Archivi tag: Arte

Le voci degli artisti: Cristiana Cocco (di Andrea Ibba Monni)

Mi sono innamorato di Cristiana Cocco, ve lo dico. Il mio articolo doveva iniziare così: “Cristiana Cocco è un’attrice, una cantante, una scrittrice, una pittrice” perché questo è ciò che lei è per il resto del mondo (oltre al motivo per il quale la sto intervistando) ma invece lei la pensa diversamente.

Su Facebook la trovi col nome utente “Crstiana Cocco” e subito ti viene da pensare che non è una persona che perde tempo a scrivere il suo nome con tutte le lettere al posto giusto perché è troppo occupata a vivere. Un consiglio: aggiungila subito ai tuoi amici virtuali perché scrive cose bellissime ma la privacy dei suoi post non è pubblica ed è un peccato perdersele. Scrive soprattutto la notte dal momento che forse reputa che dormire sia un grosso spreco.

Un paio di settimane fa abbiamo pensato di rendere reale questa amicizia social dopo che per anni ci siamo annusationline: ci siamo scambiati il numero di telefono, di notte, dal momento che anche per me vivere è una fame insaziabile.

Le nostre prime telefonate sono state divertentissime: parliamo di arte e Piero Angela, di Diritti Civili e Topo Gigio, mischiamo l’alto e il basso ridendo a crepapelle e promettendoci che appena possibile ci vediamo per bere un bicchiere (o una bottiglia?) e magari anche far qualcosa insieme su un palcoscenico. Magari!

Affronto questa intervista col distacco che merita la situazione ma finisco col farmi sedurre, come già è successo prima su Facebook e poi al telefono: attenti perché sedurrà anche voi. Ecco cosa ci siamo detti.

ANDREA IBBA MONNI: Cosa si dice di te in giro? Cosa vorresti che si dicesse?

CRISTIANA COCCO: Senza falsa modestia ti dico che assolutamente non lo so. Vorrei che si dicesse che sono un’artista, vorrei che fosse indubbio il mio esserlo.

Se dovessi spiegare a un bambino di tre anni chi è un Artista che parole useresti?

Artista è chi ha una visione alternativa alla realtà proposta, è qualcuno che sa sognare.

Qual è la tua realtà?

La mia visione della realtà non è mai la stessa. Per me è ciò che traducono i miei occhi a seconda di ciò che provo. Certo è che amo la vita e che voglio sia un capolavoro.

Cosa significa fare l’artista in Sardegna?

Significa cercare di ricavare un proprio modo di esprimersi ed essere riconosciuti. Ovviamente da sardi in terra sarda, cioè da nemo propheta in patria, non è semplice. Ma è sempre così, ovunque: non si apprezza mai ciò che si ha.

Tu chi apprezzi nel luogo che consideri patria?

In Sardegna sono tanti: mi piace molto ciò che è esportabile e non regionalistico, non tanto il folklore: a me non mi piace particolarmente l’eccesso di sardità. Adoro quando l’arte diventa universale e non regionalistica.

Come identifichi un eccesso di sardità?

Per semplificare, banalizzando: attori sardi con cadenza e pittori che fanno solo immagini sarde… ma mi spiace anche il rinnegamento delle origini. Media res: via di mezzo, giusto compromesso.
Mi piacciono artisti come Pinuccio Sciola, Maria Carta e Paolo Fresu perché sono diventati internazionali pur nel loro grande omaggio alla terra sarda. Ecco, mi piace che avvenga questo come è avvenuto per Gramsci, Lussu, Satta, Dessì, Mannuzzu e nell’economia Soru e Grauso.

Ci sono due donne che sono state fondamentali nella tua vita, come accade a molti: tua madre e tua nonna.

Nonna Palma è la mia icona di libertà femminile, sfrontatezza, orgoglio, femminilità: giovanissima scappa da Nebida e a Cagliari conosce Emilio che ha 27 anni più di lei e lo sposa. Lui è figlio di Giovanni Balletto, discendente dalla famiglia genovese che commerciava il grano in Sardegna: è lui che ha aperto il famoso pastificio nel 1914. Insomma erano ricchissimi.

Ci pensi mai a cosa penserebbe della donna che sei diventata? Io penso spesso all’opinione dei miei nonni che di me han conosciuto solo la fanciullezza.

Credo che a nonna Palma non gliene fregasse molto e non gliene sarebbe fregato perché lei pensava solo a sé stessa: lei era una diva! Ha pensato pochissimo perfino ai suoi figli dal momento che alla morte di mio nonno ha girato tutta l’Italia spesso senza loro tra i piedi. Ha fatto una vita agiata e divertente, è andata ai party con gli attori celebri, alle terme… era una nonna molto particolare: parlava solo della sua bellezza ma faceva ridere da pazzi!

Ed era oggettivamente bella?

Sì, molto.

Sua figlia, tua madre Sesella Balletto alla quale somigli in maniera impressionante è stata una famosa pittrice (qui le sue opere)

Mia madre nasce a Cagliari nel 1939, battezzata Maria Giuseppa ma chiamata da sempre “Sesella” da mia nonna Palma. Sesella è la mia ispirazione costante, lei è al di fuori dei confini spazio temporali: madre e maestra, madre e figlia, donna di fede e di passioni estreme, pittura che si fa sangue, patimento, estasi, critica, amore. È stata una bambina molto curiosa, leggeva fino a notte tarda, dipingeva dai 5 anni d’età. Ha studiato in collegio ma dal collegio è scappata a 8 anni. Era simpatica, semplice e divertente. Voleva per sé la famiglia che non ha mai avuto: ha avuto sei figli e amato un solo uomo: mio padre Antonello che ha conosciuto a scuola. Se ne fregava dei beni materiali: amava Dio e Gesù ma ha cambiato tante religioni approfondendole tutte.

