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Le voci di Ferai: Roberta Mossa (di Ilenia Cugis)

Intervisterò oggi, per voi, Roberta Mossa. Attrice di Ferai Teatro, ha performato durante “H168” ed è stata una delle due protagoniste dell’ultima edizione de “I Monologhi della Vagina”. Roberta non è una gran espansiva, a freddo, ma basta toccare le corde giuste e scoprirete, insieme a me, quanto diventi chiacchierona! Intanto, se non la conoscete, di lei posso dirvi che l’ho vista mangiare una rapa rossa in scena, mentre il succo della rapa le colava lungo il braccio in maniera estremamente sensuale. Alcune volte ho pensato che Roberta fosse troppo bona per fare teatro (mi distraggo a guardarla!), d’altra parte la trovo invece così brava che sarebbe proprio un peccato non lo facesse. Se l’avete conosciuta durante gli Open Mic nei panni di Suor Michelina (foto), capite cosa intendo. Ok, era una pessima battuta. Beh, che dire, buona lettura!

 

Ciao, Roberta! Innanzitutto grazie per aver accettato di passare dalla parte dell’intervistatore a quella dell’intervistato! Come al solito ti chiedo di parlarci un po’ di te, presentati ai nostri lettori.

Ciao Ile, grazie a te per l’intervista! Allora, questa è la parte più difficile. Ho 28 anni, sono nata e cresciuta a Cagliari, sono laureata in Giurisprudenza, il futuro è un po’ incerto soprattutto dopo che è scoppiata una pandemia globale, un po’ come tutti, credo. Vorrei trovare un lavoro che mi permetta di conciliare la passione per l’arte e nello specifico il teatro con quello che ho studiato per anni, ci sto lavorando diciamo!

Come ti sei avvicinata al mondo dell’arte e poi, nello specifico, al teatro?

Praticamente da subito. Da bambina disegnavo ovunque, quaderni, album, libri e persino sui muri, scrivevo storie e volevo diventare una scrittrice. Volevo pubblicare il primo libro a 9 anni ma il tempo passava e non riuscivo a finire il romanzo… Vorrei ritrovarlo, chissà che avevo scritto! Poi c’è stata l’adolescenza di mezzo e mi sono persa un po’. Ho abbandonato le “ambizioni” artistiche, anche se ho fatto il Conservatorio, ma è un po’ come se anziché sviluppare le attitudini artistiche mi avesse abituato al pensiero strettamente logico e ho perso completamente la creatività. Per la cronaca, ero una violoncellista che in realtà voleva essere violinista… Poi quando avevo 22 anni ho sentito parlare di Ferai. Stavo pensando da un po’ di tempo che mi sarebbe piaciuto provare a fare teatro, ero molto timida e sarebbe stata una bella sfida. Quindi ho convinto la mia migliore amica Ilaria a provare il corso di Ferai e ci siamo ritrovate ogni martedì e giovedì in via Ada Negri, e da quel momento non ho più smesso.

Ci dici che avevi 22 anni… quindi correva l’anno…?

2013/2014, l’esito scenico era “Goethe – Faust

Il Faust, andato in scena al teatro La Vetreria, vero? Me lo ricordo molto bene, ero tra il pubblico!

Sì, ricordi bene!

Ci racconti le tre cose più difficili che hai dovuto superare a teatro?

Innanzitutto la paura del giudizio, l’onnipresente giudizio che ti blocca e ti fa avere sempre paura di sbagliare. E non solo il giudizio degli altri, proprio il tuo. Liberarsi dall’ansia di categorizzare tutto quello che fai in giusto o sbagliato, bene, male, mediocre, così così… Che poi associ anche a te stesso queste categorie, cioè se sbagli o se fai male una cosa vuol dire che sei tu incapace e che non vali abbastanza. E invece il vero errore è non fare niente per paura. Andrea e Ga’ mi dicevano sempre che “l’unico errore è non fare” quando all’inizio non volevo fare le cose, tipo “oggi guardo e basta così capisco”, “no, questa cosa non me la sento di farla” e così via. Bene, hai sbagliato e sei ancora vivo, visto? Cioè dovrebbe essere una cosa scontata, ma per me non lo era affatto in quel periodo. Poi la paura di stare al centro della scena, mi nascondevo sempre un po’. Questo per “Habeas Corpus” soprattutto, avevo un personaggio, Anna, che era una super diva, la odiavo moltissimo! (uno degli spettacoli in cui Roberta era così bella da distrarmi, ndr) Si trattava praticamente di mettere da parte me stessa e lasciar agire il personaggio. E poi ultimamente sto cercando di prestare attenzione ai dettagli, niente approssimazione, ma precisione in tutto, soprattutto nei movimenti in scena.

