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Le voci degli artisti: Andrea Andrillo (di Andrea Ibba Monni)

Come posso essere imparziale nel parlare di Andrea Andrillo? Non posso, non voglio. Lo amo e lo ama chiunque lo conosca e chi non lo conosce non ha idea di che sfortuna lo ha colpito. Artisticamente si può rimediare iscrivendosi al suo canale YouTube (CLICCA QUI) umanamente basta andare a una sua serata, perché come i più grandi, i grandissimi, lui è avvicinabilissimo. Un difetto ce l’ha ed è imperdonabile: si sottovaluta troppo.

ANDREA IBBA MONNI – Oltre che a livello umano io ti stimo tanto dal punto di vista professionale e come scriverò nell’intervista sei uno dei pochi intervistati con cui mi sento davvero a mio agio perché ti vivo molto vero, pulsante nel panorama musicale. Quindi le domande arrivano da un fan oltre che da un collega artista, sappilo. La prima domanda è una richiesta d’aiuto: siccome non voglio farti alcun santino cosa posso scrivere di Andrea Andrillo per chi non ti dovesse conoscere …ma anche per chi ti conosce solo musicalmente?

ANDREA ANDRILLO – Mi presento, tecnicamente sono un cantautore, ma soprattutto credo di essere un cantastorie.

Quali storie canti? Come le scegli o come “arrivano”?

Me lo sono chiesto diverse volte.. credo che in questa mia maturità a tratti tormentata avessi bisogno di cantare le persone “insufficienti”. Ho cantato l’amore di un padre sordo che non può cantare per sua figlia; ho cantato le persone ormai prive di una lingua che non riescono a comunicare in un mondo che affonda in Atlantide prima della pioggia. Ho cantato l’angoscia del migrante in Deserti di sale tutto questo in realtà è parte di un quadro più ampio, che col tempo si sta delineando. Forse sto solo cantando le storie dei nostri giorni, compresa la mia.

Qual è la tua storia? Immagino non abbia voglia di raccontarmela ma puoi dirmi almeno se è una storia a lieto fine? È una commedia? Una tragedia?

Il lieto fine, che io sappia, esiste solo se si impara a morire serenamente. La mia storia fin qui è stata una ricerca, però. A fasi alterne, con clamorose cadute, interruzioni nel percorso, problemi fisici che sembravano di volta in volta sempre più pesanti, addii e “ups, sono tornato” …
Nel frattempo ho capito che la mia ricerca come cantante – e come musicista in senso più ampio – era in realtà un bisogno di far chiarezza, di scoprire ciò che mancava.
E così “cercando la voce”, cercando il suono della mia voce, poco alla volta ho trovato me stesso. E mi sono accorto che non si è trattato di una ricerca tecnica, quanto di una ricerca spirituale. Ora, a ben 50 anni, debuttante a 49, con già due dischi da solista alle spalle in due anni, mi appresto a chiudere un cerchio .. e forse a iniziare un’altra fase del viaggio
… almeno credo. Il futuro non è scritto.. non del tutto: è un documentario. Tipo quelli con gli orsi in letargo, le anatre ferite dai cacciatori, il sole che sorge, la pioggia che tempesta la foresta e le formiche che balzano indaffarate da una parte all’altra per non affogare.

Debuttante a 49 anni?

Il mio primo disco è del 2018, otto luglio, il giorno del mio 49simo compleanno. Andrillo nasce fra il 2013 e il 2015 .. piano piano si definisce nel suo stile, mi salva la pelle, perché Andrillo è uno spiritello stronzetto che a volte fa cose belle; e a 49 anni debutta in grande stile. Roba mica da poco eh!

Andrillo” perché? Cosa vuol dire?

Solo un nomignolo che casualmente mi è stato affibbiato da un collega quando lavoravo nel nord Sardegna. Arrivato a Cagliari, convinto che non avrei mai più suonato o scritto canzoni, mi sono dedicato alla musica altrui. “Andrillo” nasce quindi come speaker per una radio web, Radio Level One, nel .. boh? 2011? Non me lo ricordo più. Mi serviva un nome che non fosse il mio nome vero, perché avevo appena iniziato un nuovo lavoro e non sapevo se fosse saggio mischiare la mia vita artistica e privata con la vita lavorativa. Mi è tornato in mente il nomignolo e l’ho usato. Faceva e fa ridere. Ma se lo ricordano tutti. Poi la cosa curiosa è stato ricevere messaggi da alcuni “Andrillo” (veri!) dal Brasile.. ma non sono mai riuscito a spiegare che non eravamo cugini lontani, perché non parlo portoghese e loro non capivano l’inglese. E così la tribù, almeno virtualmente, è diventata subito cosmopolita.

Avevi smesso di suonare?

È successo molte volte. Il mio non è stato un percorso lineare. Non sono mai stato un professionista. Le band di cui facevo parte, il rock elettrico, i due dischi delle mie vite precedenti a questa..i fallimenti, i successi, le pause …tutto è stato prezioso. I fallimenti sono stati i miei più grandi maestri. Ne avrei anche fatto a meno, ma ora che sono me, che non sto in una band e che sono totalmente responsabile di tutto ciò che faccio, mi accorgo che nel rapporto col pubblico, nel mio pormi di fronte alla musica con rispetto, tutto ciò che ho vissuto è stato davvero prezioso.

Poi ci sono anche state pause “fisiche”, dovuti a problemi vari che non stiamo ad elencare; e pause dovute al lavoro, trasferimenti.. tutto fino a che non ho deciso di fare da solo. La grande conquista: credere in sé stessi al punto di fare da soli. Anche questa è stata una grande conquista per me, per quanto possa sembrare banale dirlo così

Se e quando non suoni cosa fai ma soprattutto come stai?

Non benissimo, lo confesso. Il rapporto col pubblico è come una droga. Le persone che vengono ad abbracciarti, che ti parlano .. è tanta roba. Solo chi sa… sa.

Lavoro, bado ai figli, cerco di star sveglio e non addormentarmi in piedi, perché prima del Covid mi alzavo ogni giorno alle cinque per lavorare… Però poi la gioia di afferrare una intuizione, di mettere l’anima in subbuglio per scrivere un testo, o programmare un concerto.. in questi due anni che mi separano dal primo disco ho fatto decine e decine di concerti. Non vedo l’ora di tornare a farne altrettanti e molti di più.

Cosa fa sì che torni a comporre, a imbracciare la chitarra, a cantare dopo una pausa?

Un bisogno ..fisico. Forse le persone profondamente sole fanno questo, non lo so. Cercare di accarezzare il mondo, accarezzare le persone con ciò che hai dentro. Raccontargli storie, prestargli i tuoi occhi. Le mie non sono canzoni facili e io non sono un autore accomodante, piacione. Ma cerco di costruire attorno a me un mondo di relazioni, di persone che si incontrano. In questi anni ho visto persone speciali che vengono ai concerti, ti stanno vicine.. non è esattamente un pubblico, è una comunità, una bozza di comunità. E io ho bisogno di parlare a loro … e di ascoltare loro.

A proposito di ascolto come affronti il doppio ruolo di padre e artista nei confronti dei tuoi figli? Esiste l’esempio e l’educazione all’arte?

Certo, ma esiste anche l’eterna, atavica conflittualità padre – figli (soprattutto maschi), che fa sì che la musica di papà sia “noiosa”. Però poi quando vedono le persone che mi fanno i complimenti sono felici. Ma farli venire ai concerti.. una impresa! Dopo tutto per loro io non sono magia, io sono papà, quello che gli chiede dei fare i compiti e che gli frigge i sofficini a merenda.. non riescono a vedermi – e chissà se accadrà mai – come quello che è arrivato in città con la chitarra a cantare per noi .. Loro mi sentono cantare in casa, mi vedono con la chitarra che cerco di mettere su un pezzo nuovo.. per loro sono un semplice papà canterino. E va bene così, direi. È nell’ordine delle cose.

Come sei arrivato tu a capire che la musica era il tuo mezzo di comunicazione?

Ho iniziato molto presto, poi ho capito perché. Ho cercato di entrare in un gruppo metal a 15 anni, ma facevo talmente schifo.. poi a 17 ho messo su la mia band. E ho rovinato del tutto la voce. A 19 ho incontrato un Maestro, Bruno Lampis, un baritono che lavorava all’Ente Lirico di Cagliari, cui devo tutto, che mi ha insegnato la tecnica di base, che mi ha salvato la voce. E mi ha detto la famosa frase “cerca il suono”. E io ho cominciato a cercarlo, “come un bambino insegue un aquilone”, mi viene da dire .. E man mano che facevo enormi sacrifici per imparare a cantare mi chiedevo perché lo faccio? E ho capito che volevo parlare con le persone, sentirle vicino. Ma la svolta è arrivata quando non mi sono presentato davanti al pubblico per prendere, ma per dare qualcosa. È stato così che è nato Andrillo. E ho capito che la musica era e sarebbe sempre stata l’unica cosa che davvero alla fine ho fatto bene nella mia vita. Strano no? Anche un po’ romantico se vuoi, ma anche no.. chiaroscuri, come in tutte le vite.

A 15 anni cosa ti ha fatto dire “adesso faccio metal” invece che “adesso faccio danza” oppure “adesso faccio teatro” per esempio? La musica: perché?

Credo – ma lo dico per darmi un tono che “credo”, in realtà ne sono matematicamente certo, che fossi un ragazzino con un sacco di guai. Un ragazzino sostanzialmente solo, complicato, ferito. Credo stessi cercando solo di dire alle persone attorno “Hey, lo sapete che esisto?” E’ capitato che un ottimo gruppo già avviato, i Rod Sacred, con i quali mantengo rapporti di amicizia da allora (!) avessero bisogno di un cantante. Era il 1983 o 1984, Jurassic Drillo, capito ? E ho provato. Se dopo il primo provino mi avessero detto “no” e basta, avrei finito lì. Ma mi hanno detto “no, però torna che non siamo convinti del no”. Ed è cominciato tutto. Poi ho anche fatto teatro con Fueddu e Gestu, una compagnia talmente straordinaria che se stesse a New York sarebbero famosi in tutto il mondo. E però fare l’attore.. non riesco a fare l’attore. Mi spiego meglio: non riesco a interpretare il personaggio. Divento il personaggio. E praticamente non ho filtri, non ho difese. Mi può uccidere questa cosa e non ho intenzione neppure di provarci più.

