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Casa Ferai: spettacoli di febbraio

Heimat - Mostra e materiali didattici - Goethe-Institut Italien

La scuola di recitazione di Ferai Teatro condotta da Ga’ e Andrea Ibba Monni va in scena con gli esiti scenici delle classi in un calendario fitto di spettacoli adatti a tutte le età.

Gli spettacoli si svolgeranno presso la Silvery Fox Factory in via Dolcetta 12 a Cagliari.

Il tema di questa rassegna è la casa intesa come luogo non-luogo del cuore e come psiche umana (nel caso di Alice di Carroll).

Il biglietto di ogni spettacolo costa 6 euro e si può prenotare al 3755789748 tramite WhatsApp, Telegram o SMS.

Ecco il calendario di spettacoli:

  • giovedì 2 febbraio ore 19:00 “Haus”; ore 20:30 “Domus”;
  • venerdì 3 febbraio ore 19:30 “Heimat”;
  • sabato 4 febbraio ore 19:00 “Alice nel paese delle meraviglie”; ore 20:30 “Alice attraverso lo specchio”;
  • domenica 5 febbraio ore 18:00 “Alice”; ore 20:00 “Hūs”.
  • giovedì 23 febbraio ore 19:00 “Hūs”; ore 20:30 “Haus”;
  • venerdì 22 febbraio ore 19:30 “Heimat”;
  • sabato 25 febbraio ore 19:00 “Alice nel paese delle meraviglie”; ore 20:30 “Alice attraverso lo specchio”;
  • domenica 26 febbraio ore 18:00 “Alice”; ore 20:00 “Domus”.

Le voci degli artisti: Roberta Locci (di Ga’)

Roberta Locci è attrice, insegnante di recitazione, drammaturga, regista e aiuto-regista, ha una carriera dedicata alla formazione, alla ricerca – come dice lei stessa – non finalizzate a un punto di vista assoluto ma sempre in ascolto di un limite, uno sguardo diretto alle possibilità della ricerca. Nel curriculum di Roberta troviamo nomi celebri, da Claudia Castellucci, Else Marie Laukvik dell’Odin Teatret, Sainkho Namchylak, fino a Zigmunt Molik e questo solo per citare in modo riduttivo alcuni dei tanti, solo per farci l’idea di un’artista che in quanto tale non ha mai rinunciato alla formazione e al confronto continuo con realtà esterne e il cui lavoro ultimamente è direzionato particolarmente alla formazione dei più giovani (anagraficamente parlando) vediamo in che modo, nella nostra intervista.

GA’: Bene, come sai l’intervista verrà pubblicata su OFF il magazine online di Ferai Teatro e come sai ti ho promesso un’intervista assolutamente non-pretestuosa, ma partiamo da una domanda abbastanza pretestuosa per scongiurare il tutto, e la domanda è: Chi è Roberta Locci? Dovessi rispondere io per quel che so, ci sarebbero molte risposte diverse, tanti ambiti, la tua risposta invece… è ?

ROBERTA LOCCI: La risposta è credo semplice: sono quello che vedi tu, quello che vedono gli altri o ciò che non sempre si vede ma che in un modo o nell’altro si manifesta.

Ciò che non si vede, ma in qualche modo si manifesta, potrebbe sembrare un tema artistico che ti è caro più di altri? O sbaglio? Personalmente per esempio mi affascina il lato immateriale delle arti, musica, pittura astratta, arte concettuale in genere, è così anche per te? O … meno?

Sì direi di sì anche se non è assoluto, a volte trovo fascino e bellezza dove non avrei mai detto di poter trovare

Assolutamente, Zappareddu ad esempio (e tanti altri) affermava che “se ti prende, se ti è emoziona” è sempre “primo teatro” che sia uno spettacolo performativo e tecnologico o che sia il più tradizionale Amleto russo. Andando su cose attuali, come stai passando questo periodo, mi fai una sintesi alla russa di come hai passato/passi da artista questa quarantena?

Mi sono FERMATA. Sono sospesa, non so come spiegarti il mio stato, è come se avessi bisogno di stare immobile a guardare. Leggo, guardo film, imparo a cucire, e faccio la badante provvisoria.

Saper cucire è utile in mille occasioni. La badante provvisoria? Dimmi dimmi

La badante è proprio un’esperienza, ho uno zio prete e una zia zitella che vivono insieme e sono entrambi molto vecchi. In questo periodo sono stati “abbandonati” dalla signora che si occupava di loro. Ora ci vado io un giorno sì e uno no. Occuparsi di due corpi fragili e inermi è toccante. Gioco a palletta con lo zio e faccio dipingere la zia. Un mondo sospeso anche il loro.

Un’esperienza, decisamente. A me capita che, avendo più tempo, che oltre allo studio personale, ci sia anche uno strano ascolto, un ascolto diverso della creatività, a te sta capitando? Sentire che ci sono idee nell’aria, che anche se sei ferma c’è qualcosa che cova da qualche parte, oppure è solo un “ferma ferma ferma”?

