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Perché e come ho iniziato a fare teatro (di Ilenia Cugis)

2008: Air Can Hurt You

È il 2008, lo spettacolo di baratto teatrale si intitola “Air Can Hurt You”, ed è il momento esatto in cui mi innamoro del teatro.

È notte. Sono in macchina con un’amica di mia madre. Guida nel buio delle strade strette della campagna di Flumini di Quartu. La macchina si ferma sulla strada. Scendo.

C’è un grandissimo cancello di metallo, grigio. Ga’ è vestito di nero, ha un cappello in mano, dal quale fa pescare alle persone un pezzo di cartoncino. Sul mio cartoncino c’è un segno di pittura blu. Vengo separata dalle persone con cui sono arrivata e insieme a qualche estraneo attraverso un giardino e arrivo in una stanza, abbastanza grande. C’è una televisione. C’è un ragazzo (Enrico Cara n.d.r.), di spalle, con ali da angelo e la schiena scoperta. La sua ombra è proiettata sul muro.

Parte un video. Le immagini sono mischiate, sovrapposte, i temi sono tanti, frammentati, iniziano si fermano ricominciano. Il video è un sogno. Poi finisce.

Siamo condotti all’esterno. Vedo che nelle altre stanze accadono altre cose. Io sono sul porticato. Un’attrice, Andreina, ha un enorme blocco di rami secchi in mano. Sembra respingere e scacciare dei fantasmi dal suo passato.

Poi, inizia qualcosa.

Che solo più tardi, scoprirò essere la “Stanza Rossa”.

Ci sono Andrea Ibba Monni e un’attrice che non conosco, che non ho mai conosciuto. Lei è mora. Ed è molto bella (Barbara Piu n.d.r.).

Il pezzo è una lotta lenta e veloce per l’amore, è violenza e tenerezza, la Stanza Rossa è complessa, complessa come la passione, la rabbia, l’affetto, la gelosia. I loro corpi si trovano e non si trovano. Lei fugge e si rifugia, lui la cerca, la prende, la perde.

Per come lo ricordo io, alla fine vincono la violenza e la gelosia. Eppure Andrea canta, perché l’amore c’è ancora.

Inizia una musica. La sento ancora dentro le orecchie, 12 anni dopo.

Restiamo nel portico, mi pare che tutto il pubblico si sia ora ricongiunto.

La musica è forte e una luce fievole si muove da dietro la casa. Sono tre candele e un ragazzo, Giacomo (Peddis n.d.r.), le tiene davanti a sé. Arriva circa davanti al portico, lo vediamo tutti. Lo vediamo contorcersi mentre le candele illuminano e scaldano punti diversi del suo corpo nudo, magro, allenato, si muove e ad ogni movimento cambia forma, il suo corpo in eterna danza con le candele.

La cera finisce di bruciare e non c’è più musica.

Sono certa che siamo tutto il pubblico ora, insieme, veniamo condotti giù dal portico, camminiamo verso il lato destro della casa, siamo nel retro del giardino. C’è qualche albero e una luce lieve. Ed è lì, sul pavimento di terra, erba e foglie secche, sui rami caduti, in mezzo a spine e cespugli, è lì, che appare Nastas’ja Filippovna.

Con le sue maschere. Con le sue gambe. Con la sua voce. Quella voce che ve lo assicuro posso sentirla nelle orecchie. Ha anche un libro in mano. Un ombrello. Teli. Mi innamoro di Nastas’ja, piango, sono scossa, ho i brividi, è il momento esatto in cui capisco che cosa significhi il teatro per Ferai. Quando il pezzo finisce il mio cuore è assetato, forse famelico, dice: “ancora, ancora”.

L’ultima scena è La Cena.

Ci sono adesso tutti gli attori intorno ad una tavola. Mangiano ravioli. Giocano con il cibo. Con le posate. Sono pericolosi coi coltelli. Si sfidano. Non vogliono mangiare, ci sono infiniti spettri di disturbi alimentari e relazioni parentali malate.

Alla fine, un primo di loro, si accorge che manca qualcuno, o qualcosa.

“Laura (Solla n.d.r.), anche l’aria può ferirti”.

La cena si scompone e gli attori cercano disperatamente ciò che manca, per tutto il grande giardino. Noi li seguiamo. La ricerca termina al cancello. Gli attori sono tutti lì, con gli occhi verso il cielo, nella notte buia.