Mio padre Antonello era il figlio del libraio che ha fondato la famosa Libreria Cocco a Cagliari nel 1929, era intelligente e colto, molto sagace. I miei hanno avuto un rapporto difficile perché papà era freddo e duro. Io gli somiglio tantissimo perché ho il suo stesso cinismo e la sua identica ironia, sono irriverente come lui.

Credi che questa famiglia da romanzo, da fiction di Raiuno abbia tuttora una particolare influenza sulla tua arte o è stato solo il punto di partenza?

Totale. Ne sono intrisa: spesso i confini interiori tra me e mia madre si perdono, io sono lei, lei è dentro di me ma a differenza sua io ho molta più durezza, io sono cinica.

Come si è tradotto in arte, nella tua arte, il lutto per una presenza così determinante del tuo essere?

Lei mi guida, è dentro, mi conforta, mi spinge a diventare una vera artista nell’essenza più profonda: non necessariamente che si esplichi in qualcosa di concreto, mi spiego? Questa influenza si concretizza in termini di lettura della vita perché io la mia forma d’arte non l’ho ancora scelta: non sono un’attrice o una cantante o una scrittrice o una pittrice, mi esprimo nelle forme a disposizione.
Potrei scegliere anche di non fare nulla ma certo è che spesso ho delle urgenze narrative e le traduco in immagini, suoni, scrittura o altro di più materico e pratico.

Gli uomini della tua vita d’artista sono due: Fabio Marceddu e Antonello Murgia, ossia le due anime di “Teatro dallarmadio”, giusto?

Sì, assolutamente ma lo è anche Pasquale, il mio uomo che è sostegno reale anche nell’arte: mi ascolta, mi vive, mi sente profondamente e mi sostiene, si occupa della mia felicità.

Sembra quasi che tu sia il bellissimo risultato di almeno 5 persone: Palma, Sesella, Fabio, Antonello e Pasquale. Ma senza uno, due o senza tutti e cinque di loro chi/cosa/dove saresti?

Aggiungo alla lista mio padre, i miei fratelli e le mie sorelle e dico: non lo so davvero.

Ma sì, d’altra parte chi se ne importa? Vai benissimo così “Crstiana”!

Domani all'Exma teatro al femminile: si ride e si riflette con ...

Le voci di Ferai: Andrea Oro

Ciao Andrea, come è iniziata la tua passione per il teatro?

Quando ero poco più che un bambino alla RAI passavano le commedie di Eduardo De Filippo e le ho guardate tutte, da lì è iniziata la mia voglia di fare teatro. Poi nel 2005 ho provato a fare un corso di teatro con una compagnia di Cagliari. Mi ricordo che il primo giorno ci siamo riuniti tutti in platea e ad uno ad uno siamo saliti sul palco. Avevo sottolineato che non mi piaceva danzare e cosa mi hanno chiesto?

… di danzare, ovviamente!

Esatto, quindi me ne sono andato. Da lì non ne ho più voluto sentito parlare per 11 anni.

Però alla fine hai ricominciato…

Stavo in Australia nel 2014 e facevo il bracciante. Una notte ho sognato mio nonno che mi ha detto di tornare in Italia a fare quello che dovevo fare, ovvero il teatro e l’arte… Altrimenti non sarei mai tornato. Quindi mi sono iscritto ad Akroama e in quel periodo ho sentito parlare di Ferai tramite facebook da Andrea Ibba Monni, leggevo i suoi stati perché ero interessato alla scena e niente, lui diceva sempre che ‘chi non ha mai visto uno spettacolo di Ferai non può giudicare Ferai’ e mi sono incuriosito. In uno spettacolo (“Voci in una luce accecante” n.d.r.) c’era una bara vera in scena e sono rimasto folgorato, mi sono detto ‘ora voglio capire come funziona la compagnia’. Ho scritto ad Andrea e ho iniziato il mio primo laboratorio con la classe Odeon. Non me ne sono pentito.

Cos’è il teatro per te?

Diciamo che fa parte di una sorta di percorso spirituale tutto mio. Una vita fa ero quasi credente e feci un patto con colui che ritenevo essere “Dio”: gli chiesi di “regalarmi” una carriera artistica, non volevo altro. Da allora lavoro e faccio cose che cercano di portarmi in quella direzione, spesso sbagliando, inciampando ma comunque pare importi più il viaggio della destinazione, e fin’ora il viaggio è stato divertente e stimolante.

Progetti per il futuro e per coronare il tuo patto con Dio?

Continuare a fare quello che faccio, mettermi al passo con teatro e musica, creare e interpretare spettacoli nuovi che abbiano qualcosa da raccontare. Se non ho qualcosa da raccontare sto zitto. Comunicare tramite il teatro, che è la forma d’arte più completa, ha a che fare con tutte le forme d’arte.

Ecco, e riguardo le altre forme di espressione artistiche?

Beh riguardo l’arte contemporanea il panorama è molto ampio. Mi piace molto l’iperrealismo nella pittura, mi hanno insegnato che la tecnica è uno strumento importantissimo per esprimere ciò che si vuole. Mi piace molto Saturno Buttò, Lucien Freud, Francis Bacon, mi piace chi ha qualcosa da dire, non mi piace il pane carasau appeso, detesto chi imita senza innovare e chi pensa che l’Arte debba essere “carina”. Se è carina somiglia ad un centrino della nonna, è bello da vedere, sta bene in salotto ma non aggiunge molto alla discussione pubblica, e, fra le altre cose, penso che l’Arte in generale debba creare dibattito, suscitare domande e stimolare punti di vista differenti rispetto alla “media”.

Il tuo personaggio preferito tra quelli che hai interpretato?

