nuovo.. per loro sono un semplice papà canterino. E va bene così, direi. È nell’ordine delle cose.

Come sei arrivato tu a capire che la musica era il tuo mezzo di comunicazione?

Ho iniziato molto presto, poi ho capito perché. Ho cercato di entrare in un gruppo metal a 15 anni, ma facevo talmente schifo.. poi a 17 ho messo su la mia band. E ho rovinato del tutto la voce. A 19 ho incontrato un Maestro, Bruno Lampis, un baritono che lavorava all’Ente Lirico di Cagliari, cui devo tutto, che mi ha insegnato la tecnica di base, che mi ha salvato la voce. E mi ha detto la famosa frase “cerca il suono”. E io ho cominciato a cercarlo, “come un bambino insegue un aquilone”, mi viene da dire .. E man mano che facevo enormi sacrifici per imparare a cantare mi chiedevo perché lo faccio? E ho capito che volevo parlare con le persone, sentirle vicino. Ma la svolta è arrivata quando non mi sono presentato davanti al pubblico per prendere, ma per dare qualcosa. È stato così che è nato Andrillo. E ho capito che la musica era e sarebbe sempre stata l’unica cosa che davvero alla fine ho fatto bene nella mia vita. Strano no? Anche un po’ romantico se vuoi, ma anche no.. chiaroscuri, come in tutte le vite.

A 15 anni cosa ti ha fatto dire “adesso faccio metal” invece che “adesso faccio danza” oppure “adesso faccio teatro” per esempio? La musica: perché?

Credo – ma lo dico per darmi un tono che “credo”, in realtà ne sono matematicamente certo, che fossi un ragazzino con un sacco di guai. Un ragazzino sostanzialmente solo, complicato, ferito. Credo stessi cercando solo di dire alle persone attorno “Hey, lo sapete che esisto?” E’ capitato che un ottimo gruppo già avviato, i Rod Sacred, con i quali mantengo rapporti di amicizia da allora (!) avessero bisogno di un cantante. Era il 1983 o 1984, Jurassic Drillo, capito ? E ho provato. Se dopo il primo provino mi avessero detto “no” e basta, avrei finito lì. Ma mi hanno detto “no, però torna che non siamo convinti del no”. Ed è cominciato tutto. Poi ho anche fatto teatro con Fueddu e Gestu, una compagnia talmente straordinaria che se stesse a New York sarebbero famosi in tutto il mondo. E però fare l’attore.. non riesco a fare l’attore. Mi spiego meglio: non riesco a interpretare il personaggio. Divento il personaggio. E praticamente non ho filtri, non ho difese. Mi può uccidere questa cosa e non ho intenzione neppure di provarci più.

“Se stesse a New York sarebbero famosi in tutto il mondo” e Andrillo invece?

Boh, avrebbe fatto lo stesso cammino frastagliato, ma come l’Andrillo che sta qui – che ha peraltro scelto di stare qui, dopo aver pure vissuto all’estero e persino un po’ a NY – come l’Andrillo che sta qui avrebbe finito con il ritenere più importante il cammino dell’anima al mero guadagno materiale o alla popolarità fine a se stessa.
In questi due anni ho visto il mio pubblico crescere esponenzialmente… ma non sono numeri. Sono persone, sono cammini che si incrociano. Non credo si possa parlare di “popolarità” in questi termini. Chi se ne frega di essere “popolare”. A me interessa questo calore, questo dialogo mai interrotto. E comunque se vuoi diventare famoso, vai, ti spogli alla stazione dei treni e fai l’elicottero per i passanti. Il tuo quarto d’ora di notorietà è assicurato!

Se ti dico che mi fa incazzare che tu non sia conosciuto come credo meriti cosa mi rispondi?

Che è un bel complimento, che ti fa male arrabbiarti per cose senza importanza e che il terzo disco sarà una figata assurda che ti lascerà di sasso e che va bene così.