All’inizio, quando ti sei presentata, ci hai raccontato che da bambina sognavi di fare la scrittrice. Ora vorrei chiederti se la passione per la scrittura ti è rimasta e se il teatro in qualche modo ti dà la libertà di continuare a coltivare anche quel “vecchio” sogno.

Sento che non è ancora il momento per scrivere qualcosa di totalmente mio, non so esattamente perché. Però sarebbe bellissimo scrivere un copione. Per ora abbiamo iniziato un esperimento di scrittura collettiva con lo staff di Ferai, finora è stato molto interessante.

Di cosa si tratta questo esperimento di “scrittura collettiva”? Come hai avuto l’idea?

Nasce per caso da una chiacchierata con un amico, eravamo in Marina e stavamo parlando di cosa fare “da grandi” e ci siamo resi conto di trovarci in una situazione molto simile, quella di andare avanti senza sapere bene dove e perché. Quindi ci siamo chiesti se fosse davvero un problema solo nostro, e abbiamo iniziato a dire “anche Tizio ha questo problema, anche Caia in realtà, solo che lei se la vive bene, pensa che la flessibilità sia un’opportunità” e così via, nel senso, secondo noi è una situazione abbastanza comune. E pensandoci ancora meglio, dopo, non è solo precarietà lavorativa, è precarietà su tutti i fronti, emotiva, relazionale, ognuno a suo modo, quindi esistenziale dovrebbe essere la definizione giusta. Se il teatro in qualche modo deve essere attuale, contemporaneo, beh potrebbe raccontare questa condizione, questo senso di smarrimento, dell’impossibilità di controllare tutto e dell’imprevedibilità della vita. E siccome risentiamo molto della mancanza di una comunità, nel senso che devi sempre cavartela da solo a prescindere dagli strumenti a disposizione, viviamo nel mito dell’auto-realizzazione, dell’esaltazione dell’ego ecc ecc, ho pensato che sarebbe stato bello che questo copione lo scrivessimo in gruppo. È bello anche investire le proprie energie in qualcosa che appartenga a tutti e non a me stessa e basta, credere negli altri oltre che in se stessi.

Così, in sei, abbiamo avviato una fase di ricerca libera da condividere con gli altri. Se uno di noi trovava un film interessante sul tema lo consigliava a tutti, stesso discorso per libri, opere d’arte visive, articoli di giornale, qualsiasi cosa. In particolare ci siamo concentrati su interviste a persone che secondo noi avevano una storia interessante, perché volevamo prendere spunto dalla realtà, soprattutto in casi particolari, per esempio abbiamo deciso di affrontare il problema della precarietà nelle disabilità, non volevamo una rappresentazione edulcorata del disabile ma un ritratto psicologico vero per creare un personaggio, non un cliché. Quindi abbiamo raccolto tutto il materiale, lo abbiamo letto e ci siamo fatti una nostra idea dello spettacolo e dei personaggi. E poi, brainstorming per capire cosa scrivere: cioè la trama e le singole scene dello spettacolo. La storia che abbiamo creato è completamente diversa rispetto a quella che immaginavo all’inizio e sono stata molto felice di questo! E infine ci siamo affidati ognuno una scena da scrivere, alcune a due mani. Ora sto rivedendo il copione, sto tagliando e sintetizzando, questo lavoro deve farlo una sola persona perché è più pratico. Tutto ci sto tagliando! Che bello!

Rido. Non vedo l’ora di scoprire il risultato!

Devo dire che per fortuna nel gruppo c’era chi aveva già esperienza nel scrivere copioni in 3/4 persone, altrimenti sarebbe stato più complicato! Siamo quasi alla conclusione, te lo prometto. Adesso, Roberta, ci descriveresti la tua esperienza in “H168” usando solo 12 parole?

H168”! Follia, intensità, fiducia, empatia, rischio, ansia, follia al quadrato, scala rot… Ehm. Euforia, tristezza, paranoia, silenzio, intimità, concentrazione.

Grazie mille Roberta, è stata una chiacchierata molto interessante! Prima di congedarci, un’ultima domanda: Se la tua vagina potesse parlare, cosa direbbe?