Per quanto riguarda l’ascolto di ciò che accade è confuso. Mi ritrovo a volte infastidita da alcune idee di “ripresa”, ma la mia testa non è ferma.

Senti, mi racconti, così come ti viene un’esperienza artistica che ti ha segnata, ma che non rifaresti e una che invece rifaresti anche adesso.

Un’esperienza che mi ha segnata… Ora mi/ti spiazzo. Il lavoro con la scuola Meucci lo scorso anno: un lavoro laboratoriale difficilissimo ma che mi ha fatto capire di cosa mi voglio occupare. Ormai da anni sono proiettata al lavoro con e per i giovani e giovanissimi. Scontrarmi con una realtà giovanile così complicata ha risvegliato in me la voglia di cambiare il mondo. Quella che ti spinge verso il processo artistico, la voglia di sporcarti le mani, senza patine, senza voler mostrare, con onestà profonda, intima. Lavorare per dare uno strumento in mano ad altri “di poter dire” per poter esistere fuori dall’etichetta comune. Ecco un po’ questo, l’esperienza artistica che non rifarei invece non te la dico!

Posso almeno immaginarla? Forse posso.

Beh, hai scelta. Scherzo!

Per concludere, visto che il tempo è poco, ti chiedo proprio questo, il tuo prossimo lavoro quindi sarà orientato in tal senso, aldilà che ora siamo fermi, ma la testa no, l’obiettivo è rilavorare con giovani con cui studiare questi strumenti o prenderai qualcosa anche “per te” per un tuo lavoro in solitaria o in compagnia?

Beh lo sguardo è in quella direzione ma non è assoluto. Uso il termine sguardo non a caso. È il suo limite ciò che mi interessa. Quello che di solito non vediamo perché impegnati a mettere a fuoco ciò che ci appare come immagine principale, in fondo qualsiasi progetto affronterò ruoterà sempre sugli stessi concetti. Io lavoro sempre sulle stesse cose in fondo.

Il Teatro racconta le cose della vita, limitate e sempre quelle, ma appunto, non è il concetto, è probabilmente il come, è il limite, lo sguardo di cui parli ciò che fa dire “ricercare ha senso.” Io direi che siamo stati bravissimi a stare nei brevi tempi a disposizione, spero che parleremo dei reciproci “sguardi” presto di persona, anzi, non presto: ma nel tempo giusto.

GA’

Le voci di Ferai: Giulia Maoddi

  1. L’intervista di oggi ha per protagonista Giulia Maoddi, attrice, performer e burocrate di Ferai Teatro. Giulia è la mia partner in crime dal 2012, l’ho conosciuta proprio grazie a Ferai e da allora è diventata una delle persone più importanti della mia vita. Giulia è di poche parole, tra poco leggerete la auto-presentazione più breve della storia (mezza riga). Una volta io e lei siamo state in radio per un’intervista su un nostro progetto e lei è diventata un pezzo di legno, non ha spiccicato parola se non per dire ripetutamente che eravamo “due incoscienti”, ridendo. Quindi, ecco a voi: Giulia Maoddi! Continue reading Le voci di Ferai: Giulia Maoddi

La mia Ferai – quarta parte (di Andrea Ibba Monni)

Nel 2014 accade qualcosa: iniziamo a trovarci a disagio in un posto che non ci apparteneva del tutto. È l’anno in cui nascono i primi problemi con la gestione dello spazio in via Ada Negri, l’anno in cui proviamo a collaborare con una scuola di danza ma capiamo che dobbiamo assumerci tutte le responsabilità e firmare ogni errore, ogni fallimento solo col nostro nome.

Troviamo subito uno spazio: un seminterrato di quasi 300 mq in via Eroi d’Italia a Pirri, Cagliari; davanti un ampio parcheggio, sopra un esercizio commerciale sfitto; il posto è caldo d’inverno e fresco d’estate (sì: è umido) ed economicamente possiamo provarci. Andiamo via da via Ada Negri e dalla scuola di danza in punta di piedi, senza polemiche e con molta gioia ma da li a poco inizio a rendermi conto di quanto fosse importante il passo. Fortunatamente Ga’ è sempre presente a tenermi coi piedi per terra e passo dopo passo iniziamo a ingranare.

Inauguriamo lo spazio con due delle tre giornate del Baratto Teatrale “Zoi” (100 performance in tre giorni) ma in via Eroi d’Italia, al Ferai Teatro Off sono soprattutto gli anni degli eventi natalizi per bambini, gli anni dei grandi successi come “I monologhi della Vagina” e “Cuore di Tenebra”. La nostra scuola si articola in quattro classi: Odeon, Drury Lane, La Fenice e Kammerspiele e tentiamo l’esperimento della classe di commedia musicale “Ferai Singing” che dura due anni.