“Se stesse a New York sarebbero famosi in tutto il mondo” e Andrillo invece?

Boh, avrebbe fatto lo stesso cammino frastagliato, ma come l’Andrillo che sta qui – che ha peraltro scelto di stare qui, dopo aver pure vissuto all’estero e persino un po’ a NY – come l’Andrillo che sta qui avrebbe finito con il ritenere più importante il cammino dell’anima al mero guadagno materiale o alla popolarità fine a se stessa.
In questi due anni ho visto il mio pubblico crescere esponenzialmente… ma non sono numeri. Sono persone, sono cammini che si incrociano. Non credo si possa parlare di “popolarità” in questi termini. Chi se ne frega di essere “popolare”. A me interessa questo calore, questo dialogo mai interrotto. E comunque se vuoi diventare famoso, vai, ti spogli alla stazione dei treni e fai l’elicottero per i passanti. Il tuo quarto d’ora di notorietà è assicurato!

Se ti dico che mi fa incazzare che tu non sia conosciuto come credo meriti cosa mi rispondi?

Che è un bel complimento, che ti fa male arrabbiarti per cose senza importanza e che il terzo disco sarà una figata assurda che ti lascerà di sasso e che va bene così.

Andrea Ibba Monni

Le voci degli artisti: Roberta Locci (di Ga’)

Roberta Locci è attrice, insegnante di recitazione, drammaturga, regista e aiuto-regista, ha una carriera dedicata alla formazione, alla ricerca – come dice lei stessa – non finalizzate a un punto di vista assoluto ma sempre in ascolto di un limite, uno sguardo diretto alle possibilità della ricerca. Nel curriculum di Roberta troviamo nomi celebri, da Claudia Castellucci, Else Marie Laukvik dell’Odin Teatret, Sainkho Namchylak, fino a Zigmunt Molik e questo solo per citare in modo riduttivo alcuni dei tanti, solo per farci l’idea di un’artista che in quanto tale non ha mai rinunciato alla formazione e al confronto continuo con realtà esterne e il cui lavoro ultimamente è direzionato particolarmente alla formazione dei più giovani (anagraficamente parlando) vediamo in che modo, nella nostra intervista.

GA’: Bene, come sai l’intervista verrà pubblicata su OFF il magazine online di Ferai Teatro e come sai ti ho promesso un’intervista assolutamente non-pretestuosa, ma partiamo da una domanda abbastanza pretestuosa per scongiurare il tutto, e la domanda è: Chi è Roberta Locci? Dovessi rispondere io per quel che so, ci sarebbero molte risposte diverse, tanti ambiti, la tua risposta invece… è ?

ROBERTA LOCCI: La risposta è credo semplice: sono quello che vedi tu, quello che vedono gli altri o ciò che non sempre si vede ma che in un modo o nell’altro si manifesta.

Ciò che non si vede, ma in qualche modo si manifesta, potrebbe sembrare un tema artistico che ti è caro più di altri? O sbaglio? Personalmente per esempio mi affascina il lato immateriale delle arti, musica, pittura astratta, arte concettuale in genere, è così anche per te? O … meno?

Sì direi di sì anche se non è assoluto, a volte trovo fascino e bellezza dove non avrei mai detto di poter trovare

Assolutamente, Zappareddu ad esempio (e tanti altri) affermava che “se ti prende, se ti è emoziona” è sempre “primo teatro” che sia uno spettacolo performativo e tecnologico o che sia il più tradizionale Amleto russo. Andando su cose attuali, come stai passando questo periodo, mi fai una sintesi alla russa di come hai passato/passi da artista questa quarantena?

Mi sono FERMATA. Sono sospesa, non so come spiegarti il mio stato, è come se avessi bisogno di stare immobile a guardare. Leggo, guardo film, imparo a cucire, e faccio la badante provvisoria.

Saper cucire è utile in mille occasioni. La badante provvisoria? Dimmi dimmi

La badante è proprio un’esperienza, ho uno zio prete e una zia zitella che vivono insieme e sono entrambi molto vecchi. In questo periodo sono stati “abbandonati” dalla signora che si occupava di loro. Ora ci vado io un giorno sì e uno no. Occuparsi di due corpi fragili e inermi è toccante. Gioco a palletta con lo zio e faccio dipingere la zia. Un mondo sospeso anche il loro.

Un’esperienza, decisamente. A me capita che, avendo più tempo, che oltre allo studio personale, ci sia anche uno strano ascolto, un ascolto diverso della creatività, a te sta capitando? Sentire che ci sono idee nell’aria, che anche se sei ferma c’è qualcosa che cova da qualche parte, oppure è solo un “ferma ferma ferma”?

Per quanto riguarda l’ascolto di ciò che accade è confuso. Mi ritrovo a volte infastidita da alcune idee di “ripresa”, ma la mia testa non è ferma.

Senti, mi racconti, così come ti viene un’esperienza artistica che ti ha segnata, ma che non rifaresti e una che invece rifaresti anche adesso.

Un’esperienza che mi ha segnata… Ora mi/ti spiazzo. Il lavoro con la scuola Meucci lo scorso anno: un lavoro laboratoriale difficilissimo ma che mi ha fatto capire di cosa mi voglio occupare. Ormai da anni sono proiettata al lavoro con e per i giovani e giovanissimi. Scontrarmi con una realtà giovanile così complicata ha risvegliato in me la voglia di cambiare il mondo. Quella che ti spinge verso il processo artistico, la voglia di sporcarti le mani, senza patine, senza voler mostrare, con onestà profonda, intima. Lavorare per dare uno strumento in mano ad altri “di poter dire” per poter esistere fuori dall’etichetta comune. Ecco un po’ questo, l’esperienza artistica che non rifarei invece non te la dico!

Posso almeno immaginarla? Forse posso.

Beh, hai scelta. Scherzo!

Per concludere, visto che il tempo è poco, ti chiedo proprio questo, il tuo prossimo lavoro quindi sarà orientato in tal senso, aldilà che ora siamo fermi, ma la testa no, l’obiettivo è rilavorare con giovani con cui studiare questi strumenti o prenderai qualcosa anche “per te” per un tuo lavoro in solitaria o in compagnia?

Beh lo sguardo è in quella direzione ma non è assoluto. Uso il termine sguardo non a caso. È il suo limite ciò che mi interessa. Quello che di solito non vediamo perché impegnati a mettere a fuoco ciò che ci appare come immagine principale, in fondo qualsiasi progetto affronterò ruoterà sempre sugli stessi concetti. Io lavoro sempre sulle stesse cose in fondo.

Il Teatro racconta le cose della vita, limitate e sempre quelle, ma appunto, non è il concetto, è probabilmente il come, è il limite, lo sguardo di cui parli ciò che fa dire “ricercare ha senso.” Io direi che siamo stati bravissimi a stare nei brevi tempi a disposizione, spero che parleremo dei reciproci “sguardi” presto di persona, anzi, non presto: ma nel tempo giusto.

GA’

Le voci degli artisti: Alessandro Pani (di Andrea Ibba Monni)

Lo conosco da quando lo chiamavano “Sly” perché se lo guardi bene ha i lineamenti alla Sylvester Stallone (prima del botox): era la metà degli anni ’90, lui era un giovanissimo uomo e io un vecchissimo bambino fratello di sue due amiche dell’epoca. Si avvicinò in quegli anni al mondo del teatro e mai avrei immaginato di rivederlo quasi vent’anni dopo sul set di C.S.I. Cagliari (qui una foto emblematica della collaborazione), web serie che ha scritto e diretto con quel mostro di bravura che è Filippo Salaris col quale dirige la Compagnia Artisti Fuori Posto (e con il link al loro sito e con tutto quest’articolo mando un saluto a chi dice che i teatranti non si supportano a vicenda). Alessandro Pani dovevo intervistarlo per una serie di ragioni che capirete nell’intervista che segue. Buon divertimento!

ANDREA IBBA MONNI: Qual è il primo ricordo che hai di me?

ALESSANDRO PANI: Io mi ricordo di te all’età di 12 anni, possibile? Quando uscivo nello stesso gruppo di amici con tue sorelle: mi ricordo che stavi un po’ per conto tuo e pensavo ti stessimo un po’ sul culo.

No, ero molto molto timido (come ora ma non riuscivo a nasconderlo) e sapevo che ovviamente loro non mi volevano li tra voi!

Qualche volta ricordo di essere anche venuto a casa vostra perché tua mamma aveva preso delle poesie che avevo scritto per farle leggere a un suo amico poeta, Bruno Rombi. Lui aveva letto le mie poesie e mi aveva detto che secondo lui ero gay. Io gli dissi di no, che quelle cose che avevo scritto intendevano dire altro, ma lui si era fermato alla prima interpretazione che gli era venuta in mente e mi disse “non ti devi vergognare“. E io “ma porcaputt… vabbè hai ragione te“. 

Quando tu chiedi a qualcuno di leggere le tue poesie e lui pretende di leggerti la vita. Olè!

Tra l’altro io non sapevo che al tempo tu facessi o ti stessi interessando al teatro, ti ho rincontrato molto tempo dopo ai Cada Die per il concorso Teatro in Corto al quale avevamo partecipato entrambi.