Ride. Questa non me l’aspettavo! La mia vagina è una tipa che ha idee progressiste ma sogna il principe azzurro, dice che spera che tutte le vagine del mondo siano felici e che godano sempre moltissimo, anzi è anche un po’ ingenua e si è candidata a “Miss Italia delle Vagine” e dice che il suo sogno è la pace nel mondo, e si augura che le ragazze smettano di fingere gli orgasmi per compiacere i partner e che inizino a conoscersi meglio quindi a masturbarsi senza vergogna e a provare piacere quando, come e con chi vogliono! Direbbe di seguire i propri istinti e ascoltare le vagine che hanno sempre ragione! Che poi… anche se si è candidata per Miss Italia, non vuole lo stesso farsi vedere in pubblico!

Una vagina che quando vuole sa essere una gran chiacchierona, come la nostra Roberta!

Ilenia Cugis

Le voci di Ferai: Raffaella Ruiu (di Roberta Mossa)

Ciao Raffaella, piccola introduzione: chi sei, di cosa ti occupi, insomma come ti presenteresti ai nostri lettori?

Ho sempre avuto un po’ di difficoltà con le presentazioni, mi sembra di dover per forza mettere un’etichetta e fissare dei paletti su chi sono. In ogni caso ci provo.

La presentazione è sempre la parte più difficile!

Mi chiamo Raffaella, ho festeggiato i miei 39 anni in lockdown ma ho la fortuna di avere persone speciali nella mia vita che lo hanno reso comunque bello. Sono socia fondatrice e lavoro per l’Associazione Codice Segreto Onlus che si occupa di attività artistiche, ricreative e di stimolo per l’autonomia individuale per giovani e meno giovani con disabilità intellettiva. Codice Segreto è la mia seconda famiglia, il mio porto sicuro, una delle cose fondamentali della mia vita. Sono curiosa, testarda, affidabile, puntigliosa e rompiscatole.

Una mia curiosità Raffaella: come e perché sei arrivata a Codice Segreto?

Codice Segreto nasce ufficialmente nel 2010 dalla volontà di un gruppo di amici, che facevano parte di un’associazione culturale che si occupava teatro amatoriale, di creare qualcosa di proprio e condividere la loro passione per il palcoscenico. Ufficiosamente nasce molto prima, nel 2008 quando alcuni di quegli amici hanno vissuto settimana intensa di volontariato durante una manifestazione sportiva con atleti diversamente abili. Quella settimana ha lasciato un segno importante nell’animo di tutti e da lì è stato più che naturale che le strade si intrecciassero fino a diventare un’unica realtà.

Quindi si può dire che la fondazione di Codice e la passione per il teatro sono andati – quasi – di pari passo?

Diciamo che prima che Codice nascesse il teatro faceva già parte della mia vita, in maniera differente. Quello che accomuna queste realtà all’interno della mia vita è sicuramente la voglia di fare sempre qualcosa di nuovo, di salire un altro gradino. Con tutta l’ansia, la paura e i pensieri che questo comporta nella mia mente fin troppo sincronizzata con la routine quotidiana. La novità è fonte di effervescenza, ma anche di preoccupazione, sempre.

La cosa più bella del tuo lavoro?

Credo la certezza di sapere che avrò sempre qualcuno accanto, nei momenti felici, come in quelli tristi, nelle scelte e nei tentennamenti. E gli sguardi, quegli occhi che ti scandagliano dentro in venti secondi senza darti il tempo di nascondere niente. E gli abbracci, quelli che ora mi mancano.

Ecco, come ve la siete cavata col lockdown? I ragazzi l’hanno vissuta bene, siete riusciti a continuare le attività?

È stato un po’ difficoltoso. Alcune attività si sono necessariamente dovute interrompere perché comportano le necessità di una presenza fisica, altre sono continuate con i metodi telematici a disposizione: ci sono state e ci sono attività didattiche, attività di supporto e di ascolto, videochiamate multiple e infinite, dirette facebook, messaggi… insomma, tutto ciò che può servire perché i progressi ottenuti durante tutto l’anno non vadano persi e per continuare ad essere presenti nonostante la lontananza fisica forzata.

E invece riguardo il teatro qual è lo spettacolo di Ferai che hai amato di più? Io personalmente ho adorato Ada in “Maria Gratia Plena” e anche in “Libera nos a malo” ma scommetto che è stato anche il tuo preferito!