Non ce l’ho un personaggio preferito… oh si ce l’ho, l’Omino di burro dello spettacolo “Dorra”. Un morto, un viaggiatore, sta facendo un viaggio nell’aldilà e si trova a fare i conti con i suoi peccati più gravi e si redime in un certo modo. Un viaggio dantesco, o perlomeno, questa è la mia idea dello spettacolo.

Roberta Mossa

 

Le voci degli artisti: Alberto Rizzi (di Andrea Ibba Monni)

Ogni giorno che ho passato in teatro mi sono sentito fortunato.”

Secondo l’autobiografia sbarazzina (che si può leggere qui) Alberto Rizzi fonda a 18 anni la casa di produzioni teatrali e cinematografiche Ippogrifo Produzioni dopo aver completato gli studi classici, poi se ne va a Milano a diplomarsi in regia cinematografica, poi a Roma a lavorare nel cinema ma torna a Verona per fare teatro. Si definisce attore per contingenza, regista per vocazione e scrittore per passione.

Mi son messo a studiare Alberto Rizzi dopo aver ospitato nel 2017 la sua compagnia in occasione della replica cagliaritana di “Sic transit gloria mundi” (qui il trailer) ma lui non l’ho mai incontrato né abbiamo mai parlato. Beh ho scoperto che siamo molto simili: pensiamo che Milano sia abbastanza brutta, riteniamo che le donne siano fondamentali nel nostro lavoro, crediamo nell’artigianato del nostro mestiere, viviamo l’arte ogni giorno tutto il giorno.

Le differenze? Io ho fatto il Nautico e non il Liceo (anche se so più di Sofocle che di effemeridi); a me piace da morire parlare mentre lui dice di essere abbastanza schivo. Inoltre lui è simpaticissimo.

Ecco la nostra conversazione:

ANDREA IBBA MONNI – Chiedo ovviamente all’artista Rizzi, non al giovane uomo (non mi permetterei mai di fare una domanda personale dal momento che in passato hai dichiarato “Se potessi vivere nascosto lo farei”): ora che siamo tutti fermi tu che fai? Come passi le tue giornate?

ALBERTO RIZZI – Continuo con la parte del mio lavoro che posso fare da casa, del resto in quanto regista e autore buona parte del mio lavoro si svolge anche alla scrivania. Comunque non sono rimasto fermo perché durante la quarantena ho creato e realizzato la smart serie “Memorie dalla quarantena” (trovate i fantastici video sulla loro pagina Facebook n.d.r.) per cui sono impegnato su questo e sulla progettazione anche se cerco di evitare la bulimia da lavoro: un po’ di pausa ci vuole, d’altronde questo periodo non è congeniale per scrivere in realtà.

Neppure un momento di smarrimento? Un sentirsi un po’ disorientato? 

Assolutamente sì. Anzi direi che la creatività è un processo che, almeno per quanto mi riguarda, ha bisogno di stimoli, di vita, di aria. Questo periodo così nebuloso è per me nemico della produttività. Sono anche disorientato. come molti del nostro settore perché il futuro è del tutto ignoto e incerto. 

Che ne pensi del polverone nato dalle dichiarazioni di Lucia Calamaro (queste)?

Non so di che parli.

Beato te! In sostanza la nostra pluripremiata e blasonatissima collega ha lanciato un anatema contro chi potrebbe (o vorrebbe) tradurre la pandemia in espressione teatrale.

Sinceramente spero che non ci sia un eccesso di spettacoli, di film e di romanzi che parlino della pandemia.

Che cos’è “un eccesso”, scusa?

Ho solo il timore che quando torneremo in teatro ci troveremo con 200 monologhi sul covid, 82 documentari sulla quarantena… una bulimia narrativa. Come dopo l’11 settembre quando la quantità di prodotto artistico su quell’argomento fu eccessiva. Spero invece che si riesca a parlare di altro, penso che ne avremmo bisogno in primis in quanto spettatori.

Ma se io ho voglia/bisogno di scriverlo e tu pure, come si fa? Siamo già in due. E se poi ne han voglia/bisogno pure tutti gli altri?

Bella domanda… non lo so. In questo caso parlo più da spettatore che da autore.

Una domanda pesante, banale ma che voglio proprio farti è: dove/come nascono i tuoi progetti artistici?

Domanda impegnativa. Ogni progetto nasce in modo diverso. A volte i progetti nascono come una scintilla nella testa, spesso anche solo un’immagine e o un tema di cui voglio parlare. Poi se ne stanno in cassetto a volte anche per anni, in attesa che il momento diventi propizio per sbucare fuori. Poi di solito è sempre qualcosa di esterno che li mette in moto: una necessità produttiva o distributiva o perché è il momento giusto per fare quello spettacolo.

Ti interroghi mai sul perché fai teatro?

A dire il vero raramente me lo domando. Lo vivo come un mestiere ed è l’unico che so fare. E poi non potrei rinunciare al divertimento nei camerini!

Hai dichiarato “io sono un regista, non faccio il regista” e anche in questo la pensiamo allo stesso modo. Ma  adesso ti faccio una domanda che odio mi si rivolga, ma chi se ne frega, facciamo un gioco, ragioniamo per assurdo: se non facessi arte cosa vorresti fare e cosa invece forse ti ritroveresti a fare?

Probabilmente se non facessi questo lavoro, teatro o cinema che sia, credo che studierei. Studiare mi piace un sacco. Non so se ti pagano per studiare ma tanto neanche con il mio mestiere si diventa ricchi. Insomma ho la vocazione alla precarietà. Forse dovrei puntare a fare in dentista… è che guardare tutto il giorno nelle bocche delle persone mi spaventerebbe.