La prima cosa di Ferai che non era ancora Ferai: io, Ga’ e una danzatrice dell’Isola di Pasqua. Avevamo scelto il nome Make Make Teatro perché ci sembrava una goliardata avere il nome di una divinità pasquense raffigurata con un membro enorme. Finché il presentatore non ci annunciò col nome letto all’inglese, che delusione! Comunque che ne è stato di Alessandro Pani il poeta?

Scriveva per combattere la sfiga e l’inadeguatezza. Una volta che ha capito cosa voleva fare, Alessandro il poeta ha smesso di poetare. Adesso scrivo prettamente sceneggiature per teatro e cinema, mi trovo meglio, mi diverto di più. La poesia è troppo struggente. e io ero di quelli Sturm und Drang. Passavo molto tempo a leggere in quel periodo, leggevo circa 70 o 80 libri all’anno. e scrivevo molto, ma lo sfogo nella scrittura in realtà alimentava lati del mio carattere che mi portavano ad essere cupo, di malumore e talvolta rabbioso. E da quartese che ha fatto molta vita di strada da ragazzino avevo anche una certa facilità a venire alle mani. Ah, che ricordi le risse in viale Colombo, ai giardini di Via Cagliari e in via Brigata Sassari!

Perché hai scelto di fare teatro?

Credo di aver sempre saputo di voler fare teatro. So che è brutto da dire, ma ho iniziato con la recita delle medie, in via Tiziano: decisi che da grande avrei fatto quello. Dopo il diploma compravo sempre l’Unione Sarda per trovare una scuola o dei corsi di teatro. All’epoca non c’era internet e le informazioni non le si trovava facilmente e se non conoscevi qualcuno che faceva già un corso o conosceva una compagnia non sapevi come muoverti Trovai un annuncio dell’Akroama e decisi di iscrivermi. Era il 1998. Da lì non ho mai smesso. Purtroppo non potevo permettermi di spendere molto e dovevo comunque lavorare, facevo il programmatore informatico, quindi prima di vivere di questo mestiere è passato tanto tempo. Solo nel 2007 sono riuscito a mollare tutto ed a dedicarmi alla recitazione come professione

Come nasce il progetto Artisti Fuori Posto e come vi siete scelti?

Artisti Fuori Posto nasce formalmente nel 2011 ma in realtà con il buon Sergio Cugusi ne parlavamo già dal 2008 di tirare su una compagnia Eravamo ancora legati al Riverrun, entrambi lavoravamo lì, poi nel 2010 siamo stati gentilmente invitati a farci da parte e ci siamo messi all’opera per tirare su AFP. 

Il terzo giorno

Filippo è arrivato nemmeno un anno dopo, per andare in scena con me nello spettacolo “Il terzo giorno”. Con Filippo ci siamo conosciuti nel 2008, abbiamo frequentato insieme un corso regionale per attori professionisti e uno stage nell’accademia dell’Arte di Arezzo. Abbiamo capito che eravamo sulla stessa linea e sapevamo che avremmo sicuramente fatto delle cose assieme. Infatti ci siamo ritrovati poi nel 2010 ad Olbia per lo spettacolo sulla boxe che si chiamava “Fuori i secondi” dove interpretavamo due pugili che, dopo essere cresciuti insieme come amici e come atleti, si ritrovano alla fine per un match decisivo dove se le danno di santa ragione.

Io lo so bene e ho le mie motivazioni, tu invece perché hai scelto di fare una compagnia da zero invece che provare a lavorare con/per altre realtà già esistenti?

Il nome Artisti Fuori Posto non è una scelta casuale, nasce proprio dal fatto che con gli altri ci siamo sempre sentiti un po’ fuori posto. Sia io, Sergio e Filippo (ma anche gli altri che sono venuto qualche anno dopo Francesca Saba e Piero Murenu) abbiamo sempre avuto qualche difficoltà a sottostare a quelle che erano le scelte artistiche, le abitudini e i comportamenti del mondo del teatro con il quale fino ad allora avevamo avuto a che fare (eccezion fatta per il Riverrun dei primi anni). Io personalmente non tolleravo il fatto che come artisti spesso le compagnie ci pagassero con mesi di ritardo e nessuno dei miei colleghi attori si lamentasse mai. Io ci mettevo sempre la faccia, mettevo in piedi litigi furibondi (da buon quartese) mentre molti dei colleghi attori subivano certe angherie borbottando alle spalle ma sfoderando poi sorrisi smaglianti davanti alle persone che avevano criticato fino a poco prima.

Artisticamente parlando poi avevamo bisogno di fare anche cose che arrivavano da una urgenza personale (quantunque potessero essere anche cazzate, roba demenziale) mentre in molte compagnie ti ritrovavi a dover sottostare ad una agenda di argomenti e tematiche decisa da qualcun altro, spesso dalla politica. e io personalmente avevo altre direzioni da prendere.

Ti va di parlarne di questo ambiente teatrale sardo? Cosa salvi?

Boh personalmente ho visto tante cose belle prodotte qui in Sardegna, ma anche tante cose molto brutte che non avevano la dignità di essere messe in scena neppure sotto un ponte. Credo che spesso ci si ritrovi a dover cercare di arrivare a fine mese, di far fronte alle spese e a rincorrere i soldi e non si abbia il tempo di fermarsi un attimo e pensare a quello che si sta facendo. Molti spettacoli brutti che ho visto erano tra quelli che dovevano rispondere a temi dettati dall’agenda politica del momento e dovevano innanzitutto rispondere a quelle necessità piuttosto che all’urgenza degli artisti. Credo che dovremmo avere tutti noi artisti la possibilità di avere più tempo per i nostri spettacoli, per le nostre creazioni, molte volte le buone idee sono rovinate dalla fretta e dalla mancanza di risorse.

Eppure basterebbe essere buoni artisti per sposare necessità altrui e non svilire l’arte teatrale, no? O si può fare buon teatro solo se si risponde a una propria necessità?

Per come la vedo io una creazione artistica deve rispondere ad una urgenza dell’artista (di qualunque tipo essa sia) che poi spesso tende a convergere in un sentire comune delle persone. L’artista spesso riesce a dare voce e forma a ciò che nelle persone è una sensazione indefinita. poi può anche capitare che una cosa ci sembra un’urgenza ma in realtà dovevamo solo andare in bagno e infatti esce una cagata.

Qual è lo spettacolo di AFP che rifaresti ora e per sempre se dipendesse solo da te?

La nostra opera prima: “Il terzo giorno(qui il trailer) anzi, appena possibile riprogrammiamo una replica.

Era proprio bello. Come mai quello spettacolo? 

Mi piaceva il discorso che si fa sulle rivoluzioni, sull’idea che abbiamo di andare contro il sistema, di essere dei ribelli e invece il sistema ci riassorbe come se niente fosse. Era un’idea nata dal fatto che durante l’età giovanile che va dalle superiori ai 24 anni capitava di vedere gente, che prima era assolutamente l’emblema della refrattarietà alle regole, diventare modelli di integrazione nel tessuto sociale. Prima tutti stracciati, sesso droga e rock and roll, e poi giacca e cravatta e lavoro sicuro in banca. Sta roba mi faceva uscire di testa!

Qual è e quale sarà il ruolo del laboratorio teatrale a Cagliari nel 2020?

A me piacerebbe trovare il modo per far diventare il laboratorio teatrale davvero ciò che dice la parola stessa: un laboratorio! Dove si lavora e si fa ricerca, per molto più di quello che possono essere i due incontri settimanali (nel migliore dei casi). Purtroppo incontro sempre meno allievi che vogliono fare il mestiere dell’attore, mentre quando ho iniziato io eravamo in tanti e anche molto agguerriti (non tra di noi) e ci siamo conquistati la professione con le unghie e con i denti.

Vorrei invece portarli più ad una dimensione di creazione collettiva. Era molto interessante quelle che avete fatto voi ad esempio in estate: il Baratto Teatrale secondo me è una dimensione molto più utile anche se non sempre è sostenibile economicamente: molte volte si basa tutto sulla disponibilità degli attori e dei docenti, parliamoci chiaro, non tutti sono disponibili a dedicare tutto quel tempo agli altri e molte volte senza un euro in cambio.

Come mai non c’è più la volontà di fare il mestiere dell’attore e soprattutto manca quel senso di lotta?

Molti si arrendono alle prime difficoltà, alla prospettiva di fare un lavoro che non rende economicamente. Ma come dici tu quello che a volta vedo mancare è la voglia di lottare. Ai miei allievi chiedo sempre “Chi di voi vuole fare l’attore o l’attrice professionista?” Quando mi sento rispondere “io credo di si” rispondo sempre “questa è una domanda a cui puoi rispondere solo SI o NO, non esistono vie di mezzo. Se la tua risposta è ‘credo di si’ per me è un NO” Perché se vuoi fare questa strada, come tu ben sai, devi fare una scelta e portarla in fondo nonostante le difficoltà. E sono quasi sempre solo difficoltà. La mentalità è “ma perché mi devo rompere il cazzo?” è figlia di questi tempi dove tutto è già pronto, è già servito. Troppo severo?

Non porta soldi, non porta fama… perché farlo allora?

Per ognuno è diversa. Posso dirti quali erano le mie di motivazioni. Ho lavorato per 7 anni come programmatore informatico in diverse aziende e tutte le mattine mi alzavo maledicendo il creato. Non volevo più svegliarmi arrabbiato la mattina. Da quando faccio l’attore che è ciò che ho scelto di fare e che mi piace (ma poteva essere anche l’imbianchino o lo spazzino) mi sveglio e non vedo l’ora di progettare, creare, fare. Odio i giorni festivi. Del resto fare arte è un lavoro full time senza giorni liberi.

Andrea Ibba Monni

Teatro ai tempi di Coronavirus: Artisti Fuori Posto | Cagliari ...