Ada Lobina è certamente un personaggio che, una volta incontrato, ti rimane attaccato addosso, si ruba un pezzetto della tua anima, quindi si, posso dire che “Maria Gratia Plena” e “Libera nos a malo” siano gli spettacoli a cui sono più legata. Però c’è un altro spettacolo a cui sono particolarmente legata, “Silvery Fox”, per la libertà assoluta con cui l’ho vissuto e per tutti i rimandi che si è portato dietro e che ritornano, sempre.

Hai affrontato l’esperienza di fare la regia de “La Passione che ha salvato il mondo”. Com’è stato? Cosa consiglieresti a chi decide per la prima volta di fare la regia di uno spettacolo?

Una regia è sicuramente impegnativa e mette in campo energie e metodologie totalmente diverse da quelle che si utilizzano da “semplice” attore. Devi trasformare tutte le immagini, le sensazioni, gli odori, i movimenti che hai nella tua testa in qualcosa che possa suscitare le stesse emozioni in chi guarda. L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di buttarsi, di non aver paura di tentare e poi correggere di prova in prova le intuizioni avute, in base a ciò che si crea quando le diverse anime che lavoreranno a quello spettacolo si incontrano. Inizialmente ero spaventata all’idea, ma poi piano piano tutto si è sciolto, anche grazie agli splendidi colleghi con cui ho avuto la fortuna di lavorare.

Hai in programma di scrivere qualcosa di tuo?

Scrivere mi è sempre piaciuto. Per il momento ti dico di no, ma in futuro, chissà…

Roberta Mossa 

Le voci degli artisti: Alberto Rizzi (di Andrea Ibba Monni)

Ogni giorno che ho passato in teatro mi sono sentito fortunato.”

Secondo l’autobiografia sbarazzina (che si può leggere qui) Alberto Rizzi fonda a 18 anni la casa di produzioni teatrali e cinematografiche Ippogrifo Produzioni dopo aver completato gli studi classici, poi se ne va a Milano a diplomarsi in regia cinematografica, poi a Roma a lavorare nel cinema ma torna a Verona per fare teatro. Si definisce attore per contingenza, regista per vocazione e scrittore per passione.

Mi son messo a studiare Alberto Rizzi dopo aver ospitato nel 2017 la sua compagnia in occasione della replica cagliaritana di “Sic transit gloria mundi” (qui il trailer) ma lui non l’ho mai incontrato né abbiamo mai parlato. Beh ho scoperto che siamo molto simili: pensiamo che Milano sia abbastanza brutta, riteniamo che le donne siano fondamentali nel nostro lavoro, crediamo nell’artigianato del nostro mestiere, viviamo l’arte ogni giorno tutto il giorno.

Le differenze? Io ho fatto il Nautico e non il Liceo (anche se so più di Sofocle che di effemeridi); a me piace da morire parlare mentre lui dice di essere abbastanza schivo. Inoltre lui è simpaticissimo.

Ecco la nostra conversazione:

ANDREA IBBA MONNI – Chiedo ovviamente all’artista Rizzi, non al giovane uomo (non mi permetterei mai di fare una domanda personale dal momento che in passato hai dichiarato “Se potessi vivere nascosto lo farei”): ora che siamo tutti fermi tu che fai? Come passi le tue giornate?

ALBERTO RIZZI – Continuo con la parte del mio lavoro che posso fare da casa, del resto in quanto regista e autore buona parte del mio lavoro si svolge anche alla scrivania. Comunque non sono rimasto fermo perché durante la quarantena ho creato e realizzato la smart serie “Memorie dalla quarantena” (trovate i fantastici video sulla loro pagina Facebook n.d.r.) per cui sono impegnato su questo e sulla progettazione anche se cerco di evitare la bulimia da lavoro: un po’ di pausa ci vuole, d’altronde questo periodo non è congeniale per scrivere in realtà.

Neppure un momento di smarrimento? Un sentirsi un po’ disorientato? 

Assolutamente sì. Anzi direi che la creatività è un processo che, almeno per quanto mi riguarda, ha bisogno di stimoli, di vita, di aria. Questo periodo così nebuloso è per me nemico della produttività. Sono anche disorientato. come molti del nostro settore perché il futuro è del tutto ignoto e incerto. 

Che ne pensi del polverone nato dalle dichiarazioni di Lucia Calamaro (queste)?

Non so di che parli.

Beato te! In sostanza la nostra pluripremiata e blasonatissima collega ha lanciato un anatema contro chi potrebbe (o vorrebbe) tradurre la pandemia in espressione teatrale.

Sinceramente spero che non ci sia un eccesso di spettacoli, di film e di romanzi che parlino della pandemia.

