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Le voci di Ferai: Andrea Oro

Ciao Andrea, come è iniziata la tua passione per il teatro?

Quando ero poco più che un bambino alla RAI passavano le commedie di Eduardo De Filippo e le ho guardate tutte, da lì è iniziata la mia voglia di fare teatro. Poi nel 2005 ho provato a fare un corso di teatro con una compagnia di Cagliari. Mi ricordo che il primo giorno ci siamo riuniti tutti in platea e ad uno ad uno siamo saliti sul palco. Avevo sottolineato che non mi piaceva danzare e cosa mi hanno chiesto?

… di danzare, ovviamente!

Esatto, quindi me ne sono andato. Da lì non ne ho più voluto sentito parlare per 11 anni.

Però alla fine hai ricominciato…

Stavo in Australia nel 2014 e facevo il bracciante. Una notte ho sognato mio nonno che mi ha detto di tornare in Italia a fare quello che dovevo fare, ovvero il teatro e l’arte… Altrimenti non sarei mai tornato. Quindi mi sono iscritto ad Akroama e in quel periodo ho sentito parlare di Ferai tramite facebook da Andrea Ibba Monni, leggevo i suoi stati perché ero interessato alla scena e niente, lui diceva sempre che ‘chi non ha mai visto uno spettacolo di Ferai non può giudicare Ferai’ e mi sono incuriosito. In uno spettacolo (“Voci in una luce accecante” n.d.r.) c’era una bara vera in scena e sono rimasto folgorato, mi sono detto ‘ora voglio capire come funziona la compagnia’. Ho scritto ad Andrea e ho iniziato il mio primo laboratorio con la classe Odeon. Non me ne sono pentito.

Cos’è il teatro per te?

Diciamo che fa parte di una sorta di percorso spirituale tutto mio. Una vita fa ero quasi credente e feci un patto con colui che ritenevo essere “Dio”: gli chiesi di “regalarmi” una carriera artistica, non volevo altro. Da allora lavoro e faccio cose che cercano di portarmi in quella direzione, spesso sbagliando, inciampando ma comunque pare importi più il viaggio della destinazione, e fin’ora il viaggio è stato divertente e stimolante.

Progetti per il futuro e per coronare il tuo patto con Dio?

Continuare a fare quello che faccio, mettermi al passo con teatro e musica, creare e interpretare spettacoli nuovi che abbiano qualcosa da raccontare. Se non ho qualcosa da raccontare sto zitto. Comunicare tramite il teatro, che è la forma d’arte più completa, ha a che fare con tutte le forme d’arte.

Ecco, e riguardo le altre forme di espressione artistiche?

Beh riguardo l’arte contemporanea il panorama è molto ampio. Mi piace molto l’iperrealismo nella pittura, mi hanno insegnato che la tecnica è uno strumento importantissimo per esprimere ciò che si vuole. Mi piace molto Saturno Buttò, Lucien Freud, Francis Bacon, mi piace chi ha qualcosa da dire, non mi piace il pane carasau appeso, detesto chi imita senza innovare e chi pensa che l’Arte debba essere “carina”. Se è carina somiglia ad un centrino della nonna, è bello da vedere, sta bene in salotto ma non aggiunge molto alla discussione pubblica, e, fra le altre cose, penso che l’Arte in generale debba creare dibattito, suscitare domande e stimolare punti di vista differenti rispetto alla “media”.

Il tuo personaggio preferito tra quelli che hai interpretato?

Non ce l’ho un personaggio preferito… oh si ce l’ho, l’Omino di burro dello spettacolo “Dorra”. Un morto, un viaggiatore, sta facendo un viaggio nell’aldilà e si trova a fare i conti con i suoi peccati più gravi e si redime in un certo modo. Un viaggio dantesco, o perlomeno, questa è la mia idea dello spettacolo.