Gli Artisti Fuori Posto

da sinistra: Filippo Salaris, Alessandro Pani, Piero Murenu, Francesca Saba, Sergio Cugusi

Le voci degli artisti: Sergio Piano (di Ga’)

Sergio Piano è da tantissimi anni professionista del teatro, co-fondatore dello storico teatro “Alkestis” e fondatore del Teatro “Intrepidi Monelli” primo spazio teatrale a sorgere a Sant’Avendrace. Ma tra i sogni del regista non c’era solo quello di poter inaugurare un teatro nel proprio quartiere di nascita, ma anche tanti altri progetti, tante strade che attraversano i diversi generi teatrali, le diverse esperienze del passato, dal teatro di ricerca degli anni 70’ ai laboratori di formazione fino all’organizzazione di festival comici e brillanti; tra tutte queste strade, un punto fermo: mai arrendersi, perché il teatro è vivo e alla portata di chiunque.

Come va Sergio? Grazie per aver accettato l’intervista. Chiacchieriamo un po’ sul teatro che è un argomento sempre buono. Visto che a livello di pratica possiamo fare poco per ora, possiamo soffermarci su qualche riflessione in più, tu e il tuo Teatro “Intrepidi Monelli” come state affrontando questo periodo di sospensione delle attività?

Sospensione, è realmente, sì, un periodo di sospensione. Lo spazio degli Intrepidi aveva moltissime attività e due nostre produzioni in corso di preparazione, ora è tutto fermo. Ma non sono spaventato, al di là delle difficoltà economiche (e tante altre naturalmente) in questi giorni “di sospensione” la testa è andata indietro nel passato, è sorta una voglia di recuperare determinati studi, i miei inizi a teatro, ma anche ridare nuova vita a vecchi progetti.

Quando parli del passato, parli di ciò che c’è stato prima degli Intrepidi Monelli, del teatro di ricerca, la storia del teatro del novecento, da Jerzy Grotowski in poi.

Esattamente, Grotowski, ma anche tutto il contesto, la ricerca fatta muovendosi, a volte isolandosi, studiando sul posto, studiando il teatro dei riti, dei primi rituali, poi i dervisci, e ancora Yoshi Oida, Zygmunt Molik, Ryszard Cieslak. C’è il forte desiderio di riprendere quei materiali.

E questo teatro di ricerca che affonda le radici in un tempo così lontano, oggi è praticabile, fattibile, in che modo? So che hai visto il nostro “RAPSODIA:ORIGINS” che traeva spunto da quel tipo di ricerche rituali, quindi sai bene che la domanda non è per niente disinteressata.

Sì, “RAPSODIA:ORIGINS” l’ho visto, sai bene quindi anche tu che è il teatro di ricerca è realizzabile sempre e sono dell’idea che le cose si evolvono. La ricerca non smette di esistere nel Novecento, ce la portiamo dietro e in qualche modo si evolve perché è diversa la vita oggi ma ripeto, lo sai bene, c’è quella fame, quell’esigenza, quella necessità.

Lo so, infatti “chiedevo per un amico” nel senso: una volta ogni tre mesi più o meno, qualcuno si sveglia e grida questo parere non richiesto “la ricerca teatrale è morta, inutile, non attuabile” e che anche “i grandi Maestri sono morti, non esistono più, quindi tutto è perduto, non esiste più il vero teatro e chi può insegnarlo!”

Ma i grandi Maestri in realtà ci sono, esistono, vanno conosciuti, vanno cercati se non hai la fortuna che ti capitano davanti. Soprattutto l’attore deve studiare sempre, approfondire con sé stesso: un attore che non ha fatto i suoi studi, che non li ha scelti, che non si è formato, in scena lo vedi, lo capisci subito.

Quindi il teatro è vivo e anche chi lo insegna, possiamo tranquillizzare gli scettici.

Ti racconto un aneddoto. Molti anni fa Pierfranco Zappareddu aveva organizzato un laboratorio tenuto da Ryszard Cieslak, l’attore di Grotowski. Eravamo una trentina di allievi, ma tra me e Ryszard ci fu subito un rapporto molto diretto, una grande intesa, verso la fine del percorso mi chiese se volevo seguire io da insegnante un laboratorio all’estero. Io però avevo davvero degli impedimenti gravosi e l’impossibilità di partire, insomma, uno dei miei compagni di quel laboratorio non poteva credere che fossi costretto a rifiutare così. A volte nelle esperienze teatrali capita questo: passa un treno e non puoi prenderlo oppure ti trovi davanti a un grande Maestro, ma in quel momento non ti accorgi o c’è molto altro. Ma se vai a cercare, la tua formazione la trovi, io ho lavorato tanti anni con Claudio Morganti, tuttora vivente, in anni mi ha dato moltissimo, torniamo sempre a questo: che l’attore deve fare un percorso personale molto forte, con molta pazienza, con molta dedizione, senza voler arrivare dal nulla al “tutto e subito.”

Quando ti occupi di una nuova produzione, che caratteristica ha l’attore che ti rimane nel cuore, cosa è in grado di materializzare per te regista, sulla scena?

Tra le tante persone con cui ho lavorato, attori, allievi, devo dire che sono rimasti tutti nel cuore per qualche motivo. Quello che posso dirti è che ti rimane l’attore formato, quello che sa vivere la sua tecnica in scena, che sa farti vivere delle emozioni nel momento, questo non significa per forza l’attore con la dizione perfetta come si è soliti credere o l’attore che scimmiotta quel modo di parlare artefatto: quella è una cosa che non mi è mai interessata e anzi spesso mi annoia, deve esserci dell’altro.

Cosa farai “dopo” ? Dopo tutti questi anni, dopo la fondazione, sei anni fa, degli Intrepidi Monelli, dopo tanto lavoro, c’è un progetto, “lo spettacolo della vita” qualcosa che vuoi realizzare perché senti che ti manca.

C’è. Si tratta di uno studio che in parte ho già affrontato in passato ma non l’ho mai concretizzato, un lavoro sul Don Chisciotte” di Cervantes, non ti so nemmeno dire, non mi metto nemmeno io il limite, se lo affronterei come teatro di ricerca, come un’attività contaminata o qualcosa di più brillante, forse anche un insieme di tutte queste cose, per quanto può sembrare enorme, ampio o presuntuoso.

Come mai tra tanti materiali proprio il “Don Chisciotte”?

Don Chisciotte” perché è molto attuale nel parlarci della Lotta. Una lotta contro i mulini a vento che per noi, nella nostra professione artistica è tutto ed è tutto ciò che c’è da raccontare. Un racconto di avversità. Potrei nominarne moltissime avversità, ma il nocciolo, quella principale è che quando vai a fare questo lavoro, la professione del teatro, non puoi avere una vita normale, le rinunce sono tante, rinunci anche agli affetti, ai rapporti che chiunque in un’altra professione darebbe scontati. Al tempo stesso le persone con cui collabori, gli allievi, i maestri, tutti, in qualche modo diventano una famiglia, però sei sempre in lotta, contro qualcosa che non si può sconfiggere, ma non è importante, perché l’importante è solo il lottare.

Quindi abbiamo questo frammento del futuro, le produzioni con gli Intrepidi Monelli e in qualche modo, prima o poi Don Chisciotte”Produrrai o dirigerai qualcos’altro?

Ultimamente, soprattutto negli ultimi due anni ho preferito fare un po’ di spazio agli altri, una cosa che non è facile nel nostro settore, perché vedi sempre l’ego delle persone che emerge, ma io sono sempre stato un po’ così e negli ultimi due anni in particolare mi sono reso conto che se non si sta troppo concentrati solo su se stessi, ma si allarga l’orizzonte, si invitano compagnie, si guarda come gli altri lavorano, come fanno laboratorio, se si fanno collaborazioni, in questo modo si viene a conoscenza di cose che non si sarebbero mai immaginate, mi ha arricchito moltissimo vedere gli altri lavorare ed è giusto riuscire a lasciare spazio anche agli altri.

Collaborare porta anche ad attirare più pubblico, far conoscere realtà diverse che s’incontrano, come è andata da questo punto di vista?

Il pubblico ha reagito bene, piacciono le attività e le diverse cose che proponiamo, ma la cosa che da più soddisfazione è che ci sia il modo di far conoscere il teatro al pubblico, perché ancora oggi molti arrivano a vederlo per la prima volta. Da quando abbiamo aperto lo spazio, più di una volta mi è successo che una persona, l’ultima volta per esempio una signora “Ma quindi il teatro è così? Il teatro è questo” “Si signora, il teatro è questo.” C’è molta disinformazione su cosa succeda in uno spettacolo, ma quando si va a teatro, se gli attori in scena sono preparati, non si può non restare innamorati.

Ga’

Le voci degli artisti: Matteo Sedda (di Andrea Ibba Monni)

DISCLAIMER – Il sottoscritto ha ripulito questa intervista da tutti i “penso che”, “se posso essere sincero”, “credo che”, “la mia opinione personale è che”, che l’intervistato ha premesso praticamente ad ogni risposta. Ci tengo a specificarlo perché da subito sappiate che è sinceramente e genuinamente umile. L’esempio del fatto che chi più fa la voce grossa meno vale e quanto più vivi e conosci tanto più ti rendi conto che non avrai mai la verità in tasca. Godetevelo.