Che cos’è “un eccesso”, scusa?

Ho solo il timore che quando torneremo in teatro ci troveremo con 200 monologhi sul covid, 82 documentari sulla quarantena… una bulimia narrativa. Come dopo l’11 settembre quando la quantità di prodotto artistico su quell’argomento fu eccessiva. Spero invece che si riesca a parlare di altro, penso che ne avremmo bisogno in primis in quanto spettatori.

Ma se io ho voglia/bisogno di scriverlo e tu pure, come si fa? Siamo già in due. E se poi ne han voglia/bisogno pure tutti gli altri?

Bella domanda… non lo so. In questo caso parlo più da spettatore che da autore.

Una domanda pesante, banale ma che voglio proprio farti è: dove/come nascono i tuoi progetti artistici?

Domanda impegnativa. Ogni progetto nasce in modo diverso. A volte i progetti nascono come una scintilla nella testa, spesso anche solo un’immagine e o un tema di cui voglio parlare. Poi se ne stanno in cassetto a volte anche per anni, in attesa che il momento diventi propizio per sbucare fuori. Poi di solito è sempre qualcosa di esterno che li mette in moto: una necessità produttiva o distributiva o perché è il momento giusto per fare quello spettacolo.

Ti interroghi mai sul perché fai teatro?

A dire il vero raramente me lo domando. Lo vivo come un mestiere ed è l’unico che so fare. E poi non potrei rinunciare al divertimento nei camerini!

Hai dichiarato “io sono un regista, non faccio il regista” e anche in questo la pensiamo allo stesso modo. Ma  adesso ti faccio una domanda che odio mi si rivolga, ma chi se ne frega, facciamo un gioco, ragioniamo per assurdo: se non facessi arte cosa vorresti fare e cosa invece forse ti ritroveresti a fare?

Probabilmente se non facessi questo lavoro, teatro o cinema che sia, credo che studierei. Studiare mi piace un sacco. Non so se ti pagano per studiare ma tanto neanche con il mio mestiere si diventa ricchi. Insomma ho la vocazione alla precarietà. Forse dovrei puntare a fare in dentista… è che guardare tutto il giorno nelle bocche delle persone mi spaventerebbe.

Quindi precario fino alla morte ma con lo stomaco forte! Ogni volta che hai potuto hai sempre speso grandi paroloni per le altre due anime di Ippogrifo Produzioni: l’attrice Chiara Mascalzoni e l’organizzatrice Barbara Baldo. Elogi che per altro non posso che condividere avendoci lavorato seppur per poco nel 2018. Ciò che ti chiedo è: ma quindi la musa è femmina?

Barbara e Chiara sono le altre due anime di Ippogrifo, non le considero le mie muse: sono piuttosto le mie collaboratrici, le mie compagne di viaggio. Chiara è un’attrice di incredibile talento e generosità, lavoriamo insieme da 10 anni e non avrei potuto realizzare certi spettacoli se non con lei. Barbara è una straordinaria organizzatrice con qualità comunicative e umane sopra la media. Sono molto fortunato ad averle incontrate: ogni giorno mi ispirano a lavorare meglio. Forse è quello che fanno le muse. Allora sì sono le muse. E sono anche donne. Io mi sempre trovato meglio a lavorare con le donne, perché completano la mia visione che inevitabilmente è maschile. Siamo una famiglia: siamo come le famiglie di Paperopoli piene di fratelli, di cugini e di zii ma neanche una mamma e un papà… siamo Qui Quo e Qua. 

E come si tengono separate le dinamiche private da quelle lavorative?

Semplice: non le separiamo. Facciamo gli spettacoli come si fa una crostata in cucina andiamo in tournée come si fa in gita, ci vogliamo bene e lavoriamo insieme. Nel lavoro ci ritroviamo e ci rispecchiamo, negli spettacoli c’è sempre un po’ di noi. Ippogrifo è una casa e anche tutti quelli che lavorano con noi, attori e tecnici, li trattiamo come se fossero parte della famiglia.

Quanto è stato vero, pure per me e tutta Ferai nel 2017! Ultima domanda: che mi dici dell’ambiente artistico veronese? 

Eheheh!

Ma non è una risposta!

Non farmi sbilanciare…

Ma io voglio che ti sbilanci!

Eheheeh!

Ma non è una risposta! Senti, se non vuoi essere shady bitchy dimmi le cose buone e non quelle meno buone, ok? 

Verona è una città bellissima.