Roberta Mossa

 

La mia Ferai – prima parte (di Andrea Ibba Monni)

Per sostenere la raccolta fondi a favore di Ferai Teatro in piena emergenza Covid ho registrato frettolosamente un video di tre minuti (questo qui) in cui ho cercato di contenere le mie emozioni dal momento che non sono riuscito a contenere capelli e occhiaie. Per cui eccomi qui: pettinatissimo e con un incarnato perfetto (auch! peccato non possiate vedermi eh!) ma col cuore libero da ogni ritegno. Signore e signori questa è la versione del tutto personale e inevitabilmente sentimentale di come e quando è nata Ferai Teatro nel 2007, scritta di getto, spontaneamente e come se non l’avessi già raccontata mille volte: ma questa è stata la mia prima (e fino ad oggi unica) svolta epocale di vita. Se non fosse successo tutto quel che sto per raccontarvi forse ora sarei un mediocre giornalista televisivo alla disperata ricerca del modo di partecipare a un reality qualunque.

Nel novembre del 2005 il grande Pierfranco Zappareddu mi taglia fuori dalla produzione “Nei sensi la vita” e ci resto così male che non lo sento per i sei mesi successivi finché leggo sul giornale che il suo nuovo spettacolo era stato “rimandato”. Lo chiamo, gli lascio un messaggio in segreteria in cui gli dico “se serve son qui” sentendomi Bruce Wayne che scruta il cielo di Gotham City. Una settimana dopo sono sul palco del Teatro delle Saline Akroama protagonista di “Che tu sia per me il coltello”.

Tra il pubblico un’ex attrice di Zappareddu: lei evidentemente più permalosa di me dato che non lo sentiva da vent’anni e proprio quella volta era tornata da lui. Questa ex attrice ora aveva velleità registiche e una produzione in ballo col Teatro Alkestis (tenete bene in mente questo nome) e voleva che io partecipassi al progetto. Così è stato: va in scena “Voci nel buio” nella cui produzione c’era un ragazzo di vent’anni, Ga’.

Da lì a poco ci ritroviamo a chiacchierare a lungo, decidiamo di vederci il giorno dopo e di andare in spiaggia a finire la conversazione: era l’8 luglio 2007 e per otto ore non facciamo altro che parlare stesi sulla sabbia l’uno accanto all’altro. Il giorno dopo la mia guancia destra e la sua sinistra presentano ustioni importanti, letteralmente: eravamo deturpati ma innamorati.

Ferai nasce praticamente subito: lui sta scrivendo una tesi per il DAMS di Bologna sul Baratto Teatrale dell’Odin Teatret, io lo porto da Zappareddu che si è formato in Danimarca con Eugenio Barba e che ha portato il Baratto in Sardegna. Ovviamente Pierfranco non se lo lascia scappare e insieme facciamo “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” ma questa è un’altra storia meravigliosa.

Stanchi di fare spettacoli d’altri? Forse. Più che altro con una gran voglia di fare cose nostre gli offro di partecipare come insegnante al mio laboratorio presso l’oratorio della Chiesa di Santa Lucia (ne parlerò in seguito) e scopro la generosità e la passione di un’anima più che bella. Va be’ avete capito che per me lui è tutto.

Abbiamo conosciuto la fame, la nostra spesa settimanale non superava mai i 10 euro (grazie ai migliori discount a disposizione), ci facevamo invitare spesso alla tavola di sua sorella Consuelo con una scusa o con l’altra per mangiare qualcosa di buono, lui faceva volantinaggio e ripetizioni di inglese, io facevo ripetizioni di qualunque materia (e diamine se li facevo sgobbare quegli asinelli!) ma soprattutto insieme facevamo teatro: “Sangue d’angelo” ed “Air can hurt you” i nostri primi lavori insieme.

Di seguito il dialogo accaduto per la scelta del nome della neonata compagnia:

IO – Come ci chiamiamo? Ci serve un nome!

GA’ – I nomi devono portare fortuna, dice Pierfranco…

IO – Il nome del primo spettacolo dell’Odin?

GA’ – Uhm, troppo cacofonico “Ornitofilene”

IO – Il secondo? Oddio che difficile “Min fars hus”

GA’ – Ma il terzo si chiama “Ferai

Eccoci, siamo nati. E ora volevamo fare la storia: la nostra personale, vera, lunga, tortuosa e perché no, magari quella dei libri di storia. Stiamo puntando alto? E allora miriamo alle stelle e ai pianeti se il cielo non basterà.

La storia continuerà.

Andrea Ibba Monni

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