Mount Olympus/24h — Matteo Sedda

Incrocio per la prima volta Matteo Sedda un paio di vite fa perché entrambi bazzicavamo quel vivaio provinciale che era la comunity LGBT cagliaritana ma non diventiamo mai amici, non ci incrociamo mai davvero. Poi mentre io scelgo di passare anche i fine settimana a lavorare a teatro (o comunque a vivere una vita alternativa alla discoteca del sabato sera e ai resoconti della domenica) lui vince a mani bassissime un concorso per Drag Queen e se ne va a Milano, fallisce in diretta su Canale 5 un provino ad “Amici” e sparisce dal mio radar per anni. Lo ritrovo sui social, sembra diverso, qualcosa è cambiato: scoprirò poi che stava iniziando a vivere davvero. Inizia a lavorare con nomi importanti e gli scrivo che da artista e da sardo mi sento orgoglioso, rappresentato, lui potrebbe tirarsela da morire ma non lo fa: abbraccia virtualmente la mia missiva e iniziamo a diventare buoni conoscenti. Appena possibile ci incontriamo, ha due occhi pazzeschi che trasmettono solo cose belle, a me viene solo voglia di abbracciarlo. Lo invito a vedere Ga’ in “Eros Nero” e viene a vederlo, mi ringrazia. Poi parte, torna e ci rivediamo ancora: i suoi occhi sempre più pazzeschi, la voglia di abbracciarlo sempre più grande. Vado a vedere il suo “The generosity of Dorcas”, le mie aspettative erano bassissime, non volevo restarci male ma a fine spettacolo mi fiondo subito in camerino e lo trovo da solo, madido di sudore, bellissimo, sfatto, iconico e dolorante, fa stretching per alleviare i dolori dati da tanto sforzo. Mi scuso dell’invasione, lui mi accoglie con due occhi ancora più pazzeschi, non lo abbraccio perché potrei romperlo stavolta tanta è la gratitudine che provo: su quel palco ha dato tanto, forse tutto.

Saprà queste cose solo quando le leggerà in questa intervista. Eccola, finalmente:

L'artiste belge Matteo Sedda évoque sa séropositivité à travers la ...

ANDREA IBBA MONNI: Perché non vivi in Italia?

MATTEO SEDDA: Ho lasciato l’Italia 4 anni fa per lavoro e adesso vivo in Belgio, a Bruxelles dove si possono incontrare diverse realtà e quindi opportunità, migliori rispetto all’Italia.

Come mai proprio Belgio, Bruxelles?

Lavoro con la compagnia Troubleyn di Jan Fabre che ha la sede ad Anversa. Bruxelles si trova a circa 30 min da Anversa e ho scelto di trasferirmi a Bruxelles perché e’ una città vivissima e fantastica al contrario di Anversa, soprattutto per quanto riguarda i giovani. Ho lasciato Cagliari per andare a Milano, a studiare alla Dancehaus della Beltrami e subito dopo il diploma ho trovato lavoro da Fabre. Vorrei pero’ tornare in Italia, mi manca tantissimo ma al momento mi trovo bene a Bruxelles dove mi sono fatto degli amici che ormai sono la mia famiglia. Ovviamente non potranno mai sostituire i vecchi amici.

L’Italia è matrigna o semplicemente ci sono poche opportunità? Non ti si danno le opportunità che meriti o non ci sono proprio opportunità per nessuno?

Ce ne sono pochissime! Tantissimi talenti ma poco lavoro; quando c’è molte è quasi sempre in mano alle stesse persone ed è un peccato. Penso gli italiani siano tra i migliori performer (attori, danzatori, cantanti) che abbiamo, basta guardarsi indietro, cioè alla cultura e al passato dell’Italia e degli italiani.

Dove e come si incontrano danza e teatro ossia il corpo e l’interpretazione attraverso la fisicità?

Si incontrano nel “credere”. Per i religiosi è la fede, no? La fede può diventare intenzione: se tu credi in quello che fai e quindi fai quello che credi, puoi veramente arrivare dove vuoi: questa energia che si propaga in tutto il corpo e in tutta la mente ti rende un Dio. Ecco dove allora si incontrano danza, corpo, interpretazione. Ovviamente nel nostro mondo serve anche un pizzico di ego.

L’arte è un atto di fede?

Sì, per fortuna ma anche purtroppo: l’arte a volte ci mangia, ci consuma e soprattutto in questo periodo di difficoltà ne risentiamo.

Pandemie globali a parte, quando accade che l’arte ci faccia del male?

Un esempio è quando lavoriamo gratis o quando seguiamo dei maestri che magari non dovremmo seguire: ci lasciamo mangiare da loro ma amiamo talmente tanto quello che facciamo che diventiamo ciechi. Ecco fede e amore.

Come distingui un vero Maestro da un cattivo Maestro o da un ciarlatano?

Bella domanda… Sicuramente un cattivo Maestro è quello che ti tiene in gabbia tutto per sé e non ti fa esplorare il mondo, gli altri insegnamenti. Bisogna stare attenti al maestro che è pieno di ego, che nell’allievo vede solo se stesso, vede solo il suo bene e non il bene del suo allievo. È sicuramente difficile notarlo sia per i genitori che non hanno mai fatto parte di questo mondo che per i giovanissimi. Insomma io non penso che basti un attestato o un diploma per essere un bravo maestro: devi esserlo dalla nascita, insegnare è un dono. Ci sono tanti bravi performer che non sanno insegnare e tanti bravissimi maestri che magari non sono ottimi nel performare.

Qual è stato il momento che ti ha segnato artisticamente? Quella situazione che ti ha fatto maturare, capire meglio te, l’arte, l’arte dentro di te e e il tuo essere dentro l’arte?

Quando ho scoperto di essere HIV positivo ho potuto comunicarlo attraverso l’arte: il teatro è diventato una necessità di vita o di morte. Sai che mai dovessi finire di fare teatro sarei contento?

Tu sei pazzo!

È che ho raggiunto il motivo principale, ho risposto alla mia domanda: “perché lo fai: perché fai teatro?”

Giuro che non volevo chiedertelo ma adesso sono curioso. Qual è la risposta?

Il teatro mi fa riconnettere con il passato, mi fa tornare a quando ero bambino e allo stesso modo mi proietta verso il futuro. Quando ho scoperto di essere HIV positivo mi sono riconnesso con la mia parte infantile in tutti i suoi aspetti e la mia voglia di fare teatro è nata quando ero bimbo. Allo stesso tempo sento il tempo come un qualcosa di prezioso e unico perché oggi ci siamo, ma domani non lo sappiamo.

Insomma è cambiata l’urgenza espressiva?

Esatto, mi chiedo sempre “cosa sto facendo adesso? È cosi importante da doverlo fare?” Quando faccio teatro tutti questi quesiti si connettono ed ecco perché cerco anche di trovare dei temi alle performance che faccio che rispecchiano questo modo di vedere le cose.

Come se fosse facile, vero?

È molto difficile da fare visto che devo anche vivere facendo teatro quindi molte volte devo dire di sì a lavori solo perché ho bisogno di mangiare e mi capita di non essere sempre soddisfatto al 100% dal momento che ho ristretto i miei gusti. Quando vado a teatro da spettatore mi annoio facilmente se riconosco che sono finti. LHIV ha cambiato il mio modo di vedere il mondo e quindi il mio modo di vedere il teatro. Per me è tutto connesso… e ritorniamo a bomba al discorso della fede.

Posso scrivere che aver contratto l’HIV sia stata una fortuna in questo senso e credo solo in questo senso?

Assolutamente sì ma è stata una fortuna in ogni senso possibile perché mi ha cambiato la vita in positivo.

Ho visto “The generosity of Dorcas” e ho assistito a uno spettacolo che ha rivelato tanto di te attraverso l’arte del teatrodanza. Ma com’è stato affidare le tue memorie, le tue urgenze, le tue paure, le tue speranze, i tuoi pregiudizi a un’altra persona, Jan Fabre?

Adoro lavorare con Jan perché entro in uno stato fisico e mentale estremo: mi sono fidato ciecamente perché ci conosciamo ormai da tanto e quindi è bellissimo lasciarmi andare insieme a lui. Il problema arriva quando le prove sono finite e iniziano gli spettacoli: ti devi lasciare andare ma senza nessuno, sei da solo con te stesso e a farti compagnia ci sono solo la paura e l’adrenalina. Ma non le devi controllare o distruggere, devono diventare tue amiche, devi prenderle per mano. Solo in quel modo puoi veramente lasciarti andare, soprattutto per quanto riguarda i lavori estremi come quelli di Jan: fisicamente e mentalmente estremi.

Jan Fabre racconta Mount Olympus – To Glorify The Cult of Tragedy ...

Andrea Ibba Monni

Le voci degli artisti: Anna Gualdo (di Andrea Ibba Monni)

Anna Gualdo in una foto di Marcello Norberth, 2020

Il 2011 è un’altra vita: il ventottenne che ero inizia a sentire che c’è qualcosa di fasullo, di stantio, in ciò con cui ho a che fare sulla scena cagliaritana. Domenica 29 maggio 2011 al Teatro Civico di Castello a Cagliari va in scena “Macadamia Nut Brittle” di Ricci/Forte (questo) e resto stregato da tutto e da tutti ma sopratutto e soprattutti da Anna Gualdo, dal suo sguardo, dalla sua voce, dal suo corpo e da come usa tutto in tutti i modi possibili: su quel palco la sua anima sanguina e il suo corpo vive una vera e propria Passio Christi. Riconosco tutto e penso: questo è il teatro che mi interessa ora e ora posso concretizzarlo dal momento che non è solo una mia pulsione.

Sarà una delle prime volte in cui capirò che io e Ga’ stiamo mettendo Ferai Teatro sulla buona strada.

In quegli anni facebook è agli esordi e mentre la gente invia poke e si scambia pollame e ortaggi, io chiedo l’amicizia sfacciatamente a tutto il cast. Ogni tanto sento Gianni Forte e Anna Gualdo, cerco di non essere invadente, nascono scambi sporadici ma sempre abbastanza interessanti.

Sabato 11 marzo 2017 al Teatro Massimo di Cagliari va in scena “Still life” (questo) Anna è pressoché immobile sulla scena ma proprio per questo il suo sguardo e il suo corpo, il suo essere al tempo presente è ancora più potente. La sua interpretazione è da brividi: l’inaspettata staticità è stata controbilanciata impeccabilmente. Mi fiondo nei camerini in barba a qualunque principio di buona educazione, la vedo, li vedo tutti, tutti felici come bambini, madidi di sudore. Lei mi accoglie come una sorella maggiore accoglie il fratellino un po’ invadente ma mi abbraccia nonostante la lombalgia la inchiodi da giorni.