Non ci siamo lasciati così: l’ho fatto sbottonare su un gossip che ho giurato di non rivelare ma intendo ricattarlo: Rizzi, se Ippogrifo non torna a Cagliari vendo lo scoop! 

Andrea Ibba Monni

Ippogrifo Produzioni presenta: Memorie dalla quarantena - VERONA ...

Da sinistra: Barbara Baldo, Chiara Mascalzoni e Alberto Rizzi

Fonti: Ippogrifo Produzioni; Paperblog

 

Perché e come ho iniziato a fare teatro (di Ilenia Cugis)

2008: Air Can Hurt You

È il 2008, lo spettacolo di baratto teatrale si intitola “Air Can Hurt You”, ed è il momento esatto in cui mi innamoro del teatro.

È notte. Sono in macchina con un’amica di mia madre. Guida nel buio delle strade strette della campagna di Flumini di Quartu. La macchina si ferma sulla strada. Scendo.

C’è un grandissimo cancello di metallo, grigio. Ga’ è vestito di nero, ha un cappello in mano, dal quale fa pescare alle persone un pezzo di cartoncino. Sul mio cartoncino c’è un segno di pittura blu. Vengo separata dalle persone con cui sono arrivata e insieme a qualche estraneo attraverso un giardino e arrivo in una stanza, abbastanza grande. C’è una televisione. C’è un ragazzo (Enrico Cara n.d.r.), di spalle, con ali da angelo e la schiena scoperta. La sua ombra è proiettata sul muro.

Parte un video. Le immagini sono mischiate, sovrapposte, i temi sono tanti, frammentati, iniziano si fermano ricominciano. Il video è un sogno. Poi finisce.

Siamo condotti all’esterno. Vedo che nelle altre stanze accadono altre cose. Io sono sul porticato. Un’attrice, Andreina, ha un enorme blocco di rami secchi in mano. Sembra respingere e scacciare dei fantasmi dal suo passato.

Poi, inizia qualcosa.

Che solo più tardi, scoprirò essere la “Stanza Rossa”.

Ci sono Andrea Ibba Monni e un’attrice che non conosco, che non ho mai conosciuto. Lei è mora. Ed è molto bella (Barbara Piu n.d.r.).

Il pezzo è una lotta lenta e veloce per l’amore, è violenza e tenerezza, la Stanza Rossa è complessa, complessa come la passione, la rabbia, l’affetto, la gelosia. I loro corpi si trovano e non si trovano. Lei fugge e si rifugia, lui la cerca, la prende, la perde.

Per come lo ricordo io, alla fine vincono la violenza e la gelosia. Eppure Andrea canta, perché l’amore c’è ancora.

Inizia una musica. La sento ancora dentro le orecchie, 12 anni dopo.

Restiamo nel portico, mi pare che tutto il pubblico si sia ora ricongiunto.

La musica è forte e una luce fievole si muove da dietro la casa. Sono tre candele e un ragazzo, Giacomo (Peddis n.d.r.), le tiene davanti a sé. Arriva circa davanti al portico, lo vediamo tutti. Lo vediamo contorcersi mentre le candele illuminano e scaldano punti diversi del suo corpo nudo, magro, allenato, si muove e ad ogni movimento cambia forma, il suo corpo in eterna danza con le candele.

La cera finisce di bruciare e non c’è più musica.

Sono certa che siamo tutto il pubblico ora, insieme, veniamo condotti giù dal portico, camminiamo verso il lato destro della casa, siamo nel retro del giardino. C’è qualche albero e una luce lieve. Ed è lì, sul pavimento di terra, erba e foglie secche, sui rami caduti, in mezzo a spine e cespugli, è lì, che appare Nastas’ja Filippovna.

Con le sue maschere. Con le sue gambe. Con la sua voce. Quella voce che ve lo assicuro posso sentirla nelle orecchie. Ha anche un libro in mano. Un ombrello. Teli. Mi innamoro di Nastas’ja, piango, sono scossa, ho i brividi, è il momento esatto in cui capisco che cosa significhi il teatro per Ferai. Quando il pezzo finisce il mio cuore è assetato, forse famelico, dice: “ancora, ancora”.

L’ultima scena è La Cena.

Ci sono adesso tutti gli attori intorno ad una tavola. Mangiano ravioli. Giocano con il cibo. Con le posate. Sono pericolosi coi coltelli. Si sfidano. Non vogliono mangiare, ci sono infiniti spettri di disturbi alimentari e relazioni parentali malate.

Alla fine, un primo di loro, si accorge che manca qualcuno, o qualcosa.