E arrivano, tra i tantissimi, due membri di quello che sarà lo staff della compagnia a partire dal 2018: Roberta Plaisant e Andrea Mura.

Roberta Plaisant, negli anni ‘70 era una timida bambina che sognava di diventare un’attrice. Il teatro è per lei mezzo col quale esprimersi e creare empatia. Durante una sua performance sui tessuti aerei conosce Ga’: comincia così, nel 2013, la sua esperienza con Ferai con cui porta in scena “I Monologhi della Vagina: Donne con la D Maiuscola” e “La dolce morte di Virginia G.”. In costante formazione nello staff Ferai è attrice e performer con l’obiettivo di contribuire a un teatro in cui abbattere le distanze fra pubblico e attori: un teatro “immersivo” in cui immergersi.

Andrea Mura classe 1983, vede il teatro come un modo per uscire dalla realtà quotidiana e una passione sempre più forte. Ha iniziato a recitare quasi per caso dopo aver partecipato ad una prova della classe Ferai/La Fenice. Nella compagnia è attore, membro dello staff informatico, regista e attore di “Vincenzo: l’uomo diventato Santo” e si sta formando nella parte tecnica luci. Il teatro del futuro per lui è di protesta, deve trattare argomenti scomodi e usa messaggi chiari e forti per arrivare alla gente.

 

Le voci di Ferai: Andrea Oro

Ciao Andrea, come è iniziata la tua passione per il teatro?

Quando ero poco più che un bambino alla RAI passavano le commedie di Eduardo De Filippo e le ho guardate tutte, da lì è iniziata la mia voglia di fare teatro. Poi nel 2005 ho provato a fare un corso di teatro con una compagnia di Cagliari. Mi ricordo che il primo giorno ci siamo riuniti tutti in platea e ad uno ad uno siamo saliti sul palco. Avevo sottolineato che non mi piaceva danzare e cosa mi hanno chiesto?

… di danzare, ovviamente!

Esatto, quindi me ne sono andato. Da lì non ne ho più voluto sentito parlare per 11 anni.

Però alla fine hai ricominciato…

Stavo in Australia nel 2014 e facevo il bracciante. Una notte ho sognato mio nonno che mi ha detto di tornare in Italia a fare quello che dovevo fare, ovvero il teatro e l’arte… Altrimenti non sarei mai tornato. Quindi mi sono iscritto ad Akroama e in quel periodo ho sentito parlare di Ferai tramite facebook da Andrea Ibba Monni, leggevo i suoi stati perché ero interessato alla scena e niente, lui diceva sempre che ‘chi non ha mai visto uno spettacolo di Ferai non può giudicare Ferai’ e mi sono incuriosito. In uno spettacolo (“Voci in una luce accecante” n.d.r.) c’era una bara vera in scena e sono rimasto folgorato, mi sono detto ‘ora voglio capire come funziona la compagnia’. Ho scritto ad Andrea e ho iniziato il mio primo laboratorio con la classe Odeon. Non me ne sono pentito.

Cos’è il teatro per te?

Diciamo che fa parte di una sorta di percorso spirituale tutto mio. Una vita fa ero quasi credente e feci un patto con colui che ritenevo essere “Dio”: gli chiesi di “regalarmi” una carriera artistica, non volevo altro. Da allora lavoro e faccio cose che cercano di portarmi in quella direzione, spesso sbagliando, inciampando ma comunque pare importi più il viaggio della destinazione, e fin’ora il viaggio è stato divertente e stimolante.

Progetti per il futuro e per coronare il tuo patto con Dio?

Continuare a fare quello che faccio, mettermi al passo con teatro e musica, creare e interpretare spettacoli nuovi che abbiano qualcosa da raccontare. Se non ho qualcosa da raccontare sto zitto. Comunicare tramite il teatro, che è la forma d’arte più completa, ha a che fare con tutte le forme d’arte.

Ecco, e riguardo le altre forme di espressione artistiche?

Beh riguardo l’arte contemporanea il panorama è molto ampio. Mi piace molto l’iperrealismo nella pittura, mi hanno insegnato che la tecnica è uno strumento importantissimo per esprimere ciò che si vuole. Mi piace molto Saturno Buttò, Lucien Freud, Francis Bacon, mi piace chi ha qualcosa da dire, non mi piace il pane carasau appeso, detesto chi imita senza innovare e chi pensa che l’Arte debba essere “carina”. Se è carina somiglia ad un centrino della nonna, è bello da vedere, sta bene in salotto ma non aggiunge molto alla discussione pubblica, e, fra le altre cose, penso che l’Arte in generale debba creare dibattito, suscitare domande e stimolare punti di vista differenti rispetto alla “media”.

Il tuo personaggio preferito tra quelli che hai interpretato?