Quindi precario fino alla morte ma con lo stomaco forte! Ogni volta che hai potuto hai sempre speso grandi paroloni per le altre due anime di Ippogrifo Produzioni: l’attrice Chiara Mascalzoni e l’organizzatrice Barbara Baldo. Elogi che per altro non posso che condividere avendoci lavorato seppur per poco nel 2018. Ciò che ti chiedo è: ma quindi la musa è femmina?

Barbara e Chiara sono le altre due anime di Ippogrifo, non le considero le mie muse: sono piuttosto le mie collaboratrici, le mie compagne di viaggio. Chiara è un’attrice di incredibile talento e generosità, lavoriamo insieme da 10 anni e non avrei potuto realizzare certi spettacoli se non con lei. Barbara è una straordinaria organizzatrice con qualità comunicative e umane sopra la media. Sono molto fortunato ad averle incontrate: ogni giorno mi ispirano a lavorare meglio. Forse è quello che fanno le muse. Allora sì sono le muse. E sono anche donne. Io mi sempre trovato meglio a lavorare con le donne, perché completano la mia visione che inevitabilmente è maschile. Siamo una famiglia: siamo come le famiglie di Paperopoli piene di fratelli, di cugini e di zii ma neanche una mamma e un papà… siamo Qui Quo e Qua. 

E come si tengono separate le dinamiche private da quelle lavorative?

Semplice: non le separiamo. Facciamo gli spettacoli come si fa una crostata in cucina andiamo in tournée come si fa in gita, ci vogliamo bene e lavoriamo insieme. Nel lavoro ci ritroviamo e ci rispecchiamo, negli spettacoli c’è sempre un po’ di noi. Ippogrifo è una casa e anche tutti quelli che lavorano con noi, attori e tecnici, li trattiamo come se fossero parte della famiglia.

Quanto è stato vero, pure per me e tutta Ferai nel 2017! Ultima domanda: che mi dici dell’ambiente artistico veronese? 

Eheheh!

Ma non è una risposta!

Non farmi sbilanciare…

Ma io voglio che ti sbilanci!

Eheheeh!

Ma non è una risposta! Senti, se non vuoi essere shady bitchy dimmi le cose buone e non quelle meno buone, ok? 

Verona è una città bellissima.

Non ci siamo lasciati così: l’ho fatto sbottonare su un gossip che ho giurato di non rivelare ma intendo ricattarlo: Rizzi, se Ippogrifo non torna a Cagliari vendo lo scoop! 

Andrea Ibba Monni

Ippogrifo Produzioni presenta: Memorie dalla quarantena - VERONA ...

Da sinistra: Barbara Baldo, Chiara Mascalzoni e Alberto Rizzi

Fonti: Ippogrifo Produzioni; Paperblog

 

La mia Ferai – seconda parte (di Andrea Ibba Monni)

Sono arrivato nella Chiesa di Santa Lucia a Cagliari quando la dirigeva con piglio sicuro e sorriso bonario il leggendario Don Pietro Meneghini. Enzo Parodo mi chiamò per recitare coi suoi ragazzi nel 2001 (finalmente!) e il Presidente della Compagnia Santa Lucia, Giorgio Mulas due anni dopo mi chiedeva se volessi provare a fare un laboratorio in oratorio. Dal 2003 al 2007 furono quattro anni importanti e fondamentali: quando nel 2007 chiesi a Ga’ di unire le forze e il laboratorio divenne a tutti gli effetti della neonata Ferai Teatro avevo già fatto molta esperienza e imparato dai parecchi errori (ancora ne avrei fatto e spero di poterne fare ancora tantissimi).

L’era di Ferai Teatro nella chiesa di Santa Lucia è la scusa per parlare delle prime due arrivate nello staff di Ferai: Ilenia e Giulia.

Feraiteatro Instagram posts - Gramho.com

Ilenia Cugis nasce nel 1991, definisce il teatro “cibo che sfama le sue personalità latenti e inespresse”.

Nel 2007 è fra il pubblico del primo spettacolo di Ferai Teatro, “Air Can Hurt You”, promette a sé stessa di diventare un’attrice di Ferai: dieci anni dopo è parte della compagnia. Attrice dello staff, si occupa anche di marketing e grafica.

Desidera che il teatro torni ad essere avanguardia, arte trainante nell’innovazione e nella nascita di nuovi movimenti artistici di commistione in quanto “unica forma d’arte che in sé rappresenta contenitore e contenuto.”

Giulia Maoddi (Jules934) su PinterestGiulia Maoddi, classe 1987, ha fatto del teatro il suo linguaggio e il mezzo col quale comunicare col resto del mondo.

Ha iniziato a studiare teatro nel 2007 in un corso universitario ed è entrata a far parte della scuola Ferai nel 2010.

All’interno della compagnia oltre ad essere attrice e performer si occupa del settore organizzativo e di quello informatico per il quale cura i testi. Auspica che il teatro del futuro sia più libero, innovativo e pop: un luogo dove fare arte, un luogo fresco e attivo lontano dall’idea di qualcosa di vecchio e desueto che in troppi oggi hanno.

Con loro e Andrea Mura andrà in scena uno spettacolo divertente sulla storia dell’Italia e della televisione italiana che avrebbe dovuto debuttare ad aprile ma che è solo rimandato!

Iban e pulsante PayPal cliccando qui!

L'immagine può contenere: testo

Sostieni Ferai – cos’è successo

Siamo Ferai Teatro, una compagnia teatrale attiva a Cagliari e in Sardegna dal 2007 e ci troviamo a dover affrontare un momento molto difficile a causa della pandemia che ha colpito tutto il mondo. 

Ci siamo sempre autofinanziati grazie ai progetti che abbiamo portato avanti in questi anni, non abbiamo mai percepito i contributi che la Pubblica Amministrazione dà al mondo della Cultura perché abbiamo sempre potuto contare sulle risorse guadagnate dal nostro stesso lavoro: un lavoro che ora, nostro malgrado, è fermo.