Infine, questo è ciò che ricorda la mia mente, gli attori sono scomparsi. Nel nulla. Siamo rimasti solo noi, spettatori, davanti al cancello grigio. Insieme a Ga’, vestito di nero, con il suo grande cappello, in testa. Che ci mandava via, a casa.

“Ancora, ancora”, ripete il mio cuore estremamente confuso e affamato. Due mesi dopo ho frequentato la mia prima lezione di teatro.

Ilenia Cugis

RAPSODIA:STAMINA – frammenti (di Ilenia Cugis)

Nel silenzio della Silvery Fox Factory c’erano rumori di passi lenti e suole di scarpe che scricchiolano.

C’erano gli occhi di Andrea Ibba Monni che guarda dritto davanti a sé, sono stampati nella mia memoria.

Insieme al rito della notte.

Mentre la luce si rifletteva sulla grotta bianca di Ga’.

Ga’, ballava; davanti a lui c’era un mio amico, che piangeva. Guardava Ga’ che ballava per lui, e piangeva.

Mi fa sorridere.

C’era un sacco di cibo all’ingresso. Finché l’abbiamo rimosso. Tante tantissime banane. Banane banane e banane. Le ho portate a casa.

Arrivavo sempre di notte alla factory, quando finivo di lavorare. La luce ovattata, mi cullava. Una notte ho sentito il suono di una sedia che veniva spostata da una ragazza del pubblico. Lei ha scritto qualcosa su un quaderno e l’ha passato ad Andrea, lui ha annuito e sorriso con gli occhi, perché aveva la bocca coperta col nastro. Molto lentamente e in maniera estremamente religiosa Andrea ha messo via i chicchi di riso. Ha preso le mani della ragazza davanti a lui. Si sono toccati.

Mi piaceva guardare i chicchi di riso.

Mi piaceva guardare le mani che si toccano.

Mi sono seduta davanti a Simone con una bacinella sulle gambe. Abbiamo lavato e strizzato e bagnato e strizzato.

Mi piaceva guardare le ragazze che lo aiutavano a cucire. Tutto, ovattato, nella notte, nel silenzio, nella calma apparente.

Una notte quando sono arrivata era quasi l’una. Era già giovedì. Erano rimasti tre performer per “Democratic Schism”. Davide, Ilaria, Francesca, così stanchi che avrei avuto voglia di abbracciarli. In movimento da quattro ore, rimasti solo in tre. I corpi sfiniti. Erano molto belli. A momenti mi incantavo a fissare una di loro tre. Poi l’altro, poi l’altra.

Andrea era in piedi.

Sentivo, non so perché, che stesse in piedi nel tentativo di dare tutta la sua energia ai tre performer e beh, dopo 4 giorni qui, dentro la Factory, uno l’energia se la sarebbe voluta centellinare, mentre Andrea la stava espandendo, voleva darla, voleva inondare lo spazio, l’aria era piena di energia calma e pacifica.

Quella stessa notte, più tardi, forse intorno alle due e mezza, ho visto Andrea e Ga’ che si guardavano. Quando sono tornata a casa ho mandato un messaggio ad una mia amica e ho scritto: penso che abbiano bisogno di toccarsi, di abbracciarsi.

Ho visto tre amiche, una per volta, aiutare Ga’ nella grotta bianca. Con grandi cappelli di carta di giornale. L’ho trovato divertente ogni giorno che è capitato. I grandi cappelli di carta di giornale. Nei momenti della mia giornata di lavoro, pensavo alla grotta bianca. “Chissà come sarà quando tornerò dentro la Factory”.

Chissà come sarà.

Vorrei parlarvi di RAPSODIA:STAMINA solo che non ci riesco, ho capito che non ve lo posso spiegare. Era necessario viverlo e per ogni spettatore è stato diverso.

Ho visto le persone piangere e ridere, senza apparente motivo. Ho visto sorrisi di cera e ne ho avuto addosso uno anche io, ma la cera si scioglie, il cuore batte, il sangue scorre.

Ho visto me stessa piangere e ridere, senza apparente motivo.

C’è stata tanta pace, tanto silenzio, tanta energia.

C’è stata la vita.

C’è stata la poesia.

C’è stata l’arte.

Come si può tentare di descrivere tutto questo a parole?

C’è stata la forza di volontà dell’artista.

Ilenia Cugis

E tu come memorizzi un copione?