Lunedì 11 maggio le strappo questa intervista in chat messenger: non so perché me la concede, ma non so neppure perché mi ha accettato tra gli amici di facebook nove anni fa né perché mi ha accolto fraternamente nei camerini nel 2017. So solo che ho il privilegio di avere a che fare con un’attrice vera, brava, preparata.

Prima di lasciarvi all’intervista vi svelo un segreto: dal 2011 ogni volta che ho a che fare con un’attrice, che sia un’allieva o una collega io la misuro su Anna Gualdo.anna gualdo | venere in forse

ANDREA IBBA MONNI: Non è un’accusa ma una premessa: online si trova poco di te, della tua vita e della tua formazione. Ma tu chi sei? Chi è la professionista Anna Gualdo? Cosa scrivo?

ANNA GUALDO: Io sono un’attrice – oggi controvoglia detta “performer” – molto poco social e molto poco autoreferenziale. Faccio molta fatica a raccontare cosa faccio e cosa sono fuori dal mio lavoro poiché spero di mettere me stessa in quello e spero non sia poco.

Qual è stato il tuo punto di partenza, l’anno zero? Insomma: quando e come hai deciso di fare teatro per la prima volta?

La prima apparizione pubblica risale al maggio del 1972, in “Cappuccetto rosso” alla 24 Maggio di Trastevere. Poi dobbiamo arrivare al 1984 quando comunicai a due professori universitari di Paleografia e Latino Medievale la mia intenzione di iscrivermi all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Tralascio le loro reazioni.

Hai ricordi di mercoledì 24 maggio 1972?

Come fosse oggi. Alla recita scolastica venne solo mia nonna, i miei già troppo impegnati iniziarono il lento e frustrante logorio educativo. Recitavo e cantavo nel mio mantello rosso, come trent’anni dopo in “Grimmless” (questo) Fu un successo enorme anche perché recitai le battute di un lupo piagnone e smemorato di sei anni: avevo sei anni ma anche “Grimmless” nacque come ricordo di quella bambina oggi senza favole. Mi sentivo contenta, eccitata, piccola e capace di stregare gli spettatori.

È cambiato qualcosa o sei sempre quella attrice eccitata e capace di stregare gli spettatori? Va be’, potrei chiederti semplicemente se senti sempre l’eccitazione perché gli spettatori li streghi, te lo garantisco io.

Il mio attuale fidanzato dice che dopo gli spettacoli sono sempre l’unica a ridere ai ringraziamenti forse perché sono ancora eccitata dalla capacità di coinvolgere e coinvolgermi. Non è cambiato niente, stesse sensazioni, paura… e qualche ruga.

Parliamo un po’ di questa “paura”?

Paura ed eccitazione vanno di pari passo: la paura è adrenalina e sensazione di essere impreparati ma anche la paura di rimettersi in gioco davanti al pubblico. Non ho mai avuto un metodo mentale fisico e respiratorio di concentrazione per cui è come se mi sbattessero sempre sul palco all’improvviso senza sapere per un attimo cosa fare o cosa dire.

In questo siamo molto simili, anzi identici! Io canticchio ma più che altro è un “rito” quasi… Sogni mai di fare uno spettacolo per il quale non hai fatto mezza prova?

Sì lo sogno e l’ho pure fatto! E per giunta con Luca Ronconi: alle 10:00 sono tornata a Roma da Sarasota (Florida), alle 16:00 stavo al Piccolo a fare le prove.  Ho passato la notte ad ascoltare la cassetta di Massimo Popolizio con tutte le battute mie e il giorno dopo ho sostituito Laura Marinoni in Beatrice ne “I due gemelli veneziani” di Carlo Goldoni.  E veramente non sapevo cosa ci facevo su quel palco. Paura???

Sarei morto. Com’è andata?

Come “Cappuccetto rosso“. Il jet lag fece da anestesia stordente e allucinogena.

Concedimi una domanda stupida: quale vorresti fosse la direzione finale? Se, follemente, dovessi pensare al tuo futuro, dove e come troviamo la performer Anna Gualdo nel 2060? Che starà facendo?

Avrei 93 anni: la nuova Paola Borboni! Mi vedo più col giardinaggio in Costiera, oppure un’arcigna professoressa di dizione.

Quindi contempli l’idea di non recitare più? Di non dirigere? Di non stare neppure dietro le quinte?

Non recitare più mai. Dirigere mai. Per me il teatro è solo essere un’attrice e detesto gli incontri col pubblico e le interviste, esclusa questa. Esisto solo quando recito.

Che domande idiote, ma son curioso: quale vorresti fosse il tuo ultimo spettacolo? Quello dopo il quale non reciterai più.

Forse l’ho già fatto e non me l’hanno detto. Forse “Cappuccetto rosso” e tornare tra i banchi. Ma la verità è che non c’è un ultimo spettacolo né un ultimo personaggio perché dentro ci sono sempre stata io in quel momento con i miei problemi, i miei amori, i miei acciacchi e ogni futuro spero sia il penultimo.

Ci sei sempre tu, visceralmente tu. Ti ho vista due volte e ti ho “sentita” sempre e sempre tantissimo. Come fai a non farti male dando così tanto alla scena? Riesci sempre a tenere una piccolissima parte “presente” al fine di controllare tutto o si va sempre senza rete?

Doppia è la domanda e dicotomica la risposta: vado senza rete, emotiva e fisica e mi faccio spesso male, sia ai sentimenti che ai legamenti crociati; ma sono una Vergine e il controllo non lo perdo neanche sotto la tortura di un’improvvisazione riccifortesca sul sesso.

Questo “sbaraglio” serve più a te o più a noi che ti guardiamo? Perché arrivare a farsi male anche se “verginamente” controllata?

È dal 1985 che sogno di essere Sonja, seduta, e diretta da Lev Dodin ma non ho mai fatto Cechov. Lo sbaraglio è il naturale uso del corpo come parte integrante del mio essere attrice, dove il coinvolgimento riguarda tutta me stessa e credo sia imprescindibile nel rapporto platonico attore spettatore: farsi male è un incidente di percorso doloroso e trascurabile che fa parte del gioco.

Ci vai a teatro? E se in scena non vedi quel che dai tu come attrice come vivi l’esperienza da spettatrice?

A teatro ci vado spessissimo, sopratutto ora che lavoro poco… e per niente ora che purtroppo sono chiusi. Comunque la prendo malissimo, pur restando convinta che spesso ottimi attori salvino pessimi spettacoli.

Le voci degli artisti: Matthias Martelli (di Andrea Ibba Monni)

Matthias Martelli a Fano con “Il mercante di Monologhi” • Flaminia ...

Lui è sembra felice. Non stento a pensarlo (non l’ha mai detto) perché fa ciò che vuole quando vuole e come vuole. Ci sentiamo al telefono e subito mi investe di entusiasmo dal Ciao caro!” al “A presto caro!” a fine telefonata. Telefonata che non ho potuto saputo registrare e della quale quindi faccio un report che passerà al vaglio dell’intervistato prima della pubblicazione. Matthias Martelli è il prodigio del Teatro Contemporaneo, l’erede designato del celeberrimo Dario Fo, ma talmente tanto è stato detto e scritto da tutti in merito, che a me dà quasi fastidio ribadirlo perché Matthias è altro e oltre, è diverso, per me il suo “Il mistero buffo” (qui il trailer) è punto di partenza e non d’arrivo, ecco. Ma sarà la sua carriera a dimostrare che ho ragione.

Come stai in questo periodo?” gli chiedo pronto a raccogliere lo sfogo più o meno lagnoso di un collega, ma mi spiazza dicendomi che grazie a questa situazione si è fermato (proprio fisicamente) e ha potuto assaporare il valore di ciò che ha fatto fino a oggi, ossia girare come una trottola per tutta l’Italia, fare spettacoli, stringere mani, farsi (meritatamente dico io) adorare.

Che fai a casa?” E che farà mai? Studia, scrive, fa video di ciò che studia e di ciò che scrive per regalarli sui social (qui il suo canale YouTube ma lo trovi anche su Facebook e Instagram) al pubblico che lui adora di rimando.

Ci siamo conosciuti due anni fa quando per la rassegna di teatro indipendente contemporaneo Ferai Teatro porta a Cagliari il suo “Il mercante dei monologhi” (qui il trailer) ed è amore a prima vista: arriva in treno da Sassari (una diaspora insomma) bello e stropicciato ma gli basta la luce dei fari e il pubblico in sala per diventare bellissimo e smagliante. Manco a dirlo è un successo pazzesco, la folla è in adorazione per il mattatore di Urbino, ma Cagliari non è l’eccezione, bensì la regola.

Ma è sempre felice? “Ma non hai mai momenti di crisi?” Certo, di continuo, ma lui come me vede la crisi come un’opportunità di evoluzione quindi di crescita quindi ben vengano le crisi: lui è felice.

Mi fa notare (e io faccio finta di saperlo) che l’origine etimologica della parola “felicità” richiama “abbondanza, ricchezza, prosperità” quindi ai frutti del proprio essere. Chi è Matthias Martelli al di là delle numerose interviste che i veri giornalisti gli hanno fatto fino a ora? Ve lo dico io: è un albero da frutto le cui fronde danzano felicemente! Quando era un fuscello felice amava esprimersi attraverso la teatralità delle imitazioni, poi quando è diventato un arbusto felice ha studiato Storia Contemporanea (ha iniziato a trotterellare per mezza Italia e pure in Spagna) finché gli capita l’occasione di fare uno spettacolo di strada in Sicilia, poi è tornato a Torino e si iscritto ad una scuola di recitazione, cosa che gli dà modo di diventare un albero felice e iniziare a coltivare davvero i propri frutti.