In questo periodo in tanti avete chiesto come poterci aiutare e per questo abbiamo deciso di creare una campagna di raccolta fondi, al fine di affrontare le spese del nostro spazio, la Silvery Fox Factory in via Dolcetta 12 a Cagliari: grazie al vostro aiuto potremo coprire le spese di affitto e utenze e appena possibile potremo riprendere le nostre attività e iniziare ad avviare tutti i progetti futuri (tutte cose di cui vi parleremo man mano nelle prossime settimane).

Lo staff della compagnia ha deciso di contraccambiare ogni donazione con un regalo scegliendo ed inviando di volta in volta ai nostri donatori qualcosa di noi: un copione oppure un video dei nostri spettacoli storici, o una foto di scena, regaleremo un servizio fotografico (da realizzare quando sarà possibile incontrarsi), oppure vari audio racconti, ritratti, disegni, dipinti oppure performance in live streaming con chi fa la donazione. 

Estremi per la donazione:

INTESTATARIO: Ferai Teatro;

IBAN: IT-86-W-03268-04800-052540475180;

CAUSALE: donazione da (nome e cognome)*

*Se volete avere il nostro regalo di ringraziamento dateci modo di rintracciarvi! Le donazioni non avranno tag social (se non esplicitamente richiesto) al fine di tutelare la privacy di chi dona.A

Perché e come ho iniziato a fare teatro (di Ilenia Cugis)

2008: Air Can Hurt You

È il 2008, lo spettacolo di baratto teatrale si intitola “Air Can Hurt You”, ed è il momento esatto in cui mi innamoro del teatro.

È notte. Sono in macchina con un’amica di mia madre. Guida nel buio delle strade strette della campagna di Flumini di Quartu. La macchina si ferma sulla strada. Scendo.

C’è un grandissimo cancello di metallo, grigio. Ga’ è vestito di nero, ha un cappello in mano, dal quale fa pescare alle persone un pezzo di cartoncino. Sul mio cartoncino c’è un segno di pittura blu. Vengo separata dalle persone con cui sono arrivata e insieme a qualche estraneo attraverso un giardino e arrivo in una stanza, abbastanza grande. C’è una televisione. C’è un ragazzo (Enrico Cara n.d.r.), di spalle, con ali da angelo e la schiena scoperta. La sua ombra è proiettata sul muro.

Parte un video. Le immagini sono mischiate, sovrapposte, i temi sono tanti, frammentati, iniziano si fermano ricominciano. Il video è un sogno. Poi finisce.

Siamo condotti all’esterno. Vedo che nelle altre stanze accadono altre cose. Io sono sul porticato. Un’attrice, Andreina, ha un enorme blocco di rami secchi in mano. Sembra respingere e scacciare dei fantasmi dal suo passato.

Poi, inizia qualcosa.

Che solo più tardi, scoprirò essere la “Stanza Rossa”.

Ci sono Andrea Ibba Monni e un’attrice che non conosco, che non ho mai conosciuto. Lei è mora. Ed è molto bella (Barbara Piu n.d.r.).

Il pezzo è una lotta lenta e veloce per l’amore, è violenza e tenerezza, la Stanza Rossa è complessa, complessa come la passione, la rabbia, l’affetto, la gelosia. I loro corpi si trovano e non si trovano. Lei fugge e si rifugia, lui la cerca, la prende, la perde.

Per come lo ricordo io, alla fine vincono la violenza e la gelosia. Eppure Andrea canta, perché l’amore c’è ancora.

Inizia una musica. La sento ancora dentro le orecchie, 12 anni dopo.

Restiamo nel portico, mi pare che tutto il pubblico si sia ora ricongiunto.

La musica è forte e una luce fievole si muove da dietro la casa. Sono tre candele e un ragazzo, Giacomo (Peddis n.d.r.), le tiene davanti a sé. Arriva circa davanti al portico, lo vediamo tutti. Lo vediamo contorcersi mentre le candele illuminano e scaldano punti diversi del suo corpo nudo, magro, allenato, si muove e ad ogni movimento cambia forma, il suo corpo in eterna danza con le candele.

La cera finisce di bruciare e non c’è più musica.

Sono certa che siamo tutto il pubblico ora, insieme, veniamo condotti giù dal portico, camminiamo verso il lato destro della casa, siamo nel retro del giardino. C’è qualche albero e una luce lieve. Ed è lì, sul pavimento di terra, erba e foglie secche, sui rami caduti, in mezzo a spine e cespugli, è lì, che appare Nastas’ja Filippovna.

Con le sue maschere. Con le sue gambe. Con la sua voce. Quella voce che ve lo assicuro posso sentirla nelle orecchie. Ha anche un libro in mano. Un ombrello. Teli. Mi innamoro di Nastas’ja, piango, sono scossa, ho i brividi, è il momento esatto in cui capisco che cosa significhi il teatro per Ferai. Quando il pezzo finisce il mio cuore è assetato, forse famelico, dice: “ancora, ancora”.

L’ultima scena è La Cena.

Ci sono adesso tutti gli attori intorno ad una tavola. Mangiano ravioli. Giocano con il cibo. Con le posate. Sono pericolosi coi coltelli. Si sfidano. Non vogliono mangiare, ci sono infiniti spettri di disturbi alimentari e relazioni parentali malate.

Alla fine, un primo di loro, si accorge che manca qualcuno, o qualcosa.

“Laura (Solla n.d.r.), anche l’aria può ferirti”.

La cena si scompone e gli attori cercano disperatamente ciò che manca, per tutto il grande giardino. Noi li seguiamo. La ricerca termina al cancello. Gli attori sono tutti lì, con gli occhi verso il cielo, nella notte buia.