“Laura (Solla n.d.r.), anche l’aria può ferirti”.

La cena si scompone e gli attori cercano disperatamente ciò che manca, per tutto il grande giardino. Noi li seguiamo. La ricerca termina al cancello. Gli attori sono tutti lì, con gli occhi verso il cielo, nella notte buia.

Infine, questo è ciò che ricorda la mia mente, gli attori sono scomparsi. Nel nulla. Siamo rimasti solo noi, spettatori, davanti al cancello grigio. Insieme a Ga’, vestito di nero, con il suo grande cappello, in testa. Che ci mandava via, a casa.

“Ancora, ancora”, ripete il mio cuore estremamente confuso e affamato. Due mesi dopo ho frequentato la mia prima lezione di teatro.

Ilenia Cugis

RAPSODIA:STAMINA – frammenti (di Ilenia Cugis)

Nel silenzio della Silvery Fox Factory c’erano rumori di passi lenti e suole di scarpe che scricchiolano.

C’erano gli occhi di Andrea Ibba Monni che guarda dritto davanti a sé, sono stampati nella mia memoria.

Insieme al rito della notte.

Mentre la luce si rifletteva sulla grotta bianca di Ga’.

Ga’, ballava; davanti a lui c’era un mio amico, che piangeva. Guardava Ga’ che ballava per lui, e piangeva.

Mi fa sorridere.

C’era un sacco di cibo all’ingresso. Finché l’abbiamo rimosso. Tante tantissime banane. Banane banane e banane. Le ho portate a casa.

Arrivavo sempre di notte alla factory, quando finivo di lavorare. La luce ovattata, mi cullava. Una notte ho sentito il suono di una sedia che veniva spostata da una ragazza del pubblico. Lei ha scritto qualcosa su un quaderno e l’ha passato ad Andrea, lui ha annuito e sorriso con gli occhi, perché aveva la bocca coperta col nastro. Molto lentamente e in maniera estremamente religiosa Andrea ha messo via i chicchi di riso. Ha preso le mani della ragazza davanti a lui. Si sono toccati.

Mi piaceva guardare i chicchi di riso.

Mi piaceva guardare le mani che si toccano.

Mi sono seduta davanti a Simone con una bacinella sulle gambe. Abbiamo lavato e strizzato e bagnato e strizzato.

Mi piaceva guardare le ragazze che lo aiutavano a cucire. Tutto, ovattato, nella notte, nel silenzio, nella calma apparente.

Una notte quando sono arrivata era quasi l’una. Era già giovedì. Erano rimasti tre performer per “Democratic Schism”. Davide, Ilaria, Francesca, così stanchi che avrei avuto voglia di abbracciarli. In movimento da quattro ore, rimasti solo in tre. I corpi sfiniti. Erano molto belli. A momenti mi incantavo a fissare una di loro tre. Poi l’altro, poi l’altra.

Andrea era in piedi.

Sentivo, non so perché, che stesse in piedi nel tentativo di dare tutta la sua energia ai tre performer e beh, dopo 4 giorni qui, dentro la Factory, uno l’energia se la sarebbe voluta centellinare, mentre Andrea la stava espandendo, voleva darla, voleva inondare lo spazio, l’aria era piena di energia calma e pacifica.

Quella stessa notte, più tardi, forse intorno alle due e mezza, ho visto Andrea e Ga’ che si guardavano. Quando sono tornata a casa ho mandato un messaggio ad una mia amica e ho scritto: penso che abbiano bisogno di toccarsi, di abbracciarsi.

Ho visto tre amiche, una per volta, aiutare Ga’ nella grotta bianca. Con grandi cappelli di carta di giornale. L’ho trovato divertente ogni giorno che è capitato. I grandi cappelli di carta di giornale. Nei momenti della mia giornata di lavoro, pensavo alla grotta bianca. “Chissà come sarà quando tornerò dentro la Factory”.

Chissà come sarà.

Vorrei parlarvi di RAPSODIA:STAMINA solo che non ci riesco, ho capito che non ve lo posso spiegare. Era necessario viverlo e per ogni spettatore è stato diverso.

Ho visto le persone piangere e ridere, senza apparente motivo. Ho visto sorrisi di cera e ne ho avuto addosso uno anche io, ma la cera si scioglie, il cuore batte, il sangue scorre.

Ho visto me stessa piangere e ridere, senza apparente motivo.

C’è stata tanta pace, tanto silenzio, tanta energia.

C’è stata la vita.