Andrea Ibba Monni

Le voci degli artisti: Anna Gualdo (di Andrea Ibba Monni)

Anna Gualdo in una foto di Marcello Norberth, 2020

Il 2011 è un’altra vita: il ventottenne che ero inizia a sentire che c’è qualcosa di fasullo, di stantio, in ciò con cui ho a che fare sulla scena cagliaritana. Domenica 29 maggio 2011 al Teatro Civico di Castello a Cagliari va in scena “Macadamia Nut Brittle” di Ricci/Forte (questo) e resto stregato da tutto e da tutti ma sopratutto e soprattutti da Anna Gualdo, dal suo sguardo, dalla sua voce, dal suo corpo e da come usa tutto in tutti i modi possibili: su quel palco la sua anima sanguina e il suo corpo vive una vera e propria Passio Christi. Riconosco tutto e penso: questo è il teatro che mi interessa ora e ora posso concretizzarlo dal momento che non è solo una mia pulsione.

Sarà una delle prime volte in cui capirò che io e Ga’ stiamo mettendo Ferai Teatro sulla buona strada.

In quegli anni facebook è agli esordi e mentre la gente invia poke e si scambia pollame e ortaggi, io chiedo l’amicizia sfacciatamente a tutto il cast. Ogni tanto sento Gianni Forte e Anna Gualdo, cerco di non essere invadente, nascono scambi sporadici ma sempre abbastanza interessanti.

Sabato 11 marzo 2017 al Teatro Massimo di Cagliari va in scena “Still life” (questo) Anna è pressoché immobile sulla scena ma proprio per questo il suo sguardo e il suo corpo, il suo essere al tempo presente è ancora più potente. La sua interpretazione è da brividi: l’inaspettata staticità è stata controbilanciata impeccabilmente. Mi fiondo nei camerini in barba a qualunque principio di buona educazione, la vedo, li vedo tutti, tutti felici come bambini, madidi di sudore. Lei mi accoglie come una sorella maggiore accoglie il fratellino un po’ invadente ma mi abbraccia nonostante la lombalgia la inchiodi da giorni.

Lunedì 11 maggio le strappo questa intervista in chat messenger: non so perché me la concede, ma non so neppure perché mi ha accettato tra gli amici di facebook nove anni fa né perché mi ha accolto fraternamente nei camerini nel 2017. So solo che ho il privilegio di avere a che fare con un’attrice vera, brava, preparata.

Prima di lasciarvi all’intervista vi svelo un segreto: dal 2011 ogni volta che ho a che fare con un’attrice, che sia un’allieva o una collega io la misuro su Anna Gualdo.anna gualdo | venere in forse

ANDREA IBBA MONNI: Non è un’accusa ma una premessa: online si trova poco di te, della tua vita e della tua formazione. Ma tu chi sei? Chi è la professionista Anna Gualdo? Cosa scrivo?

ANNA GUALDO: Io sono un’attrice – oggi controvoglia detta “performer” – molto poco social e molto poco autoreferenziale. Faccio molta fatica a raccontare cosa faccio e cosa sono fuori dal mio lavoro poiché spero di mettere me stessa in quello e spero non sia poco.

Qual è stato il tuo punto di partenza, l’anno zero? Insomma: quando e come hai deciso di fare teatro per la prima volta?

La prima apparizione pubblica risale al maggio del 1972, in “Cappuccetto rosso” alla 24 Maggio di Trastevere. Poi dobbiamo arrivare al 1984 quando comunicai a due professori universitari di Paleografia e Latino Medievale la mia intenzione di iscrivermi all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Tralascio le loro reazioni.

Hai ricordi di mercoledì 24 maggio 1972?

Come fosse oggi. Alla recita scolastica venne solo mia nonna, i miei già troppo impegnati iniziarono il lento e frustrante logorio educativo. Recitavo e cantavo nel mio mantello rosso, come trent’anni dopo in “Grimmless” (questo) Fu un successo enorme anche perché recitai le battute di un lupo piagnone e smemorato di sei anni: avevo sei anni ma anche “Grimmless” nacque come ricordo di quella bambina oggi senza favole. Mi sentivo contenta, eccitata, piccola e capace di stregare gli spettatori.