Infine, questo è ciò che ricorda la mia mente, gli attori sono scomparsi. Nel nulla. Siamo rimasti solo noi, spettatori, davanti al cancello grigio. Insieme a Ga’, vestito di nero, con il suo grande cappello, in testa. Che ci mandava via, a casa.

“Ancora, ancora”, ripete il mio cuore estremamente confuso e affamato. Due mesi dopo ho frequentato la mia prima lezione di teatro.

Ilenia Cugis

RAPSODIA:STAMINA – frammenti (di Ilenia Cugis)

Nel silenzio della Silvery Fox Factory c’erano rumori di passi lenti e suole di scarpe che scricchiolano.

C’erano gli occhi di Andrea Ibba Monni che guarda dritto davanti a sé, sono stampati nella mia memoria.

Insieme al rito della notte.

Mentre la luce si rifletteva sulla grotta bianca di Ga’.

Ga’, ballava; davanti a lui c’era un mio amico, che piangeva. Guardava Ga’ che ballava per lui, e piangeva.

Mi fa sorridere.

C’era un sacco di cibo all’ingresso. Finché l’abbiamo rimosso. Tante tantissime banane. Banane banane e banane. Le ho portate a casa.

Arrivavo sempre di notte alla factory, quando finivo di lavorare. La luce ovattata, mi cullava. Una notte ho sentito il suono di una sedia che veniva spostata da una ragazza del pubblico. Lei ha scritto qualcosa su un quaderno e l’ha passato ad Andrea, lui ha annuito e sorriso con gli occhi, perché aveva la bocca coperta col nastro. Molto lentamente e in maniera estremamente religiosa Andrea ha messo via i chicchi di riso. Ha preso le mani della ragazza davanti a lui. Si sono toccati.

Mi piaceva guardare i chicchi di riso.

Mi piaceva guardare le mani che si toccano.

Mi sono seduta davanti a Simone con una bacinella sulle gambe. Abbiamo lavato e strizzato e bagnato e strizzato.

Mi piaceva guardare le ragazze che lo aiutavano a cucire. Tutto, ovattato, nella notte, nel silenzio, nella calma apparente.

Una notte quando sono arrivata era quasi l’una. Era già giovedì. Erano rimasti tre performer per “Democratic Schism”. Davide, Ilaria, Francesca, così stanchi che avrei avuto voglia di abbracciarli. In movimento da quattro ore, rimasti solo in tre. I corpi sfiniti. Erano molto belli. A momenti mi incantavo a fissare una di loro tre. Poi l’altro, poi l’altra.

Andrea era in piedi.

Sentivo, non so perché, che stesse in piedi nel tentativo di dare tutta la sua energia ai tre performer e beh, dopo 4 giorni qui, dentro la Factory, uno l’energia se la sarebbe voluta centellinare, mentre Andrea la stava espandendo, voleva darla, voleva inondare lo spazio, l’aria era piena di energia calma e pacifica.

Quella stessa notte, più tardi, forse intorno alle due e mezza, ho visto Andrea e Ga’ che si guardavano. Quando sono tornata a casa ho mandato un messaggio ad una mia amica e ho scritto: penso che abbiano bisogno di toccarsi, di abbracciarsi.

Ho visto tre amiche, una per volta, aiutare Ga’ nella grotta bianca. Con grandi cappelli di carta di giornale. L’ho trovato divertente ogni giorno che è capitato. I grandi cappelli di carta di giornale. Nei momenti della mia giornata di lavoro, pensavo alla grotta bianca. “Chissà come sarà quando tornerò dentro la Factory”.

Chissà come sarà.

Vorrei parlarvi di RAPSODIA:STAMINA solo che non ci riesco, ho capito che non ve lo posso spiegare. Era necessario viverlo e per ogni spettatore è stato diverso.

Ho visto le persone piangere e ridere, senza apparente motivo. Ho visto sorrisi di cera e ne ho avuto addosso uno anche io, ma la cera si scioglie, il cuore batte, il sangue scorre.

Ho visto me stessa piangere e ridere, senza apparente motivo.

C’è stata tanta pace, tanto silenzio, tanta energia.

C’è stata la vita.

C’è stata la poesia.

C’è stata l’arte.

Come si può tentare di descrivere tutto questo a parole?

C’è stata la forza di volontà dell’artista.

Ilenia Cugis

E tu come memorizzi un copione?

Risultato immagini per memory

Di seguito alcuni metodi di memorizzazione di un copione da parte di qualche allievo del laboratorio di recitazione di Ferai Teatro. Li abbiamo riassunti, alcuni uniti perché tanto simili e con pochissime (ma importanti differenze). Va detto che ognuno ha il proprio personale modo di memorizzare una parte (o dovrebbe averlo) e che quindi vi riportiamo i vari modi, ognuno valido nella misura in cui va ovviamente bene per chi lo utilizza, cercando di evidenziarne sia i vantaggi ma anche gli eventuali punti deboli.

Dopo aver sottolineato, leggo e ripeto frase per frase, man mano che vado avanti con le frasi ripeto sempre dall’inizio aggiungendo la frase nuova. Se necessario sbircio dal foglio e ripeto finché non è più necessario il foglio, cercando nel tutto di concentrarmi sul senso di quello che dico. Questo è un metodo che ha come svantaggio il fatto che le battute finali son quelle che si provano di meno.

Registrazione. Utile per correggere articolazione, respirazione, dizione, difetti di pronuncia ma potrebbe risultare arido alla lunga a livello interpretativo.

Io leggo molte volte e poi provo a ripetere pezzo per pezzo. Lo faccio davanti allo specchio per aggiungere al monologo l’espressione del viso e per tenermi composta quando parlo. Il rischio è che il controllo delle espressioni del viso tenda a sconfinare nella regia del pezzo, ma è un rischio abbastanza remoto.