Non ce l’ho un personaggio preferito… oh si ce l’ho, l’Omino di burro dello spettacolo “Dorra”. Un morto, un viaggiatore, sta facendo un viaggio nell’aldilà e si trova a fare i conti con i suoi peccati più gravi e si redime in un certo modo. Un viaggio dantesco, o perlomeno, questa è la mia idea dello spettacolo.

Roberta Mossa

 

Perché e come ho iniziato a fare teatro (di Ilenia Cugis)

2008: Air Can Hurt You

È il 2008, lo spettacolo di baratto teatrale si intitola “Air Can Hurt You”, ed è il momento esatto in cui mi innamoro del teatro.

È notte. Sono in macchina con un’amica di mia madre. Guida nel buio delle strade strette della campagna di Flumini di Quartu. La macchina si ferma sulla strada. Scendo.

C’è un grandissimo cancello di metallo, grigio. Ga’ è vestito di nero, ha un cappello in mano, dal quale fa pescare alle persone un pezzo di cartoncino. Sul mio cartoncino c’è un segno di pittura blu. Vengo separata dalle persone con cui sono arrivata e insieme a qualche estraneo attraverso un giardino e arrivo in una stanza, abbastanza grande. C’è una televisione. C’è un ragazzo (Enrico Cara n.d.r.), di spalle, con ali da angelo e la schiena scoperta. La sua ombra è proiettata sul muro.

Parte un video. Le immagini sono mischiate, sovrapposte, i temi sono tanti, frammentati, iniziano si fermano ricominciano. Il video è un sogno. Poi finisce.

Siamo condotti all’esterno. Vedo che nelle altre stanze accadono altre cose. Io sono sul porticato. Un’attrice, Andreina, ha un enorme blocco di rami secchi in mano. Sembra respingere e scacciare dei fantasmi dal suo passato.

Poi, inizia qualcosa.

Che solo più tardi, scoprirò essere la “Stanza Rossa”.

Ci sono Andrea Ibba Monni e un’attrice che non conosco, che non ho mai conosciuto. Lei è mora. Ed è molto bella (Barbara Piu n.d.r.).

Il pezzo è una lotta lenta e veloce per l’amore, è violenza e tenerezza, la Stanza Rossa è complessa, complessa come la passione, la rabbia, l’affetto, la gelosia. I loro corpi si trovano e non si trovano. Lei fugge e si rifugia, lui la cerca, la prende, la perde.

Per come lo ricordo io, alla fine vincono la violenza e la gelosia. Eppure Andrea canta, perché l’amore c’è ancora.

Inizia una musica. La sento ancora dentro le orecchie, 12 anni dopo.

Restiamo nel portico, mi pare che tutto il pubblico si sia ora ricongiunto.

La musica è forte e una luce fievole si muove da dietro la casa. Sono tre candele e un ragazzo, Giacomo (Peddis n.d.r.), le tiene davanti a sé. Arriva circa davanti al portico, lo vediamo tutti. Lo vediamo contorcersi mentre le candele illuminano e scaldano punti diversi del suo corpo nudo, magro, allenato, si muove e ad ogni movimento cambia forma, il suo corpo in eterna danza con le candele.

La cera finisce di bruciare e non c’è più musica.

Sono certa che siamo tutto il pubblico ora, insieme, veniamo condotti giù dal portico, camminiamo verso il lato destro della casa, siamo nel retro del giardino. C’è qualche albero e una luce lieve. Ed è lì, sul pavimento di terra, erba e foglie secche, sui rami caduti, in mezzo a spine e cespugli, è lì, che appare Nastas’ja Filippovna.

Con le sue maschere. Con le sue gambe. Con la sua voce. Quella voce che ve lo assicuro posso sentirla nelle orecchie. Ha anche un libro in mano. Un ombrello. Teli. Mi innamoro di Nastas’ja, piango, sono scossa, ho i brividi, è il momento esatto in cui capisco che cosa significhi il teatro per Ferai. Quando il pezzo finisce il mio cuore è assetato, forse famelico, dice: “ancora, ancora”.

L’ultima scena è La Cena.

Ci sono adesso tutti gli attori intorno ad una tavola. Mangiano ravioli. Giocano con il cibo. Con le posate. Sono pericolosi coi coltelli. Si sfidano. Non vogliono mangiare, ci sono infiniti spettri di disturbi alimentari e relazioni parentali malate.

Alla fine, un primo di loro, si accorge che manca qualcuno, o qualcosa.

“Laura (Solla n.d.r.), anche l’aria può ferirti”.

La cena si scompone e gli attori cercano disperatamente ciò che manca, per tutto il grande giardino. Noi li seguiamo. La ricerca termina al cancello. Gli attori sono tutti lì, con gli occhi verso il cielo, nella notte buia.

Infine, questo è ciò che ricorda la mia mente, gli attori sono scomparsi. Nel nulla. Siamo rimasti solo noi, spettatori, davanti al cancello grigio. Insieme a Ga’, vestito di nero, con il suo grande cappello, in testa. Che ci mandava via, a casa.