È cambiato qualcosa o sei sempre quella attrice eccitata e capace di stregare gli spettatori? Va be’, potrei chiederti semplicemente se senti sempre l’eccitazione perché gli spettatori li streghi, te lo garantisco io.

Il mio attuale fidanzato dice che dopo gli spettacoli sono sempre l’unica a ridere ai ringraziamenti forse perché sono ancora eccitata dalla capacità di coinvolgere e coinvolgermi. Non è cambiato niente, stesse sensazioni, paura… e qualche ruga.

Parliamo un po’ di questa “paura”?

Paura ed eccitazione vanno di pari passo: la paura è adrenalina e sensazione di essere impreparati ma anche la paura di rimettersi in gioco davanti al pubblico. Non ho mai avuto un metodo mentale fisico e respiratorio di concentrazione per cui è come se mi sbattessero sempre sul palco all’improvviso senza sapere per un attimo cosa fare o cosa dire.

In questo siamo molto simili, anzi identici! Io canticchio ma più che altro è un “rito” quasi… Sogni mai di fare uno spettacolo per il quale non hai fatto mezza prova?

Sì lo sogno e l’ho pure fatto! E per giunta con Luca Ronconi: alle 10:00 sono tornata a Roma da Sarasota (Florida), alle 16:00 stavo al Piccolo a fare le prove.  Ho passato la notte ad ascoltare la cassetta di Massimo Popolizio con tutte le battute mie e il giorno dopo ho sostituito Laura Marinoni in Beatrice ne “I due gemelli veneziani” di Carlo Goldoni.  E veramente non sapevo cosa ci facevo su quel palco. Paura???

Sarei morto. Com’è andata?

Come “Cappuccetto rosso“. Il jet lag fece da anestesia stordente e allucinogena.

Concedimi una domanda stupida: quale vorresti fosse la direzione finale? Se, follemente, dovessi pensare al tuo futuro, dove e come troviamo la performer Anna Gualdo nel 2060? Che starà facendo?

Avrei 93 anni: la nuova Paola Borboni! Mi vedo più col giardinaggio in Costiera, oppure un’arcigna professoressa di dizione.

Quindi contempli l’idea di non recitare più? Di non dirigere? Di non stare neppure dietro le quinte?

Non recitare più mai. Dirigere mai. Per me il teatro è solo essere un’attrice e detesto gli incontri col pubblico e le interviste, esclusa questa. Esisto solo quando recito.

Che domande idiote, ma son curioso: quale vorresti fosse il tuo ultimo spettacolo? Quello dopo il quale non reciterai più.

Forse l’ho già fatto e non me l’hanno detto. Forse “Cappuccetto rosso” e tornare tra i banchi. Ma la verità è che non c’è un ultimo spettacolo né un ultimo personaggio perché dentro ci sono sempre stata io in quel momento con i miei problemi, i miei amori, i miei acciacchi e ogni futuro spero sia il penultimo.

Ci sei sempre tu, visceralmente tu. Ti ho vista due volte e ti ho “sentita” sempre e sempre tantissimo. Come fai a non farti male dando così tanto alla scena? Riesci sempre a tenere una piccolissima parte “presente” al fine di controllare tutto o si va sempre senza rete?

Doppia è la domanda e dicotomica la risposta: vado senza rete, emotiva e fisica e mi faccio spesso male, sia ai sentimenti che ai legamenti crociati; ma sono una Vergine e il controllo non lo perdo neanche sotto la tortura di un’improvvisazione riccifortesca sul sesso.

Questo “sbaraglio” serve più a te o più a noi che ti guardiamo? Perché arrivare a farsi male anche se “verginamente” controllata?

È dal 1985 che sogno di essere Sonja, seduta, e diretta da Lev Dodin ma non ho mai fatto Cechov. Lo sbaraglio è il naturale uso del corpo come parte integrante del mio essere attrice, dove il coinvolgimento riguarda tutta me stessa e credo sia imprescindibile nel rapporto platonico attore spettatore: farsi male è un incidente di percorso doloroso e trascurabile che fa parte del gioco.