Momento domanda sciocca “Che albero secolare sarai?” Se il vostro umile sottoscritto si vede produttore e talent scout, Matthias più saggiamente dice che non cerca queste risposte, per ora vorrebbe continuare a fare ciò che fa, magari girando meno quando diventerà un anziano: per ora pensa a viversi il presente – manco a dirlo – felicemente.

Ma lui che ha girato tanto che idea si è fatta di noi, ossia del teatro italiano che l’ha ospitato? Vede una penuria di Maestri. “Come riconosci un Maestro?” Nel 2013 scrive una email all’immenso Dario Fo, il Premio Nobel, il Teatro italiano, che gli risponde. Ecco un Maestro: non un semplice “insegnante” ma un Artista che non ha paura di mettersi al tuo livello, una persona che ha voglia e modo di trasmetterti qualcosa. Al di là di questo Matthias non ha che belle parole per tutti i teatranti che investono nel teatro a costo di non guadagnare nulla (ecco, infatti) anche perché questo mestiere che facciamo non ha nulla a che fare con la competizione e la lotta.

Per te cos’è che facciamo?” Un gioco, un gioco felice.

MISTERO BUFFO | lacaduta

Per un futuro possibile (di Ga’ e Andrea Ibba Monni)

I teatri riaprono il 15 giugno!

Ma per fare cosa? Beh gli spettacoli che dovevano andare in scena in primavera e quelli nuovi che non vediamo l’ora di proporre al pubblico!

Ma chi ci andrà? Certo è che dopo due mesi e mezzo di lockdown forse la gente non muore dalla voglia di fare la fila (a un metro di distanza gli uni dagli altri!) per farsi misurare la febbre e per sedersi a vedere qualcosa (a un metro di distanza gli uni dagli altri!) con la mascherina addosso per tutto il tempo.

Che provvedimenti doveva prendere il Governo? Noi siamo teatranti, non uomini e donne di governo e per quanto la nostra arte sia politica non siamo in grado di dare suggerimenti in merito a una situazione inedita per tutti.

È difficile governare, ancor più difficile governare l’Italia, pressoché impossibile governare il Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo in Italia. Figuriamoci in piena emergenza sanitaria!

L’attenzione da parte del Governo (qualunque Governo, da quello statale a quello cittadino passando per Regione e Provincia, passati e presenti) non è mai stata delle migliori. Il teatro è un settore che non smuove grandi numeri a livello di elettorato, quindi non è certamente una priorità politica: eppure basterebbe conoscerlo un minimo per capire che come radicalizza l’anima il palcoscenico non lo fa nessuno.

L’arte ha un potere politico enorme ma la classe dirigente è totalmente impreparata in materia.

Il nostro obbiettivo è sempre stato il pubblico: vogliamo che la gente capisca, tocchi con mano una realtà diversa da quella che immagina, vogliamo abbattere il pregiudizio di cui soffre il nostro settore; ma finché ci si comporta da buffoni a corte si avrà quel tipo di considerazione.

ll teatro post-Covid sarà ancora più bello di prima perché se c’è una cosa che l’arte sa fare è reagire con vigore a una crisi: purtroppo o per fortuna resisteremo in pochi e questo non so se sia un bene o un male.

Stiamo valutando il da farsi, per ora consapevoli che è impossibile proporre uno spettacolo il 15 giugno perché dal 7 marzo siamo chiusi in casa impossibilitati a lavorare. Pare che dal 15 giugno si debbano tenere le distanze anche sul palco, misurare la temperatura a tutti, pubblico compreso. Per quali storie vale la pena fare questo rito sacrificale? Lavoriamo a livello creativo, cerchiamo di non farci cogliere impreparati: per troppo tempo abbiamo pensato al come, adesso è ora di pensare al perché. Vogliamo (da sempre) opportunità vere: non necessariamente soldi da investire ma anche solo spazi da utilizzare e soprattutto dignità lavorativa, rispetto.

Ga’ e Andrea Ibba Monni

Le voci degli artisti: Cristiana Cocco (di Andrea Ibba Monni)

Mi sono innamorato di Cristiana Cocco, ve lo dico. Il mio articolo doveva iniziare così: “Cristiana Cocco è un’attrice, una cantante, una scrittrice, una pittrice” perché questo è ciò che lei è per il resto del mondo (oltre al motivo per il quale la sto intervistando) ma invece lei la pensa diversamente.

Su Facebook la trovi col nome utente “Crstiana Cocco” e subito ti viene da pensare che non è una persona che perde tempo a scrivere il suo nome con tutte le lettere al posto giusto perché è troppo occupata a vivere. Un consiglio: aggiungila subito ai tuoi amici virtuali perché scrive cose bellissime ma la privacy dei suoi post non è pubblica ed è un peccato perdersele. Scrive soprattutto la notte dal momento che forse reputa che dormire sia un grosso spreco.

Un paio di settimane fa abbiamo pensato di rendere reale questa amicizia social dopo che per anni ci siamo annusationline: ci siamo scambiati il numero di telefono, di notte, dal momento che anche per me vivere è una fame insaziabile.

Le nostre prime telefonate sono state divertentissime: parliamo di arte e Piero Angela, di Diritti Civili e Topo Gigio, mischiamo l’alto e il basso ridendo a crepapelle e promettendoci che appena possibile ci vediamo per bere un bicchiere (o una bottiglia?) e magari anche far qualcosa insieme su un palcoscenico. Magari!

Affronto questa intervista col distacco che merita la situazione ma finisco col farmi sedurre, come già è successo prima su Facebook e poi al telefono: attenti perché sedurrà anche voi. Ecco cosa ci siamo detti.

ANDREA IBBA MONNI: Cosa si dice di te in giro? Cosa vorresti che si dicesse?

CRISTIANA COCCO: Senza falsa modestia ti dico che assolutamente non lo so. Vorrei che si dicesse che sono un’artista, vorrei che fosse indubbio il mio esserlo.

Se dovessi spiegare a un bambino di tre anni chi è un Artista che parole useresti?

Artista è chi ha una visione alternativa alla realtà proposta, è qualcuno che sa sognare.

Qual è la tua realtà?

La mia visione della realtà non è mai la stessa. Per me è ciò che traducono i miei occhi a seconda di ciò che provo. Certo è che amo la vita e che voglio sia un capolavoro.

Cosa significa fare l’artista in Sardegna?

Significa cercare di ricavare un proprio modo di esprimersi ed essere riconosciuti. Ovviamente da sardi in terra sarda, cioè da nemo propheta in patria, non è semplice. Ma è sempre così, ovunque: non si apprezza mai ciò che si ha.

Tu chi apprezzi nel luogo che consideri patria?

In Sardegna sono tanti: mi piace molto ciò che è esportabile e non regionalistico, non tanto il folklore: a me non mi piace particolarmente l’eccesso di sardità. Adoro quando l’arte diventa universale e non regionalistica.

Come identifichi un eccesso di sardità?

Per semplificare, banalizzando: attori sardi con cadenza e pittori che fanno solo immagini sarde… ma mi spiace anche il rinnegamento delle origini. Media res: via di mezzo, giusto compromesso.
Mi piacciono artisti come Pinuccio Sciola, Maria Carta e Paolo Fresu perché sono diventati internazionali pur nel loro grande omaggio alla terra sarda. Ecco, mi piace che avvenga questo come è avvenuto per Gramsci, Lussu, Satta, Dessì, Mannuzzu e nell’economia Soru e Grauso.

Ci sono due donne che sono state fondamentali nella tua vita, come accade a molti: tua madre e tua nonna.

Nonna Palma è la mia icona di libertà femminile, sfrontatezza, orgoglio, femminilità: giovanissima scappa da Nebida e a Cagliari conosce Emilio che ha 27 anni più di lei e lo sposa. Lui è figlio di Giovanni Balletto, discendente dalla famiglia genovese che commerciava il grano in Sardegna: è lui che ha aperto il famoso pastificio nel 1914. Insomma erano ricchissimi.

Ci pensi mai a cosa penserebbe della donna che sei diventata? Io penso spesso all’opinione dei miei nonni che di me han conosciuto solo la fanciullezza.

Credo che a nonna Palma non gliene fregasse molto e non gliene sarebbe fregato perché lei pensava solo a sé stessa: lei era una diva! Ha pensato pochissimo perfino ai suoi figli dal momento che alla morte di mio nonno ha girato tutta l’Italia spesso senza loro tra i piedi. Ha fatto una vita agiata e divertente, è andata ai party con gli attori celebri, alle terme… era una nonna molto particolare: parlava solo della sua bellezza ma faceva ridere da pazzi!

Ed era oggettivamente bella?

Sì, molto.

Sua figlia, tua madre Sesella Balletto alla quale somigli in maniera impressionante è stata una famosa pittrice (qui le sue opere)

Mia madre nasce a Cagliari nel 1939, battezzata Maria Giuseppa ma chiamata da sempre “Sesella” da mia nonna Palma. Sesella è la mia ispirazione costante, lei è al di fuori dei confini spazio temporali: madre e maestra, madre e figlia, donna di fede e di passioni estreme, pittura che si fa sangue, patimento, estasi, critica, amore. È stata una bambina molto curiosa, leggeva fino a notte tarda, dipingeva dai 5 anni d’età. Ha studiato in collegio ma dal collegio è scappata a 8 anni. Era simpatica, semplice e divertente. Voleva per sé la famiglia che non ha mai avuto: ha avuto sei figli e amato un solo uomo: mio padre Antonello che ha conosciuto a scuola. Se ne fregava dei beni materiali: amava Dio e Gesù ma ha cambiato tante religioni approfondendole tutte.

Mio padre Antonello era il figlio del libraio che ha fondato la famosa Libreria Cocco a Cagliari nel 1929, era intelligente e colto, molto sagace. I miei hanno avuto un rapporto difficile perché papà era freddo e duro. Io gli somiglio tantissimo perché ho il suo stesso cinismo e la sua identica ironia, sono irriverente come lui.