“Ancora, ancora”, ripete il mio cuore estremamente confuso e affamato. Due mesi dopo ho frequentato la mia prima lezione di teatro.

Ilenia Cugis

RAPSODIA:STAMINA – frammenti (di Ilenia Cugis)

Nel silenzio della Silvery Fox Factory c’erano rumori di passi lenti e suole di scarpe che scricchiolano.

C’erano gli occhi di Andrea Ibba Monni che guarda dritto davanti a sé, sono stampati nella mia memoria.

Insieme al rito della notte.

Mentre la luce si rifletteva sulla grotta bianca di Ga’.

Ga’, ballava; davanti a lui c’era un mio amico, che piangeva. Guardava Ga’ che ballava per lui, e piangeva.

Mi fa sorridere.

C’era un sacco di cibo all’ingresso. Finché l’abbiamo rimosso. Tante tantissime banane. Banane banane e banane. Le ho portate a casa.

Arrivavo sempre di notte alla factory, quando finivo di lavorare. La luce ovattata, mi cullava. Una notte ho sentito il suono di una sedia che veniva spostata da una ragazza del pubblico. Lei ha scritto qualcosa su un quaderno e l’ha passato ad Andrea, lui ha annuito e sorriso con gli occhi, perché aveva la bocca coperta col nastro. Molto lentamente e in maniera estremamente religiosa Andrea ha messo via i chicchi di riso. Ha preso le mani della ragazza davanti a lui. Si sono toccati.

Mi piaceva guardare i chicchi di riso.

Mi piaceva guardare le mani che si toccano.

Mi sono seduta davanti a Simone con una bacinella sulle gambe. Abbiamo lavato e strizzato e bagnato e strizzato.

Mi piaceva guardare le ragazze che lo aiutavano a cucire. Tutto, ovattato, nella notte, nel silenzio, nella calma apparente.

Una notte quando sono arrivata era quasi l’una. Era già giovedì. Erano rimasti tre performer per “Democratic Schism”. Davide, Ilaria, Francesca, così stanchi che avrei avuto voglia di abbracciarli. In movimento da quattro ore, rimasti solo in tre. I corpi sfiniti. Erano molto belli. A momenti mi incantavo a fissare una di loro tre. Poi l’altro, poi l’altra.

Andrea era in piedi.

Sentivo, non so perché, che stesse in piedi nel tentativo di dare tutta la sua energia ai tre performer e beh, dopo 4 giorni qui, dentro la Factory, uno l’energia se la sarebbe voluta centellinare, mentre Andrea la stava espandendo, voleva darla, voleva inondare lo spazio, l’aria era piena di energia calma e pacifica.

Quella stessa notte, più tardi, forse intorno alle due e mezza, ho visto Andrea e Ga’ che si guardavano. Quando sono tornata a casa ho mandato un messaggio ad una mia amica e ho scritto: penso che abbiano bisogno di toccarsi, di abbracciarsi.

Ho visto tre amiche, una per volta, aiutare Ga’ nella grotta bianca. Con grandi cappelli di carta di giornale. L’ho trovato divertente ogni giorno che è capitato. I grandi cappelli di carta di giornale. Nei momenti della mia giornata di lavoro, pensavo alla grotta bianca. “Chissà come sarà quando tornerò dentro la Factory”.

Chissà come sarà.

Vorrei parlarvi di RAPSODIA:STAMINA solo che non ci riesco, ho capito che non ve lo posso spiegare. Era necessario viverlo e per ogni spettatore è stato diverso.

Ho visto le persone piangere e ridere, senza apparente motivo. Ho visto sorrisi di cera e ne ho avuto addosso uno anche io, ma la cera si scioglie, il cuore batte, il sangue scorre.

Ho visto me stessa piangere e ridere, senza apparente motivo.

C’è stata tanta pace, tanto silenzio, tanta energia.

C’è stata la vita.

C’è stata la poesia.

C’è stata l’arte.

Come si può tentare di descrivere tutto questo a parole?

C’è stata la forza di volontà dell’artista.

Ilenia Cugis

E tu come memorizzi un copione?

Risultato immagini per memory

Di seguito alcuni metodi di memorizzazione di un copione da parte di qualche allievo del laboratorio di recitazione di Ferai Teatro. Li abbiamo riassunti, alcuni uniti perché tanto simili e con pochissime (ma importanti differenze). Va detto che ognuno ha il proprio personale modo di memorizzare una parte (o dovrebbe averlo) e che quindi vi riportiamo i vari modi, ognuno valido nella misura in cui va ovviamente bene per chi lo utilizza, cercando di evidenziarne sia i vantaggi ma anche gli eventuali punti deboli.

Dopo aver sottolineato, leggo e ripeto frase per frase, man mano che vado avanti con le frasi ripeto sempre dall’inizio aggiungendo la frase nuova. Se necessario sbircio dal foglio e ripeto finché non è più necessario il foglio, cercando nel tutto di concentrarmi sul senso di quello che dico. Questo è un metodo che ha come svantaggio il fatto che le battute finali son quelle che si provano di meno.