Risultato immagini per memory

Di seguito alcuni metodi di memorizzazione di un copione da parte di qualche allievo del laboratorio di recitazione di Ferai Teatro. Li abbiamo riassunti, alcuni uniti perché tanto simili e con pochissime (ma importanti differenze). Va detto che ognuno ha il proprio personale modo di memorizzare una parte (o dovrebbe averlo) e che quindi vi riportiamo i vari modi, ognuno valido nella misura in cui va ovviamente bene per chi lo utilizza, cercando di evidenziarne sia i vantaggi ma anche gli eventuali punti deboli.

Dopo aver sottolineato, leggo e ripeto frase per frase, man mano che vado avanti con le frasi ripeto sempre dall’inizio aggiungendo la frase nuova. Se necessario sbircio dal foglio e ripeto finché non è più necessario il foglio, cercando nel tutto di concentrarmi sul senso di quello che dico. Questo è un metodo che ha come svantaggio il fatto che le battute finali son quelle che si provano di meno.

Registrazione. Utile per correggere articolazione, respirazione, dizione, difetti di pronuncia ma potrebbe risultare arido alla lunga a livello interpretativo.

Io leggo molte volte e poi provo a ripetere pezzo per pezzo. Lo faccio davanti allo specchio per aggiungere al monologo l’espressione del viso e per tenermi composta quando parlo. Il rischio è che il controllo delle espressioni del viso tenda a sconfinare nella regia del pezzo, ma è un rischio abbastanza remoto.

Leggo e ripeto, leggo e ripeto dividendole battute in frasi e concetti, cercando di capire e interpretare pienamente ciò che c’è scritto. Bisogna poi cercare di unire il tutto in modo omogeneo in modo da non avere troppi frammenti slegati tra loro.

– Come primo lavoro di memorizzazione visiva scrivo le battute prima delle mie e poi le mie. Come secondo step di memorizzazione visiva scrivo solo la parte finale delle battute prima delle mie e poi ancora le mie. Come terzo step registro il 1 punto e ascolto varie volte e poi registro il 2 punto e ascolto varie volte. Come ultimo passo registro tutte le battute degli altri personaggi e lascio lo spazio vuoto per recitare le mie con cesure, intenzione e qualità del personaggio.

– Registro in continuazione tutto il pezzo poi ogni frase con parole mancanti poi ripeto senza ascoltare. Il rischio è che in questa sorta di “quiz” si perda subito la parte interpretativa (la parte principale dell’obbiettivo da raggiungere)

Io accento e metto le cesure alle mie battute e poi leggo e ripeto più volte cercando di memorizzare gli accenti e le cesure. Dopo mi registro prima cercando di stare attenta solo alla dizione, e poi faccio un’altra registrazione di tutte le battute cercando di fare sia dizione che interpretazione. Poi mi ascolto e ripeto prima solo in dizione e poi aggiungendo l’interpretazione. L’ideale sarebbe rendere la dizione scontata e l’articolazione della parola una norma in modo tale da bruciare i tempi e finalmente non separare il buon uso della vocalità a un buon uso del corpo che la racchiude (è come dire che si separa l’uso di una gamba dall’altra).

Registro le scene in cui son presente recitando tutti i personaggi e mi riascolto. Poi registro la scena solo con le battute degli altri personaggi e lasciando un “buco” di silenzio per le mie battute, così quando riascolto attacco e do io la battuta. Ultimo step quando son diventata bravina: recito a voce alta tutte le battute, mie e degli altri. Un procedimento lungo e laborioso che però sicuramente rende sicuro lo stare in scena ed è un allenamento sotto tanti punti di vista che però non deve togliere nulla al proprio lavoro.

Obbligo mia madre a fare tutti i personaggi e ripeto le mie battute. Prima veloce senza interpretazione e poi con sempre più intenzione. Dipendere dagli altri è sicuramente rischioso, soprattutto se “gli altri” non sono colleghi. Ma l’immagine di una madre “obbligata” all’esercizio è molto divertente.

Non ho un vero e proprio metodo. Memorizzo manco fossero un mantra i finali di battuta prima delle mie, quasi come facessero parte della mia battuta, e li ripeto ripeto ripeto. Mi aiuta molto memorizzare studiando in simultanea il personaggio, trovando una voce, un’intenzione. Diciamo che più interpreto, più mi vien facile. Ma alla base c’è ripetere ripetere ripetere. Non avere un metodo è sempre rischioso, lasciare al caso e all’ispirazione la preparazione di un lavoro è sempre negativo soprattutto perché affidarsi solo all’interpretazione, all’intenzione e alla “voce” è troppo casuale, approssimativo.