Leggo e ripeto, leggo e ripeto dividendole battute in frasi e concetti, cercando di capire e interpretare pienamente ciò che c’è scritto. Bisogna poi cercare di unire il tutto in modo omogeneo in modo da non avere troppi frammenti slegati tra loro.

– Come primo lavoro di memorizzazione visiva scrivo le battute prima delle mie e poi le mie. Come secondo step di memorizzazione visiva scrivo solo la parte finale delle battute prima delle mie e poi ancora le mie. Come terzo step registro il 1 punto e ascolto varie volte e poi registro il 2 punto e ascolto varie volte. Come ultimo passo registro tutte le battute degli altri personaggi e lascio lo spazio vuoto per recitare le mie con cesure, intenzione e qualità del personaggio.

– Registro in continuazione tutto il pezzo poi ogni frase con parole mancanti poi ripeto senza ascoltare. Il rischio è che in questa sorta di “quiz” si perda subito la parte interpretativa (la parte principale dell’obbiettivo da raggiungere)

Io accento e metto le cesure alle mie battute e poi leggo e ripeto più volte cercando di memorizzare gli accenti e le cesure. Dopo mi registro prima cercando di stare attenta solo alla dizione, e poi faccio un’altra registrazione di tutte le battute cercando di fare sia dizione che interpretazione. Poi mi ascolto e ripeto prima solo in dizione e poi aggiungendo l’interpretazione. L’ideale sarebbe rendere la dizione scontata e l’articolazione della parola una norma in modo tale da bruciare i tempi e finalmente non separare il buon uso della vocalità a un buon uso del corpo che la racchiude (è come dire che si separa l’uso di una gamba dall’altra).

Registro le scene in cui son presente recitando tutti i personaggi e mi riascolto. Poi registro la scena solo con le battute degli altri personaggi e lasciando un “buco” di silenzio per le mie battute, così quando riascolto attacco e do io la battuta. Ultimo step quando son diventata bravina: recito a voce alta tutte le battute, mie e degli altri. Un procedimento lungo e laborioso che però sicuramente rende sicuro lo stare in scena ed è un allenamento sotto tanti punti di vista che però non deve togliere nulla al proprio lavoro.

Obbligo mia madre a fare tutti i personaggi e ripeto le mie battute. Prima veloce senza interpretazione e poi con sempre più intenzione. Dipendere dagli altri è sicuramente rischioso, soprattutto se “gli altri” non sono colleghi. Ma l’immagine di una madre “obbligata” all’esercizio è molto divertente.

Non ho un vero e proprio metodo. Memorizzo manco fossero un mantra i finali di battuta prima delle mie, quasi come facessero parte della mia battuta, e li ripeto ripeto ripeto. Mi aiuta molto memorizzare studiando in simultanea il personaggio, trovando una voce, un’intenzione. Diciamo che più interpreto, più mi vien facile. Ma alla base c’è ripetere ripetere ripetere. Non avere un metodo è sempre rischioso, lasciare al caso e all’ispirazione la preparazione di un lavoro è sempre negativo soprattutto perché affidarsi solo all’interpretazione, all’intenzione e alla “voce” è troppo casuale, approssimativo.

Scandisco ogni sillaba di ogni parola della frase mentre ripeto in modo neutro, acquisita un po’ di memoria vado più liscio sempre neutro, acquisita più memoria ancora ripeto velocemente sempre neutro ma usando il corpo (gesti, spostamenti) per vedere che mi viene da fare istintivamente, ultima fase quando ho buona memoria provo la scena direttamente se ho vuoti rallento e sillabo o faccio movimenti a ritroso. Corpo e voce riuniti come dev’essere. Approccio lungo ma che dà certamente una gran sicurezza. Bisogna solo far sì che il gesto istintivo lasci poi spazio alla tecnica, al rigore e all’elasticità in sala prove davanti a chi cura la regia e spazio all’azione di chi sta in scena con noi.

Cerco di memorizzare anche le battute precedenti alle mie, non esattamente, ma il senso generale. Cerco sempre di capire l’intenzione del personaggio, in modo da vivermi la scena e non avere problemi di memoria. Capire cosa si sta dicendo e perché lo si dice è certamente indispensabile.

Evidenzio in giallo la mia parte poi evidenzio con colori diversi le battute prima delle mie, per cercare di memorizzare. Leggo e ripeto diverse volte, cercando di ripetere con il copione chiuso. La memoria visiva certamente aiuta parecchio, ma non basta dal momento che ci lascia dipendere troppo dalle altre persone e dalla loro memoria.

Leggo. Ripeto prima la battuta a mente. Cerco la/le parola/e chiave delle battute. Poi le provo. Se non mi convince cambio la parola chiave. Solo per memorizzare però perché poi nell’interpretazione normalmente le parole chiave si inter-scambiano.

È importante darsi appigli, soprattutto interpretativi. Ma dopo aver memorizzato il testo bisogna lasciare libera ed elastica l’interpretazione.

Risultato immagini per memory

Doppia erre, doppie tette (di Ilenia Cugis)

L'immagine può contenere: una o più persone e scarpeLavori con FERRAI? Tratto da una, due, tre, storie vere

Ora. Io non so se il problema nasca dalla parlata Cagliaritana DOC per cui il raddoppio della R è una naturale e incontrollabile conseguenza dell’area geografica in cui viviamo, ma perché “Ferai” è così difficile da pronunciare?

È che poi mi prende anche male dover dire: “ehm, sì, per Ferai.”

E mi rispondono: “sì sì, Ferrai.”

E io: “Ferai.”

E loro: “Ferrai.”