Registrazione. Utile per correggere articolazione, respirazione, dizione, difetti di pronuncia ma potrebbe risultare arido alla lunga a livello interpretativo.

Io leggo molte volte e poi provo a ripetere pezzo per pezzo. Lo faccio davanti allo specchio per aggiungere al monologo l’espressione del viso e per tenermi composta quando parlo. Il rischio è che il controllo delle espressioni del viso tenda a sconfinare nella regia del pezzo, ma è un rischio abbastanza remoto.

Leggo e ripeto, leggo e ripeto dividendole battute in frasi e concetti, cercando di capire e interpretare pienamente ciò che c’è scritto. Bisogna poi cercare di unire il tutto in modo omogeneo in modo da non avere troppi frammenti slegati tra loro.

– Come primo lavoro di memorizzazione visiva scrivo le battute prima delle mie e poi le mie. Come secondo step di memorizzazione visiva scrivo solo la parte finale delle battute prima delle mie e poi ancora le mie. Come terzo step registro il 1 punto e ascolto varie volte e poi registro il 2 punto e ascolto varie volte. Come ultimo passo registro tutte le battute degli altri personaggi e lascio lo spazio vuoto per recitare le mie con cesure, intenzione e qualità del personaggio.

– Registro in continuazione tutto il pezzo poi ogni frase con parole mancanti poi ripeto senza ascoltare. Il rischio è che in questa sorta di “quiz” si perda subito la parte interpretativa (la parte principale dell’obbiettivo da raggiungere)

Io accento e metto le cesure alle mie battute e poi leggo e ripeto più volte cercando di memorizzare gli accenti e le cesure. Dopo mi registro prima cercando di stare attenta solo alla dizione, e poi faccio un’altra registrazione di tutte le battute cercando di fare sia dizione che interpretazione. Poi mi ascolto e ripeto prima solo in dizione e poi aggiungendo l’interpretazione. L’ideale sarebbe rendere la dizione scontata e l’articolazione della parola una norma in modo tale da bruciare i tempi e finalmente non separare il buon uso della vocalità a un buon uso del corpo che la racchiude (è come dire che si separa l’uso di una gamba dall’altra).

Registro le scene in cui son presente recitando tutti i personaggi e mi riascolto. Poi registro la scena solo con le battute degli altri personaggi e lasciando un “buco” di silenzio per le mie battute, così quando riascolto attacco e do io la battuta. Ultimo step quando son diventata bravina: recito a voce alta tutte le battute, mie e degli altri. Un procedimento lungo e laborioso che però sicuramente rende sicuro lo stare in scena ed è un allenamento sotto tanti punti di vista che però non deve togliere nulla al proprio lavoro.

Obbligo mia madre a fare tutti i personaggi e ripeto le mie battute. Prima veloce senza interpretazione e poi con sempre più intenzione. Dipendere dagli altri è sicuramente rischioso, soprattutto se “gli altri” non sono colleghi. Ma l’immagine di una madre “obbligata” all’esercizio è molto divertente.

Non ho un vero e proprio metodo. Memorizzo manco fossero un mantra i finali di battuta prima delle mie, quasi come facessero parte della mia battuta, e li ripeto ripeto ripeto. Mi aiuta molto memorizzare studiando in simultanea il personaggio, trovando una voce, un’intenzione. Diciamo che più interpreto, più mi vien facile. Ma alla base c’è ripetere ripetere ripetere. Non avere un metodo è sempre rischioso, lasciare al caso e all’ispirazione la preparazione di un lavoro è sempre negativo soprattutto perché affidarsi solo all’interpretazione, all’intenzione e alla “voce” è troppo casuale, approssimativo.

Scandisco ogni sillaba di ogni parola della frase mentre ripeto in modo neutro, acquisita un po’ di memoria vado più liscio sempre neutro, acquisita più memoria ancora ripeto velocemente sempre neutro ma usando il corpo (gesti, spostamenti) per vedere che mi viene da fare istintivamente, ultima fase quando ho buona memoria provo la scena direttamente se ho vuoti rallento e sillabo o faccio movimenti a ritroso. Corpo e voce riuniti come dev’essere. Approccio lungo ma che dà certamente una gran sicurezza. Bisogna solo far sì che il gesto istintivo lasci poi spazio alla tecnica, al rigore e all’elasticità in sala prove davanti a chi cura la regia e spazio all’azione di chi sta in scena con noi.

Cerco di memorizzare anche le battute precedenti alle mie, non esattamente, ma il senso generale. Cerco sempre di capire l’intenzione del personaggio, in modo da vivermi la scena e non avere problemi di memoria. Capire cosa si sta dicendo e perché lo si dice è certamente indispensabile.