Ci vai a teatro? E se in scena non vedi quel che dai tu come attrice come vivi l’esperienza da spettatrice?

A teatro ci vado spessissimo, sopratutto ora che lavoro poco… e per niente ora che purtroppo sono chiusi. Comunque la prendo malissimo, pur restando convinta che spesso ottimi attori salvino pessimi spettacoli.

Le voci degli allievi: Monica Murtas

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Eccoci qui, Monica! Grazie mille per aver accettato di fare una chiacchierata con me! Iniziamo con una piccola premessa, Monica, raccontaci chi sei, fatti conoscere dai nostri lettori.

Mi chiamo Monica Murtas ho quasi 50 anni sono una impiegata/ digital working/segnalatrice assicurativa/teatrante, logorroica, passionale, estroversa,  moglie e madre di 2 figli.

Una vita senza impegni, quindi! Toglici una curiosità, Monica, come e quando ti è “venuta voglia di teatro?”

Ride. La voglia c’è sempre stata, ma il primo approccio l’ho avuto 4 o 5 anni fa, tramite l’associazione onlus Codice Segreto. Mi proposero un laboratorio teatrale integrato, accettai e conobbi Ferai, fu immediatamente amore.

Oltre al laboratorio di teatro integrato con Codice Segreto, quali altre classi di recitazione hai, poi, frequentato?

Dopo circa 2 anni ho frequentato un laboratorio estivo di 6 settimane, portammo in scena una commedia in lingua sarda: “Gommai Mia” quante risate e quanta paura. Poi le classi Kammerspiele e La Fenice.

Facciamo un giochino: sono una persona molto introversa e non mi sento assolutamente portata per il teatro, convincimi a frequentare una di queste classi!

Vieni, anche solo per assistere. Non andrai più via, son certa. Scoprirai cose di te che non conoscevi.

E se dovessi darmi un buon motivo per scegliere Ferai?

Indubbiamente primo per i maestri Andrea e Ga’ due giovani menti che scrivono, progettano, creano per loro e per altri (classi, staff, attori) testi e spettacoli differenti, tra i quali puoi scegliere, e ti accompagnano nella ricerca, nel percorso, stimolando la tua visione del personaggio. Inoltre c’è rigore, professionalità, onestà intellettuale,ed un ambiente familiare.

Va bene mi hai convinta!

Ride. Con te è troppo facile!

Monica, ti andrebbe di parlarci del personaggio più difficile che hai dovuto affrontare? Di che spettacolo si trattava, come hai superato le difficoltà, e così via?

Oddio. Aspetta che mi do un’aria: ne ho fatto molti, devo pensare!

Rido. Prenditi il tempo che ti serve ci mancherebbe!

Personaggio più difficile che ho affrontato… Dalia una regina di un popolo dell’ Ade, maga, cattiva. Ho faticato fisicamente, ho superato le partiture con allenamento e concentrazione, e non sono caduta dal cubo su cui stavo in equilibrio durante lo spettacolo! Per non parlare del salto e delle corse nel palco. Molto lavoro e fatica, tutto ripagato dal cuore che palpitava insieme alla musica e alla mia anima

Lo spettacolo era “I racconti della Grande Roccia”, giusto?

Sì, brava, c’eri anche tu.

Monica, grazie mille per questa chiacchierata! Ho solo un’ultima domanda, e credo che ce lo siamo chiesti tutti fin dall’inizio: “impiegata/ digital working/segnalatrice assicurativa/teatrante, logorroica, passionale, estroversa,  moglie e madre di 2 figli”, ma dove trovi il tempo e le energie per fare tutto?

Non lo so, “ma  mi piace”! Son sempre stata iperattiva. Possiamo anche dire che esagero! Sono anche la Signora Sorvegliante! Grazie a te per la chiacchierata.