Così, in un loop infinito.

 

La cosa poi mica finisce qui.

“E con Ferrai cosa state preparando? Siete nudi?

Oh, una non può recitare a tette di fuori una volta che poi lo farà in eterno? Forse l’1% degli spettacoli di Ferai ha avuto un tantino di nudità, eppure non si esce dal tunnel di quando, quasi 10 anni fa (DIECI!) il titolo di uno spettacolo revitava “Snuff – Pornografia allo stato impuro!” (qui alcune foto).

Come se tutto il nudo fosse pornografia.

Come se mettessimo in scena i nostri corpi, puliti, vulnerabili, in un atto di esibizionismo e non con un significato artistico profondo.

Come se la pelle fosse superficie e quindi anche superficialità.

La cosa divertente, poi, è che chi fa queste domande mica le fa perché ha mai visto uno spettacolo di Ferai in cui c’era del nudo. Ovviamente no. Ovviamente è tutto per sentito dire. Sentito dire da altri che non hanno visto nulla. In un parlare, parlare, parlare, continuo, privo di basi e contenuti.

Perché chi invece ha visto e vissuto questi spettacoli, ha capito la necessità del corpo di mostrarsi senza maschera, senza finzioni, puro in sé stesso. Perché chi ha visto e vissuto questi spettacoli ha capito dove c’era fragilità e dove invece c’era condanna, dove c’era provocazione e dove c’era dolcezza.

“E quindi lavori con Ferrai?”

“Eh, sì.”

“Ah! State preparando qualcosa?”

“Uno spettacolo molto bello, si chiama ¡FeRAiExTr4vaGanzA!

“Ma… siete nudi?”

“Sì. Faccio vedere le tette. Così, senza motivo. Curioso, eh?”

Ilenia Cugis

Dire addio a un personaggio (di Roberta Mossa)

Una sensazione che non passa mai (anche dopo tanti anni di teatro) è la nostalgia del personaggio dopo la fine dello spettacolo: come se fosse un addio. E anche questa volta è andata così… ma partiamo dall’inizio.

Quest’anno avevo deciso di vincere un limite che sentivo di avere da molto tempo, la paura della carta bianca e della libertà creativa, quindi mi sono iscritta alla classe Abadia, il corso di teatro performativo di Ferai. È stato amore già dalla prima prova, le immagini e i suoni che ti arrivano senza pensarci su, la libertà della ricerca che non faceva più paura, anzi! Una bella esperienza, interessante e stimolante… Ma sentivo che mancava qualcosa.

Poi Ga’ e Andrea mi hanno chiesto se volevo partecipare allo spettacolo dell’Odeon (“Wonderful Oz”) per una sostituzione (un’allieva incasinata con un viaggio di studio non ci sarebbe stata nella data dello spettacolo). Classe nuova, persone nuove, un testo mai visto prima, scarse possibilità di successo…. Why not?!

Mi sono detta: “No va beh, non ce la posso fare. Ma potevano chiamare Giulia Maoddi, no? Io sono incasinata… poi mi conosco, faccio mille cose e non riesco a fare bene niente… e metti che trovo un lavoro nel frattempo? No, non se ne parla neanche. Ora lo dico a Ga.”

Cinque minuti dopo:

“Pronto Ga? Sì certo, molto volentieri. Sì, sì, assolutamente! No ma stai scherzando, che figata il mago di Oz, non vedo l’ora di farlo. Sì ok, ok va bene. Ci vediamo stasera. Anzi no, stasera non lo so, che mi sa che sono ancora a Sant’Antioco. Oh, ma dalla prossima prova ci sono eh, stai sicuro. Va bene, cià!”.

Perché? È semplice. È il fascino di un nuovo personaggio da conoscere, da interpretare, la curiosità di sapere chi è, come vede il mondo, sentire nuovi suoni, profumi, atmosfere… è la tentazione di affrontare una nuova sfida, il fascino dell’ignoto. Tutte le persone che fanno teatro sanno che è la parte più interessante. C’è tanta creatività nell’interpretare un personaggio all’interno di un copione. E in qualche minuto mi sono resa conto di quanto mi fosse mancato.

Arrivo alla prima prova con l’Odeon alla Silvery Fox Factory, in punta di piedi, con l’idea che andavo per fare le mie prove, restare concentrata il più possibile per non disturbare la concentrazione del gruppo e andarmene. Invece i miei compagni di scena mi hanno fatta sentire subito a mio agio e trascinata nel simpatico caos dell’Odeon. Non ci si prende troppo sul serio, si accettano tutti, il loro carattere e le loro paure, si può lavorare con i veterani e con chi è alla prima esperienza, con i giovani e con i meno giovani. In un percorso di laboratorio anche il lato umano è importante, e le persone ti sorprendono sempre, sia in negativo che in positivo. Ho lavorato in un clima molto inclusivo, col morale sempre alto, e così di prova in prova si è creato il mio caro Spaventapasseri senza cervello: convinto di essere stupido, solo perché ha scelto di vedere il mondo con la curiosità di un bambino, libero dagli schemi di comportamento precostituiti, libero dal suo ego, dai preconcetti, dall’idea dell’apparire di fronte agli altri. Sempre in cerca di nuove prospettive con cui guardare il mondo: a testa in giù, attraverso l’oliatore, con la lente di ingrandimento su qualsiasi cosa che attiri la sua attenzione. Disinteressato e senza calcolo nell’amicizia, pronto a conoscere nuove persone. Il cervello, ovviamente, lo aveva! È stato bello farlo vivere sul palco.

Dopo che sfuma l’adrenalina pura dello spettacolo, torna quella sensazione di nostalgia che non passa mai, neanche dopo anni di teatro, dopo che ci fai l’abitudine.

Roberta Mossa