Scandisco ogni sillaba di ogni parola della frase mentre ripeto in modo neutro, acquisita un po’ di memoria vado più liscio sempre neutro, acquisita più memoria ancora ripeto velocemente sempre neutro ma usando il corpo (gesti, spostamenti) per vedere che mi viene da fare istintivamente, ultima fase quando ho buona memoria provo la scena direttamente se ho vuoti rallento e sillabo o faccio movimenti a ritroso. Corpo e voce riuniti come dev’essere. Approccio lungo ma che dà certamente una gran sicurezza. Bisogna solo far sì che il gesto istintivo lasci poi spazio alla tecnica, al rigore e all’elasticità in sala prove davanti a chi cura la regia e spazio all’azione di chi sta in scena con noi.

Cerco di memorizzare anche le battute precedenti alle mie, non esattamente, ma il senso generale. Cerco sempre di capire l’intenzione del personaggio, in modo da vivermi la scena e non avere problemi di memoria. Capire cosa si sta dicendo e perché lo si dice è certamente indispensabile.

Evidenzio in giallo la mia parte poi evidenzio con colori diversi le battute prima delle mie, per cercare di memorizzare. Leggo e ripeto diverse volte, cercando di ripetere con il copione chiuso. La memoria visiva certamente aiuta parecchio, ma non basta dal momento che ci lascia dipendere troppo dalle altre persone e dalla loro memoria.

Leggo. Ripeto prima la battuta a mente. Cerco la/le parola/e chiave delle battute. Poi le provo. Se non mi convince cambio la parola chiave. Solo per memorizzare però perché poi nell’interpretazione normalmente le parole chiave si inter-scambiano.

È importante darsi appigli, soprattutto interpretativi. Ma dopo aver memorizzato il testo bisogna lasciare libera ed elastica l’interpretazione.

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Doppia erre, doppie tette (di Ilenia Cugis)

L'immagine può contenere: una o più persone e scarpeLavori con FERRAI? Tratto da una, due, tre, storie vere

Ora. Io non so se il problema nasca dalla parlata Cagliaritana DOC per cui il raddoppio della R è una naturale e incontrollabile conseguenza dell’area geografica in cui viviamo, ma perché “Ferai” è così difficile da pronunciare?

È che poi mi prende anche male dover dire: “ehm, sì, per Ferai.”

E mi rispondono: “sì sì, Ferrai.”

E io: “Ferai.”

E loro: “Ferrai.”

Così, in un loop infinito.

 

La cosa poi mica finisce qui.

“E con Ferrai cosa state preparando? Siete nudi?

Oh, una non può recitare a tette di fuori una volta che poi lo farà in eterno? Forse l’1% degli spettacoli di Ferai ha avuto un tantino di nudità, eppure non si esce dal tunnel di quando, quasi 10 anni fa (DIECI!) il titolo di uno spettacolo revitava “Snuff – Pornografia allo stato impuro!” (qui alcune foto).

Come se tutto il nudo fosse pornografia.

Come se mettessimo in scena i nostri corpi, puliti, vulnerabili, in un atto di esibizionismo e non con un significato artistico profondo.

Come se la pelle fosse superficie e quindi anche superficialità.

La cosa divertente, poi, è che chi fa queste domande mica le fa perché ha mai visto uno spettacolo di Ferai in cui c’era del nudo. Ovviamente no. Ovviamente è tutto per sentito dire. Sentito dire da altri che non hanno visto nulla. In un parlare, parlare, parlare, continuo, privo di basi e contenuti.

Perché chi invece ha visto e vissuto questi spettacoli, ha capito la necessità del corpo di mostrarsi senza maschera, senza finzioni, puro in sé stesso. Perché chi ha visto e vissuto questi spettacoli ha capito dove c’era fragilità e dove invece c’era condanna, dove c’era provocazione e dove c’era dolcezza.

“E quindi lavori con Ferrai?”

“Eh, sì.”

“Ah! State preparando qualcosa?”

“Uno spettacolo molto bello, si chiama ¡FeRAiExTr4vaGanzA!

“Ma… siete nudi?”

“Sì. Faccio vedere le tette. Così, senza motivo. Curioso, eh?”