Di nuovo grazie Monica, fantastica come sempre!

Ilenia Cugis

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Le voci di Ferai: Andrea Oro

Ciao Andrea, come è iniziata la tua passione per il teatro?

Quando ero poco più che un bambino alla RAI passavano le commedie di Eduardo De Filippo e le ho guardate tutte, da lì è iniziata la mia voglia di fare teatro. Poi nel 2005 ho provato a fare un corso di teatro con una compagnia di Cagliari. Mi ricordo che il primo giorno ci siamo riuniti tutti in platea e ad uno ad uno siamo saliti sul palco. Avevo sottolineato che non mi piaceva danzare e cosa mi hanno chiesto?

… di danzare, ovviamente!

Esatto, quindi me ne sono andato. Da lì non ne ho più voluto sentito parlare per 11 anni.

Però alla fine hai ricominciato…

Stavo in Australia nel 2014 e facevo il bracciante. Una notte ho sognato mio nonno che mi ha detto di tornare in Italia a fare quello che dovevo fare, ovvero il teatro e l’arte… Altrimenti non sarei mai tornato. Quindi mi sono iscritto ad Akroama e in quel periodo ho sentito parlare di Ferai tramite facebook da Andrea Ibba Monni, leggevo i suoi stati perché ero interessato alla scena e niente, lui diceva sempre che ‘chi non ha mai visto uno spettacolo di Ferai non può giudicare Ferai’ e mi sono incuriosito. In uno spettacolo (“Voci in una luce accecante” n.d.r.) c’era una bara vera in scena e sono rimasto folgorato, mi sono detto ‘ora voglio capire come funziona la compagnia’. Ho scritto ad Andrea e ho iniziato il mio primo laboratorio con la classe Odeon. Non me ne sono pentito.

Cos’è il teatro per te?

Diciamo che fa parte di una sorta di percorso spirituale tutto mio. Una vita fa ero quasi credente e feci un patto con colui che ritenevo essere “Dio”: gli chiesi di “regalarmi” una carriera artistica, non volevo altro. Da allora lavoro e faccio cose che cercano di portarmi in quella direzione, spesso sbagliando, inciampando ma comunque pare importi più il viaggio della destinazione, e fin’ora il viaggio è stato divertente e stimolante.

Progetti per il futuro e per coronare il tuo patto con Dio?

Continuare a fare quello che faccio, mettermi al passo con teatro e musica, creare e interpretare spettacoli nuovi che abbiano qualcosa da raccontare. Se non ho qualcosa da raccontare sto zitto. Comunicare tramite il teatro, che è la forma d’arte più completa, ha a che fare con tutte le forme d’arte.

Ecco, e riguardo le altre forme di espressione artistiche?

Beh riguardo l’arte contemporanea il panorama è molto ampio. Mi piace molto l’iperrealismo nella pittura, mi hanno insegnato che la tecnica è uno strumento importantissimo per esprimere ciò che si vuole. Mi piace molto Saturno Buttò, Lucien Freud, Francis Bacon, mi piace chi ha qualcosa da dire, non mi piace il pane carasau appeso, detesto chi imita senza innovare e chi pensa che l’Arte debba essere “carina”. Se è carina somiglia ad un centrino della nonna, è bello da vedere, sta bene in salotto ma non aggiunge molto alla discussione pubblica, e, fra le altre cose, penso che l’Arte in generale debba creare dibattito, suscitare domande e stimolare punti di vista differenti rispetto alla “media”.

Il tuo personaggio preferito tra quelli che hai interpretato?

Non ce l’ho un personaggio preferito… oh si ce l’ho, l’Omino di burro dello spettacolo “Dorra”. Un morto, un viaggiatore, sta facendo un viaggio nell’aldilà e si trova a fare i conti con i suoi peccati più gravi e si redime in un certo modo. Un viaggio dantesco, o perlomeno, questa è la mia idea dello spettacolo.

Roberta Mossa

 

Le voci degli artisti: Alberto Rizzi (di Andrea Ibba Monni)

Ogni giorno che ho passato in teatro mi sono sentito fortunato.”