Evidenzio in giallo la mia parte poi evidenzio con colori diversi le battute prima delle mie, per cercare di memorizzare. Leggo e ripeto diverse volte, cercando di ripetere con il copione chiuso. La memoria visiva certamente aiuta parecchio, ma non basta dal momento che ci lascia dipendere troppo dalle altre persone e dalla loro memoria.

Leggo. Ripeto prima la battuta a mente. Cerco la/le parola/e chiave delle battute. Poi le provo. Se non mi convince cambio la parola chiave. Solo per memorizzare però perché poi nell’interpretazione normalmente le parole chiave si inter-scambiano.

È importante darsi appigli, soprattutto interpretativi. Ma dopo aver memorizzato il testo bisogna lasciare libera ed elastica l’interpretazione.

Risultato immagini per memory

Dire addio a un personaggio (di Roberta Mossa)

Una sensazione che non passa mai (anche dopo tanti anni di teatro) è la nostalgia del personaggio dopo la fine dello spettacolo: come se fosse un addio. E anche questa volta è andata così… ma partiamo dall’inizio.

Quest’anno avevo deciso di vincere un limite che sentivo di avere da molto tempo, la paura della carta bianca e della libertà creativa, quindi mi sono iscritta alla classe Abadia, il corso di teatro performativo di Ferai. È stato amore già dalla prima prova, le immagini e i suoni che ti arrivano senza pensarci su, la libertà della ricerca che non faceva più paura, anzi! Una bella esperienza, interessante e stimolante… Ma sentivo che mancava qualcosa.

Poi Ga’ e Andrea mi hanno chiesto se volevo partecipare allo spettacolo dell’Odeon (“Wonderful Oz”) per una sostituzione (un’allieva incasinata con un viaggio di studio non ci sarebbe stata nella data dello spettacolo). Classe nuova, persone nuove, un testo mai visto prima, scarse possibilità di successo…. Why not?!

Mi sono detta: “No va beh, non ce la posso fare. Ma potevano chiamare Giulia Maoddi, no? Io sono incasinata… poi mi conosco, faccio mille cose e non riesco a fare bene niente… e metti che trovo un lavoro nel frattempo? No, non se ne parla neanche. Ora lo dico a Ga.”

Cinque minuti dopo:

“Pronto Ga? Sì certo, molto volentieri. Sì, sì, assolutamente! No ma stai scherzando, che figata il mago di Oz, non vedo l’ora di farlo. Sì ok, ok va bene. Ci vediamo stasera. Anzi no, stasera non lo so, che mi sa che sono ancora a Sant’Antioco. Oh, ma dalla prossima prova ci sono eh, stai sicuro. Va bene, cià!”.

Perché? È semplice. È il fascino di un nuovo personaggio da conoscere, da interpretare, la curiosità di sapere chi è, come vede il mondo, sentire nuovi suoni, profumi, atmosfere… è la tentazione di affrontare una nuova sfida, il fascino dell’ignoto. Tutte le persone che fanno teatro sanno che è la parte più interessante. C’è tanta creatività nell’interpretare un personaggio all’interno di un copione. E in qualche minuto mi sono resa conto di quanto mi fosse mancato.

Arrivo alla prima prova con l’Odeon alla Silvery Fox Factory, in punta di piedi, con l’idea che andavo per fare le mie prove, restare concentrata il più possibile per non disturbare la concentrazione del gruppo e andarmene. Invece i miei compagni di scena mi hanno fatta sentire subito a mio agio e trascinata nel simpatico caos dell’Odeon. Non ci si prende troppo sul serio, si accettano tutti, il loro carattere e le loro paure, si può lavorare con i veterani e con chi è alla prima esperienza, con i giovani e con i meno giovani. In un percorso di laboratorio anche il lato umano è importante, e le persone ti sorprendono sempre, sia in negativo che in positivo. Ho lavorato in un clima molto inclusivo, col morale sempre alto, e così di prova in prova si è creato il mio caro Spaventapasseri senza cervello: convinto di essere stupido, solo perché ha scelto di vedere il mondo con la curiosità di un bambino, libero dagli schemi di comportamento precostituiti, libero dal suo ego, dai preconcetti, dall’idea dell’apparire di fronte agli altri. Sempre in cerca di nuove prospettive con cui guardare il mondo: a testa in giù, attraverso l’oliatore, con la lente di ingrandimento su qualsiasi cosa che attiri la sua attenzione. Disinteressato e senza calcolo nell’amicizia, pronto a conoscere nuove persone. Il cervello, ovviamente, lo aveva! È stato bello farlo vivere sul palco.

Dopo che sfuma l’adrenalina pura dello spettacolo, torna quella sensazione di nostalgia che non passa mai, neanche dopo anni di teatro, dopo che ci fai l’abitudine.