Ilenia Cugis

Dire addio a un personaggio (di Roberta Mossa)

Una sensazione che non passa mai (anche dopo tanti anni di teatro) è la nostalgia del personaggio dopo la fine dello spettacolo: come se fosse un addio. E anche questa volta è andata così… ma partiamo dall’inizio.

Quest’anno avevo deciso di vincere un limite che sentivo di avere da molto tempo, la paura della carta bianca e della libertà creativa, quindi mi sono iscritta alla classe Abadia, il corso di teatro performativo di Ferai. È stato amore già dalla prima prova, le immagini e i suoni che ti arrivano senza pensarci su, la libertà della ricerca che non faceva più paura, anzi! Una bella esperienza, interessante e stimolante… Ma sentivo che mancava qualcosa.

Poi Ga’ e Andrea mi hanno chiesto se volevo partecipare allo spettacolo dell’Odeon (“Wonderful Oz”) per una sostituzione (un’allieva incasinata con un viaggio di studio non ci sarebbe stata nella data dello spettacolo). Classe nuova, persone nuove, un testo mai visto prima, scarse possibilità di successo…. Why not?!

Mi sono detta: “No va beh, non ce la posso fare. Ma potevano chiamare Giulia Maoddi, no? Io sono incasinata… poi mi conosco, faccio mille cose e non riesco a fare bene niente… e metti che trovo un lavoro nel frattempo? No, non se ne parla neanche. Ora lo dico a Ga.”

Cinque minuti dopo:

“Pronto Ga? Sì certo, molto volentieri. Sì, sì, assolutamente! No ma stai scherzando, che figata il mago di Oz, non vedo l’ora di farlo. Sì ok, ok va bene. Ci vediamo stasera. Anzi no, stasera non lo so, che mi sa che sono ancora a Sant’Antioco. Oh, ma dalla prossima prova ci sono eh, stai sicuro. Va bene, cià!”.

Perché? È semplice. È il fascino di un nuovo personaggio da conoscere, da interpretare, la curiosità di sapere chi è, come vede il mondo, sentire nuovi suoni, profumi, atmosfere… è la tentazione di affrontare una nuova sfida, il fascino dell’ignoto. Tutte le persone che fanno teatro sanno che è la parte più interessante. C’è tanta creatività nell’interpretare un personaggio all’interno di un copione. E in qualche minuto mi sono resa conto di quanto mi fosse mancato.

Arrivo alla prima prova con l’Odeon alla Silvery Fox Factory, in punta di piedi, con l’idea che andavo per fare le mie prove, restare concentrata il più possibile per non disturbare la concentrazione del gruppo e andarmene. Invece i miei compagni di scena mi hanno fatta sentire subito a mio agio e trascinata nel simpatico caos dell’Odeon. Non ci si prende troppo sul serio, si accettano tutti, il loro carattere e le loro paure, si può lavorare con i veterani e con chi è alla prima esperienza, con i giovani e con i meno giovani. In un percorso di laboratorio anche il lato umano è importante, e le persone ti sorprendono sempre, sia in negativo che in positivo. Ho lavorato in un clima molto inclusivo, col morale sempre alto, e così di prova in prova si è creato il mio caro Spaventapasseri senza cervello: convinto di essere stupido, solo perché ha scelto di vedere il mondo con la curiosità di un bambino, libero dagli schemi di comportamento precostituiti, libero dal suo ego, dai preconcetti, dall’idea dell’apparire di fronte agli altri. Sempre in cerca di nuove prospettive con cui guardare il mondo: a testa in giù, attraverso l’oliatore, con la lente di ingrandimento su qualsiasi cosa che attiri la sua attenzione. Disinteressato e senza calcolo nell’amicizia, pronto a conoscere nuove persone. Il cervello, ovviamente, lo aveva! È stato bello farlo vivere sul palco.

Dopo che sfuma l’adrenalina pura dello spettacolo, torna quella sensazione di nostalgia che non passa mai, neanche dopo anni di teatro, dopo che ci fai l’abitudine.

Roberta Mossa

L’odore del teatro

Appena apro gli occhi realizzo che è il 15 febbraio, mi viene da sorridere, ci siamo , mi sento bene, sono pronta. Poco dopo arriva Iris che esordisce: “Mamma oggi è il grande giorno, sono felice e non mi sento per niente agitata”.