Secondo l’autobiografia sbarazzina (che si può leggere qui) Alberto Rizzi fonda a 18 anni la casa di produzioni teatrali e cinematografiche Ippogrifo Produzioni dopo aver completato gli studi classici, poi se ne va a Milano a diplomarsi in regia cinematografica, poi a Roma a lavorare nel cinema ma torna a Verona per fare teatro. Si definisce attore per contingenza, regista per vocazione e scrittore per passione.

Mi son messo a studiare Alberto Rizzi dopo aver ospitato nel 2017 la sua compagnia in occasione della replica cagliaritana di “Sic transit gloria mundi” (qui il trailer) ma lui non l’ho mai incontrato né abbiamo mai parlato. Beh ho scoperto che siamo molto simili: pensiamo che Milano sia abbastanza brutta, riteniamo che le donne siano fondamentali nel nostro lavoro, crediamo nell’artigianato del nostro mestiere, viviamo l’arte ogni giorno tutto il giorno.

Le differenze? Io ho fatto il Nautico e non il Liceo (anche se so più di Sofocle che di effemeridi); a me piace da morire parlare mentre lui dice di essere abbastanza schivo. Inoltre lui è simpaticissimo.

Ecco la nostra conversazione:

ANDREA IBBA MONNI – Chiedo ovviamente all’artista Rizzi, non al giovane uomo (non mi permetterei mai di fare una domanda personale dal momento che in passato hai dichiarato “Se potessi vivere nascosto lo farei”): ora che siamo tutti fermi tu che fai? Come passi le tue giornate?

ALBERTO RIZZI – Continuo con la parte del mio lavoro che posso fare da casa, del resto in quanto regista e autore buona parte del mio lavoro si svolge anche alla scrivania. Comunque non sono rimasto fermo perché durante la quarantena ho creato e realizzato la smart serie “Memorie dalla quarantena” (trovate i fantastici video sulla loro pagina Facebook n.d.r.) per cui sono impegnato su questo e sulla progettazione anche se cerco di evitare la bulimia da lavoro: un po’ di pausa ci vuole, d’altronde questo periodo non è congeniale per scrivere in realtà.

Neppure un momento di smarrimento? Un sentirsi un po’ disorientato? 

Assolutamente sì. Anzi direi che la creatività è un processo che, almeno per quanto mi riguarda, ha bisogno di stimoli, di vita, di aria. Questo periodo così nebuloso è per me nemico della produttività. Sono anche disorientato. come molti del nostro settore perché il futuro è del tutto ignoto e incerto. 

Che ne pensi del polverone nato dalle dichiarazioni di Lucia Calamaro (queste)?

Non so di che parli.

Beato te! In sostanza la nostra pluripremiata e blasonatissima collega ha lanciato un anatema contro chi potrebbe (o vorrebbe) tradurre la pandemia in espressione teatrale.

Sinceramente spero che non ci sia un eccesso di spettacoli, di film e di romanzi che parlino della pandemia.

Che cos’è “un eccesso”, scusa?

Ho solo il timore che quando torneremo in teatro ci troveremo con 200 monologhi sul covid, 82 documentari sulla quarantena… una bulimia narrativa. Come dopo l’11 settembre quando la quantità di prodotto artistico su quell’argomento fu eccessiva. Spero invece che si riesca a parlare di altro, penso che ne avremmo bisogno in primis in quanto spettatori.

Ma se io ho voglia/bisogno di scriverlo e tu pure, come si fa? Siamo già in due. E se poi ne han voglia/bisogno pure tutti gli altri?

Bella domanda… non lo so. In questo caso parlo più da spettatore che da autore.

Una domanda pesante, banale ma che voglio proprio farti è: dove/come nascono i tuoi progetti artistici?