Credi che questa famiglia da romanzo, da fiction di Raiuno abbia tuttora una particolare influenza sulla tua arte o è stato solo il punto di partenza?

Totale. Ne sono intrisa: spesso i confini interiori tra me e mia madre si perdono, io sono lei, lei è dentro di me ma a differenza sua io ho molta più durezza, io sono cinica.

Come si è tradotto in arte, nella tua arte, il lutto per una presenza così determinante del tuo essere?

Lei mi guida, è dentro, mi conforta, mi spinge a diventare una vera artista nell’essenza più profonda: non necessariamente che si esplichi in qualcosa di concreto, mi spiego? Questa influenza si concretizza in termini di lettura della vita perché io la mia forma d’arte non l’ho ancora scelta: non sono un’attrice o una cantante o una scrittrice o una pittrice, mi esprimo nelle forme a disposizione.
Potrei scegliere anche di non fare nulla ma certo è che spesso ho delle urgenze narrative e le traduco in immagini, suoni, scrittura o altro di più materico e pratico.

Gli uomini della tua vita d’artista sono due: Fabio Marceddu e Antonello Murgia, ossia le due anime di “Teatro dallarmadio”, giusto?

Sì, assolutamente ma lo è anche Pasquale, il mio uomo che è sostegno reale anche nell’arte: mi ascolta, mi vive, mi sente profondamente e mi sostiene, si occupa della mia felicità.

Sembra quasi che tu sia il bellissimo risultato di almeno 5 persone: Palma, Sesella, Fabio, Antonello e Pasquale. Ma senza uno, due o senza tutti e cinque di loro chi/cosa/dove saresti?

Aggiungo alla lista mio padre, i miei fratelli e le mie sorelle e dico: non lo so davvero.

Ma sì, d’altra parte chi se ne importa? Vai benissimo così “Crstiana”!

Domani all'Exma teatro al femminile: si ride e si riflette con ...

Le voci degli artisti: Alberto Rizzi (di Andrea Ibba Monni)

Ogni giorno che ho passato in teatro mi sono sentito fortunato.”

Secondo l’autobiografia sbarazzina (che si può leggere qui) Alberto Rizzi fonda a 18 anni la casa di produzioni teatrali e cinematografiche Ippogrifo Produzioni dopo aver completato gli studi classici, poi se ne va a Milano a diplomarsi in regia cinematografica, poi a Roma a lavorare nel cinema ma torna a Verona per fare teatro. Si definisce attore per contingenza, regista per vocazione e scrittore per passione.

Mi son messo a studiare Alberto Rizzi dopo aver ospitato nel 2017 la sua compagnia in occasione della replica cagliaritana di “Sic transit gloria mundi” (qui il trailer) ma lui non l’ho mai incontrato né abbiamo mai parlato. Beh ho scoperto che siamo molto simili: pensiamo che Milano sia abbastanza brutta, riteniamo che le donne siano fondamentali nel nostro lavoro, crediamo nell’artigianato del nostro mestiere, viviamo l’arte ogni giorno tutto il giorno.

Le differenze? Io ho fatto il Nautico e non il Liceo (anche se so più di Sofocle che di effemeridi); a me piace da morire parlare mentre lui dice di essere abbastanza schivo. Inoltre lui è simpaticissimo.

Ecco la nostra conversazione:

ANDREA IBBA MONNI – Chiedo ovviamente all’artista Rizzi, non al giovane uomo (non mi permetterei mai di fare una domanda personale dal momento che in passato hai dichiarato “Se potessi vivere nascosto lo farei”): ora che siamo tutti fermi tu che fai? Come passi le tue giornate?

ALBERTO RIZZI – Continuo con la parte del mio lavoro che posso fare da casa, del resto in quanto regista e autore buona parte del mio lavoro si svolge anche alla scrivania. Comunque non sono rimasto fermo perché durante la quarantena ho creato e realizzato la smart serie “Memorie dalla quarantena” (trovate i fantastici video sulla loro pagina Facebook n.d.r.) per cui sono impegnato su questo e sulla progettazione anche se cerco di evitare la bulimia da lavoro: un po’ di pausa ci vuole, d’altronde questo periodo non è congeniale per scrivere in realtà.

Neppure un momento di smarrimento? Un sentirsi un po’ disorientato? 

Assolutamente sì. Anzi direi che la creatività è un processo che, almeno per quanto mi riguarda, ha bisogno di stimoli, di vita, di aria. Questo periodo così nebuloso è per me nemico della produttività. Sono anche disorientato. come molti del nostro settore perché il futuro è del tutto ignoto e incerto. 

Che ne pensi del polverone nato dalle dichiarazioni di Lucia Calamaro (queste)?

Non so di che parli.

Beato te! In sostanza la nostra pluripremiata e blasonatissima collega ha lanciato un anatema contro chi potrebbe (o vorrebbe) tradurre la pandemia in espressione teatrale.

Sinceramente spero che non ci sia un eccesso di spettacoli, di film e di romanzi che parlino della pandemia.

Che cos’è “un eccesso”, scusa?

Ho solo il timore che quando torneremo in teatro ci troveremo con 200 monologhi sul covid, 82 documentari sulla quarantena… una bulimia narrativa. Come dopo l’11 settembre quando la quantità di prodotto artistico su quell’argomento fu eccessiva. Spero invece che si riesca a parlare di altro, penso che ne avremmo bisogno in primis in quanto spettatori.

Ma se io ho voglia/bisogno di scriverlo e tu pure, come si fa? Siamo già in due. E se poi ne han voglia/bisogno pure tutti gli altri?

Bella domanda… non lo so. In questo caso parlo più da spettatore che da autore.

Una domanda pesante, banale ma che voglio proprio farti è: dove/come nascono i tuoi progetti artistici?

Domanda impegnativa. Ogni progetto nasce in modo diverso. A volte i progetti nascono come una scintilla nella testa, spesso anche solo un’immagine e o un tema di cui voglio parlare. Poi se ne stanno in cassetto a volte anche per anni, in attesa che il momento diventi propizio per sbucare fuori. Poi di solito è sempre qualcosa di esterno che li mette in moto: una necessità produttiva o distributiva o perché è il momento giusto per fare quello spettacolo.

Ti interroghi mai sul perché fai teatro?

A dire il vero raramente me lo domando. Lo vivo come un mestiere ed è l’unico che so fare. E poi non potrei rinunciare al divertimento nei camerini!

Hai dichiarato “io sono un regista, non faccio il regista” e anche in questo la pensiamo allo stesso modo. Ma  adesso ti faccio una domanda che odio mi si rivolga, ma chi se ne frega, facciamo un gioco, ragioniamo per assurdo: se non facessi arte cosa vorresti fare e cosa invece forse ti ritroveresti a fare?

Probabilmente se non facessi questo lavoro, teatro o cinema che sia, credo che studierei. Studiare mi piace un sacco. Non so se ti pagano per studiare ma tanto neanche con il mio mestiere si diventa ricchi. Insomma ho la vocazione alla precarietà. Forse dovrei puntare a fare in dentista… è che guardare tutto il giorno nelle bocche delle persone mi spaventerebbe.

Quindi precario fino alla morte ma con lo stomaco forte! Ogni volta che hai potuto hai sempre speso grandi paroloni per le altre due anime di Ippogrifo Produzioni: l’attrice Chiara Mascalzoni e l’organizzatrice Barbara Baldo. Elogi che per altro non posso che condividere avendoci lavorato seppur per poco nel 2018. Ciò che ti chiedo è: ma quindi la musa è femmina?

Barbara e Chiara sono le altre due anime di Ippogrifo, non le considero le mie muse: sono piuttosto le mie collaboratrici, le mie compagne di viaggio. Chiara è un’attrice di incredibile talento e generosità, lavoriamo insieme da 10 anni e non avrei potuto realizzare certi spettacoli se non con lei. Barbara è una straordinaria organizzatrice con qualità comunicative e umane sopra la media. Sono molto fortunato ad averle incontrate: ogni giorno mi ispirano a lavorare meglio. Forse è quello che fanno le muse. Allora sì sono le muse. E sono anche donne. Io mi sempre trovato meglio a lavorare con le donne, perché completano la mia visione che inevitabilmente è maschile. Siamo una famiglia: siamo come le famiglie di Paperopoli piene di fratelli, di cugini e di zii ma neanche una mamma e un papà… siamo Qui Quo e Qua. 

E come si tengono separate le dinamiche private da quelle lavorative?

Semplice: non le separiamo. Facciamo gli spettacoli come si fa una crostata in cucina andiamo in tournée come si fa in gita, ci vogliamo bene e lavoriamo insieme. Nel lavoro ci ritroviamo e ci rispecchiamo, negli spettacoli c’è sempre un po’ di noi. Ippogrifo è una casa e anche tutti quelli che lavorano con noi, attori e tecnici, li trattiamo come se fossero parte della famiglia.

Quanto è stato vero, pure per me e tutta Ferai nel 2017! Ultima domanda: che mi dici dell’ambiente artistico veronese? 

Eheheh!

Ma non è una risposta!

Non farmi sbilanciare…

Ma io voglio che ti sbilanci!

Eheheeh!

Ma non è una risposta! Senti, se non vuoi essere shady bitchy dimmi le cose buone e non quelle meno buone, ok? 

Verona è una città bellissima.

Non ci siamo lasciati così: l’ho fatto sbottonare su un gossip che ho giurato di non rivelare ma intendo ricattarlo: Rizzi, se Ippogrifo non torna a Cagliari vendo lo scoop! 

Andrea Ibba Monni

Ippogrifo Produzioni presenta: Memorie dalla quarantena - VERONA ...

Da sinistra: Barbara Baldo, Chiara Mascalzoni e Alberto Rizzi

Fonti: Ippogrifo Produzioni; Paperblog