Io e Iris abbiamo avuto la grande opportunità e il privilegio di frequentare la Classe Abadìa di Ferai Teatro insieme: un’avventura pazzesca, io e lei che nella vita di tutti i giorni abbiamo due ruoli per natura molto diversi, distanti, viviamo la vita con emozioni e problemi diversi ma che lì a teatro invece ci troviamo sullo stesso piano, a parlare degli stessi argomenti, pervase della le stesse emozioni, abbiamo lo stesso maestro, gli stessi compagni, ci rechiamo nello stesso luogo. Parità assoluta.

Il fantastico mondo dei grandi e Iris è assolutamente rapita da tutto ciò.

Le lezioni sono “fuori dagli schemi” e questo appaga la sua fantasia da bambina, per lei il teatro è un luogo dove tutto è ammesso quasi non ci fossero regole o perlomeno le “solite regole” a cui deve far fronte quotidianamente. Il suo entusiasmo cresce di volta in volta insieme al mio e il venerdì diventa l’obiettivo della settimana tanto da iniziare a contare i giorni che mancano al prossimo venerdì già subito dopo la lezione.

Per puro caso ci siamo trovate a teatro insieme, diventiamo più complici che mai frequentiamo assiduamente senza mancare neanche ad una lezione nonostante io lavori, viva e faccia teatro in tre città molto distanti tra loro, mi faccio in quattro per non mancare di venerdì a lezione perché si sta troppo bene, è un momento per noi, fuori da tutto e tutti, ci fa bene, e quando usciamo ci sentiamo cariche e pronte a tornare con più serenità alla solita routine quotidiana.

Abadìa sa di buono e ha il profumo di una torta appena sfornata, quel profumo dolce che ti rassicura e ti fa sentire a casa! Preparo gli abiti di scena e tutto il materiale che occorre, ci siamo, il Teatro Massimo mi sembra enorme, è strano entrare da performer e non da spettatore , il mio primo vero palcoscenico, non ho l’ansia , mi sento inondata da sentimenti buoni, sono serena.

Sento ancora vivo l’odore di quella giornata, le creme, i trucchi , i miei compagni , anche loro profumo, sono tutti bellissimi, felici, non so chi siano fuori da lì, non so cosa fanno nella vita: abbiamo tutti vite diverse ma siamo tutti uguali, parliamo la stessa lingua del teatro e viviamo le stesse emozioni.

I trolley, le scarpe i vestiti di scena , è tutto a fantastico , i brillantini di Francesco , il fondotinta di Ennas, l’odore del parquet del palco, sento ancora vivissimi tutti questi odori nel naso, la mano di Fabrizio sulla mia spalla, la super simpatia di Dreh, il pellicciotto di Benedetta, quanti odori e quante emozioni!!!

Mentre aiuto Iris a prepararsi mi confessa di essere agitata , ma si consola da sola consapevole che la prima volta “è normale”, la bacio con tenerezza, mi sembra grande e sono orgogliosa di lei. Sul palco Ga’ da le ultime indicazioni, mi rassicura vederlo lì, mi trasmette tranquillità, ora a distanza di 4 mesi capisco cosa prova Iris quando dice di “amare” Ga’, certo lo esprime con questa parola impropria ma io capisco benissimo che cosa le trasmette, è lui che ci aperto le porte di questo nuovo stimolante mondo, e l’ha fatto con una dolcezza infinita, ci ha accolto, ha pazientato per la nostra inesperienza e ancora ha dovuto adattare le lezioni a misura di Iris che per quanto sia una bimba matura ha pur sempre 7 anni. È riuscito a fare tutto questo con la sua spontaneità, la sua pacatezza e la sua professionalità ci hanno fatto amare ancora di più il teatro e da allora io e Iris non riusciamo più a farne a meno.

Lo spettacolo è un tripudio di emozioni, mi sento bene, appagata, son pervasa da un’aura che mi fa sentire quasi un Dio, penso che è andato tutto bene, il pubblico applaude, Ga’ ci ringrazia.

Chiuso il sipario avverto una dolce sensazione di leggerezza e quasi di malinconia, sento che un ciclo è finito e nonostante sia felicissima sento già la nostalgia di quegli odori. Ci confrontiamo con i compagni, in viso hanno una luce diversa, un sorriso più disteso, sento una forte complicità che ci unisce, quella complicità di chi ha fatto un lungo viaggio e vissuto tante avventure insieme.

Il camerino ora profumo di salviette struccanti, ma io sento ancora forte forte l’odore delle emozioni, quelle vere quelle pure, quelle che sanno di un buon sentimento, un sentimento che non so neanche raccontare perché gli odori sono solo da provare, come il teatro.