Roberta Mossa

L’odore del teatro

Appena apro gli occhi realizzo che è il 15 febbraio, mi viene da sorridere, ci siamo , mi sento bene, sono pronta. Poco dopo arriva Iris che esordisce: “Mamma oggi è il grande giorno, sono felice e non mi sento per niente agitata”.

Io e Iris abbiamo avuto la grande opportunità e il privilegio di frequentare la Classe Abadìa di Ferai Teatro insieme: un’avventura pazzesca, io e lei che nella vita di tutti i giorni abbiamo due ruoli per natura molto diversi, distanti, viviamo la vita con emozioni e problemi diversi ma che lì a teatro invece ci troviamo sullo stesso piano, a parlare degli stessi argomenti, pervase della le stesse emozioni, abbiamo lo stesso maestro, gli stessi compagni, ci rechiamo nello stesso luogo. Parità assoluta.

Il fantastico mondo dei grandi e Iris è assolutamente rapita da tutto ciò.

Le lezioni sono “fuori dagli schemi” e questo appaga la sua fantasia da bambina, per lei il teatro è un luogo dove tutto è ammesso quasi non ci fossero regole o perlomeno le “solite regole” a cui deve far fronte quotidianamente. Il suo entusiasmo cresce di volta in volta insieme al mio e il venerdì diventa l’obiettivo della settimana tanto da iniziare a contare i giorni che mancano al prossimo venerdì già subito dopo la lezione.

Per puro caso ci siamo trovate a teatro insieme, diventiamo più complici che mai frequentiamo assiduamente senza mancare neanche ad una lezione nonostante io lavori, viva e faccia teatro in tre città molto distanti tra loro, mi faccio in quattro per non mancare di venerdì a lezione perché si sta troppo bene, è un momento per noi, fuori da tutto e tutti, ci fa bene, e quando usciamo ci sentiamo cariche e pronte a tornare con più serenità alla solita routine quotidiana.

Abadìa sa di buono e ha il profumo di una torta appena sfornata, quel profumo dolce che ti rassicura e ti fa sentire a casa! Preparo gli abiti di scena e tutto il materiale che occorre, ci siamo, il Teatro Massimo mi sembra enorme, è strano entrare da performer e non da spettatore , il mio primo vero palcoscenico, non ho l’ansia , mi sento inondata da sentimenti buoni, sono serena.

Sento ancora vivo l’odore di quella giornata, le creme, i trucchi , i miei compagni , anche loro profumo, sono tutti bellissimi, felici, non so chi siano fuori da lì, non so cosa fanno nella vita: abbiamo tutti vite diverse ma siamo tutti uguali, parliamo la stessa lingua del teatro e viviamo le stesse emozioni.

I trolley, le scarpe i vestiti di scena , è tutto a fantastico , i brillantini di Francesco , il fondotinta di Ennas, l’odore del parquet del palco, sento ancora vivissimi tutti questi odori nel naso, la mano di Fabrizio sulla mia spalla, la super simpatia di Dreh, il pellicciotto di Benedetta, quanti odori e quante emozioni!!!

Mentre aiuto Iris a prepararsi mi confessa di essere agitata , ma si consola da sola consapevole che la prima volta “è normale”, la bacio con tenerezza, mi sembra grande e sono orgogliosa di lei. Sul palco Ga’ da le ultime indicazioni, mi rassicura vederlo lì, mi trasmette tranquillità, ora a distanza di 4 mesi capisco cosa prova Iris quando dice di “amare” Ga’, certo lo esprime con questa parola impropria ma io capisco benissimo che cosa le trasmette, è lui che ci aperto le porte di questo nuovo stimolante mondo, e l’ha fatto con una dolcezza infinita, ci ha accolto, ha pazientato per la nostra inesperienza e ancora ha dovuto adattare le lezioni a misura di Iris che per quanto sia una bimba matura ha pur sempre 7 anni. È riuscito a fare tutto questo con la sua spontaneità, la sua pacatezza e la sua professionalità ci hanno fatto amare ancora di più il teatro e da allora io e Iris non riusciamo più a farne a meno.

Lo spettacolo è un tripudio di emozioni, mi sento bene, appagata, son pervasa da un’aura che mi fa sentire quasi un Dio, penso che è andato tutto bene, il pubblico applaude, Ga’ ci ringrazia.

Chiuso il sipario avverto una dolce sensazione di leggerezza e quasi di malinconia, sento che un ciclo è finito e nonostante sia felicissima sento già la nostalgia di quegli odori. Ci confrontiamo con i compagni, in viso hanno una luce diversa, un sorriso più disteso, sento una forte complicità che ci unisce, quella complicità di chi ha fatto un lungo viaggio e vissuto tante avventure insieme.

Il camerino ora profumo di salviette struccanti, ma io sento ancora forte forte l’odore delle emozioni, quelle vere quelle pure, quelle che sanno di un buon sentimento, un sentimento che non so neanche raccontare perché gli odori sono solo da provare, come il teatro.

Cinzia Zuncheddu