Domanda impegnativa. Ogni progetto nasce in modo diverso. A volte i progetti nascono come una scintilla nella testa, spesso anche solo un’immagine e o un tema di cui voglio parlare. Poi se ne stanno in cassetto a volte anche per anni, in attesa che il momento diventi propizio per sbucare fuori. Poi di solito è sempre qualcosa di esterno che li mette in moto: una necessità produttiva o distributiva o perché è il momento giusto per fare quello spettacolo.

Ti interroghi mai sul perché fai teatro?

A dire il vero raramente me lo domando. Lo vivo come un mestiere ed è l’unico che so fare. E poi non potrei rinunciare al divertimento nei camerini!

Hai dichiarato “io sono un regista, non faccio il regista” e anche in questo la pensiamo allo stesso modo. Ma  adesso ti faccio una domanda che odio mi si rivolga, ma chi se ne frega, facciamo un gioco, ragioniamo per assurdo: se non facessi arte cosa vorresti fare e cosa invece forse ti ritroveresti a fare?

Probabilmente se non facessi questo lavoro, teatro o cinema che sia, credo che studierei. Studiare mi piace un sacco. Non so se ti pagano per studiare ma tanto neanche con il mio mestiere si diventa ricchi. Insomma ho la vocazione alla precarietà. Forse dovrei puntare a fare in dentista… è che guardare tutto il giorno nelle bocche delle persone mi spaventerebbe.

Quindi precario fino alla morte ma con lo stomaco forte! Ogni volta che hai potuto hai sempre speso grandi paroloni per le altre due anime di Ippogrifo Produzioni: l’attrice Chiara Mascalzoni e l’organizzatrice Barbara Baldo. Elogi che per altro non posso che condividere avendoci lavorato seppur per poco nel 2018. Ciò che ti chiedo è: ma quindi la musa è femmina?

Barbara e Chiara sono le altre due anime di Ippogrifo, non le considero le mie muse: sono piuttosto le mie collaboratrici, le mie compagne di viaggio. Chiara è un’attrice di incredibile talento e generosità, lavoriamo insieme da 10 anni e non avrei potuto realizzare certi spettacoli se non con lei. Barbara è una straordinaria organizzatrice con qualità comunicative e umane sopra la media. Sono molto fortunato ad averle incontrate: ogni giorno mi ispirano a lavorare meglio. Forse è quello che fanno le muse. Allora sì sono le muse. E sono anche donne. Io mi sempre trovato meglio a lavorare con le donne, perché completano la mia visione che inevitabilmente è maschile. Siamo una famiglia: siamo come le famiglie di Paperopoli piene di fratelli, di cugini e di zii ma neanche una mamma e un papà… siamo Qui Quo e Qua. 

E come si tengono separate le dinamiche private da quelle lavorative?

Semplice: non le separiamo. Facciamo gli spettacoli come si fa una crostata in cucina andiamo in tournée come si fa in gita, ci vogliamo bene e lavoriamo insieme. Nel lavoro ci ritroviamo e ci rispecchiamo, negli spettacoli c’è sempre un po’ di noi. Ippogrifo è una casa e anche tutti quelli che lavorano con noi, attori e tecnici, li trattiamo come se fossero parte della famiglia.

Quanto è stato vero, pure per me e tutta Ferai nel 2017! Ultima domanda: che mi dici dell’ambiente artistico veronese? 

Eheheh!

Ma non è una risposta!

Non farmi sbilanciare…

Ma io voglio che ti sbilanci!

Eheheeh!

Ma non è una risposta! Senti, se non vuoi essere shady bitchy dimmi le cose buone e non quelle meno buone, ok? 

Verona è una città bellissima.

Non ci siamo lasciati così: l’ho fatto sbottonare su un gossip che ho giurato di non rivelare ma intendo ricattarlo: Rizzi, se Ippogrifo non torna a Cagliari vendo lo scoop! 

Andrea Ibba Monni

Ippogrifo Produzioni presenta: Memorie dalla quarantena - VERONA ...

Da sinistra: Barbara Baldo, Chiara Mascalzoni e Alberto Rizzi

Fonti: Ippogrifo Produzioni; Paperblog