Cinzia Zuncheddu

Quarantotto piedi per Cenerentola (di Ilenia Cugis)

Risultato immagini per cinderela funnySono passate 12 ore da quando “Cenerentola chi?” è andato in scena, e sento ancora l’adrenalina.
Quando fai uno spettacolo bello, è sempre così, sul palco dai tutte le tue energie, tutte le tue forze, quindi dopo è solo l’adrenalina a tenerti in piedi: a farti ridere, scherzare, dire “lo rifarei anche subito!”, quando invece è probabile che poi dormirai 10 ore e mezza di fila.

La Fenice è una classe bellissima. Sarà l’orario, sapete, dalle 21 alle 22.30, arrivano solo persone estremamente motivate a far teatro: gli indecisi a quell’ora cenano (giustamente).
Eppure si è creato un gruppo estremamente eterogeneo tra allievi alla loro primissima esperienza e “”veterani”” della scena, tra timidi ed estroversi, tra creativi e precisini, un bilanciamento perfetto dei nostri punti di forza e delle nostre debolezze, che ci ha permesso di portare un scena uno spettacolo a tutti gli effetti.

A teatro l’emozione si intromette sempre, lo sappiamo, la sala prove e il palcoscenico hanno luci, dimensioni, durezze diverse, lo sappiamo. Cambiano un po’ gli spazi, i rumori che fa il pavimento sotto di noi. Cambiano tante cose e a volte si può sbagliare una posizione, si può dire una battuta dando le spalle, ci si può schiacciare (noi d’altronde eravamo in 24), ma la concentrazione di ognuno di noi ha sopperito a tutto e abbiamo davvero completato alla grande un percorso bello, bello, bello.

Certo, non è mica tutto merito nostro, ma soprattutto dei maestri che riescono a star dietro a ventiquattro persone diverse, diversissime, dando ad ognuno il suggerimento giusto, dando ad ognuno tutto il tempo, creando scene fisiche, pantomime corali, che mica è facile mettere insieme coordinando ventiquattro teste e soprattutto quarantotto piedi! (Si è capito che eravamo in 24?)

Grazie, quindi, a tutti i Fenici per aver lavorato così intensamente, ad Andrea e Ga’, a Ferai Teatro tutta, ma anche ad ogni singolo spettatore che si è divertito con noi: Grazie!

Codice/Ferai Delbono: Onironauti, lucidi sognatori

Foto di Sabina Murru

Se si sogna da soli, è solo un sogno, se si sogna insieme è la realtà che comincia.

Abbiamo tutti le nostre macchine del tempo: alcune ci riportano indietro e si chiamano ricordi; altre ci portano avanti e si chiamano sogni. Essi sono risposte a domande che non abbiamo ancora capito come formulare. La scorsa estate Ignazio ci ha lasciati ed è stato automatico drammatizzare l’avvenimento, cristallizzarlo in uno spettacolo (ne abbiamo parlato qui) ma non volevamo focalizzarci su questo: avevamo voglia e bisogno di evadere dalla realtà, svagarci e fantasticare come nei sogni, ma guidandoli, decidendo che i nostri sogni sarebbero stati scelti da noi.

In scena tra gli altri c’è Silvia che in un esercizio di improvvisazione ha detto:

Sono contenta perché nei miei sogni posso fare tutto: anche far resuscitare Ignazio usando la bacchetta di una fata”

Abbiamo quindi capito che tutte le cose che abbiamo amato, chiedono aiuto nei nostri sogni. Abbiamo realizzato che avremmo dovuto comunque ripartire dalla morte di Ignazio per poter andare avanti, tutti insieme.

Ci sono immagini che non sono fatte per la luce: certi sogni lo sanno.

Abbiamo costruito ogni scena sulla pelle degli interpreti cercando di farli guida del messaggio: Ferai Teatro e Codice Segreto presentano “Onironauti, lucidi sognatori” scritto e diretto da Ga&Andrea Ibba Monni per Codice/Ferai, in scena alla Silvery Fox Factory sabato 22 giugno 2019.

Fai bei sogni. Anzi, fateli insieme. Insieme valgono di più.

 

Codice/Ferai Platel: La battaglia delle bestie ferite

Foto di Sabina Murru

Passavi le tue giornate senza parlare e ci hai lasciati senza parole.

Quando una creatura viene strappata via da questa vita, noi non possiamo fare altro che prenderne atto e andare avanti sperando di essere in grado di convertire il dolore in Arte: è un nostro diritto, è il nostro dovere, è la nostra salvezza.

Caro Ignazio, abbiamo provato a cercare quel “Codice Segreto” in sala prove e poi sul palcoscenico, sei stato generoso e ti ricorderemo sempre, per sempre.

L’estate scorsa sei andato via all’improvviso e subito ci è parso necessario lavorare con coraggio a un laboratorio che entrasse dentro le corsie e le camere d’ospedale: è nato spontaneo e urgente “La battaglia delle bestie ferite” che abbiamo costruito insieme ai partecipanti al laboratorio di teatro integrato “Codice/Ferai Platel” e che andrà in scena in doppia replica domenica 23 giugno alle 18 e alle 20 presso la Silvery Fox Factory.

Non è la storia di un ospedale bensì le storie di chi lo abita.

Ecco uno stralcio del copione che racconta al meglio il progetto:

Voglio sentirmi libero di parlare di cose tristi. Non c’è niente di male, anche se tutti continuano a dire che bisogna stare su e pensare positivo, anche se tutti abbiamo assimilato il concetto che qualunque cosa succeda la vita va avanti. Voglio potermi lamentare del fatto che esistono troppe indicazioni per cercare di vivere bene, ma nessuna per stare male nel modo che più mi piace.

Ogni tanto vorrei che anche altre persone insieme a me s’innamorassero di un silenzio a tempo indeterminato.

Vorrei poter dire, lo dirò adesso, che non mi manchi, ma che avrei tanto voluto mancarti. Vorrei e ti dico, che non devi preoccuparti, che il tuo ricordo vive in chi ne ha bisogno e va bene così. In questi mesi ti ho tenuto a dormire sul cuore come lo spiritello di un film o di un cartone animato.

Oggi apro la finestra dentro il mio cervello, le porte scorrevoli dell’ospedale e quelle della tua messa, apro ogni porta di casa, tutte le finestre e le vie di fuga.

Non voglio pensare che rimani perché non te ne potevi andare.

Cosa vedrete#4: “Niente e così sia” (di Andrea Ibba Monni)

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Da tanti anni Ferai Teatro porta in scena spettacoli contro le discriminazioni di ogni tipo, ma la lotta contro le discriminazioni di genere e a favore dei diritti LGBT è da sempre una nostra priorità: “I monologhi della vagina”, “I monologhi del pene” e poi “PorNO gay”, “Basta che succeda!” e “Le avventure di Finocchio” tra i tanti spettacoli. Poi, due anni fa qualcosa cambia: “Se il sole muore”, segna un punto di svolta, un evento che colpisce al cuore pubblico e interpreti e che l’anno scorso ci porta a mettere in scena un prequel ideale: il controverso e discusso “Quel giorno sulla luna”, uno spettacolo divisivo che ci ha lasciato ancora qualcosa da dire. [continua dopo la foto]

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Stavolta ho chiesto a Ga’ di mettere mano ai copioni e di scrivere la drammaturgia di “Niente e così sia”, chiusura di una trilogia di spettacoli che andrà in scena a Cagliari il 28 giugno 2019, a 50 anni esatti dai Moti di Stonewall all’interno della rassegna “Ferai/Pride”*. Alla classe Odeon il compito di portare in scena qualcosa di tanto importante per Ferai Teatro. Ho chiesto a Ga’ di scrivermi che cosa sarà “Niente e così sia” e riporto fedelmente le sue parole:

Odio, paura, vergogna, questi sono i vizi capitali del mondo che è rinato, peccati mai contemplati da chi addita la lussuria, la pigrizia, l’ira. Avevo paura di quella parata, perché in realtà desideravo tantissimo poterne far parte. Così oggi marcerò per quella parte di me che aveva troppa paura e per quelli che non possono farlo, per le persone che vivono come anche io ho vissuto. Oggi marcerò per ricordare che non sono un io e basta, ma che sono anche un “noi”. Tutto è così logico e sensato nell’amore, che improvvisamente, le differenze create dal peso dei tempi, sono niente, e noi stiamo parlando del niente, di nessuna guerra, niente e così sia.

[Andrea Ibba Monni]

*nella stessa rassegna ci saranno: “Le sciroccate”, “Dionysius”, “Libera nos a malo”  e “Passioni a Villanova 2”