C’è stata la poesia.

C’è stata l’arte.

Come si può tentare di descrivere tutto questo a parole?

C’è stata la forza di volontà dell’artista.

Ilenia Cugis

E tu come memorizzi un copione?

Risultato immagini per memory

Di seguito alcuni metodi di memorizzazione di un copione da parte di qualche allievo del laboratorio di recitazione di Ferai Teatro. Li abbiamo riassunti, alcuni uniti perché tanto simili e con pochissime (ma importanti differenze). Va detto che ognuno ha il proprio personale modo di memorizzare una parte (o dovrebbe averlo) e che quindi vi riportiamo i vari modi, ognuno valido nella misura in cui va ovviamente bene per chi lo utilizza, cercando di evidenziarne sia i vantaggi ma anche gli eventuali punti deboli.

Dopo aver sottolineato, leggo e ripeto frase per frase, man mano che vado avanti con le frasi ripeto sempre dall’inizio aggiungendo la frase nuova. Se necessario sbircio dal foglio e ripeto finché non è più necessario il foglio, cercando nel tutto di concentrarmi sul senso di quello che dico. Questo è un metodo che ha come svantaggio il fatto che le battute finali son quelle che si provano di meno.

Registrazione. Utile per correggere articolazione, respirazione, dizione, difetti di pronuncia ma potrebbe risultare arido alla lunga a livello interpretativo.

Io leggo molte volte e poi provo a ripetere pezzo per pezzo. Lo faccio davanti allo specchio per aggiungere al monologo l’espressione del viso e per tenermi composta quando parlo. Il rischio è che il controllo delle espressioni del viso tenda a sconfinare nella regia del pezzo, ma è un rischio abbastanza remoto.

Leggo e ripeto, leggo e ripeto dividendole battute in frasi e concetti, cercando di capire e interpretare pienamente ciò che c’è scritto. Bisogna poi cercare di unire il tutto in modo omogeneo in modo da non avere troppi frammenti slegati tra loro.

– Come primo lavoro di memorizzazione visiva scrivo le battute prima delle mie e poi le mie. Come secondo step di memorizzazione visiva scrivo solo la parte finale delle battute prima delle mie e poi ancora le mie. Come terzo step registro il 1 punto e ascolto varie volte e poi registro il 2 punto e ascolto varie volte. Come ultimo passo registro tutte le battute degli altri personaggi e lascio lo spazio vuoto per recitare le mie con cesure, intenzione e qualità del personaggio.

– Registro in continuazione tutto il pezzo poi ogni frase con parole mancanti poi ripeto senza ascoltare. Il rischio è che in questa sorta di “quiz” si perda subito la parte interpretativa (la parte principale dell’obbiettivo da raggiungere)

Io accento e metto le cesure alle mie battute e poi leggo e ripeto più volte cercando di memorizzare gli accenti e le cesure. Dopo mi registro prima cercando di stare attenta solo alla dizione, e poi faccio un’altra registrazione di tutte le battute cercando di fare sia dizione che interpretazione. Poi mi ascolto e ripeto prima solo in dizione e poi aggiungendo l’interpretazione. L’ideale sarebbe rendere la dizione scontata e l’articolazione della parola una norma in modo tale da bruciare i tempi e finalmente non separare il buon uso della vocalità a un buon uso del corpo che la racchiude (è come dire che si separa l’uso di una gamba dall’altra).

Registro le scene in cui son presente recitando tutti i personaggi e mi riascolto. Poi registro la scena solo con le battute degli altri personaggi e lasciando un “buco” di silenzio per le mie battute, così quando riascolto attacco e do io la battuta. Ultimo step quando son diventata bravina: recito a voce alta tutte le battute, mie e degli altri. Un procedimento lungo e laborioso che però sicuramente rende sicuro lo stare in scena ed è un allenamento sotto tanti punti di vista che però non deve togliere nulla al proprio lavoro.

Obbligo mia madre a fare tutti i personaggi e ripeto le mie battute. Prima veloce senza interpretazione e poi con sempre più intenzione. Dipendere dagli altri è sicuramente rischioso, soprattutto se “gli altri” non sono colleghi. Ma l’immagine di una madre “obbligata” all’esercizio è molto divertente.

Non ho un vero e proprio metodo. Memorizzo manco fossero un mantra i finali di battuta prima delle mie, quasi come facessero parte della mia battuta, e li ripeto ripeto ripeto. Mi aiuta molto memorizzare studiando in simultanea il personaggio, trovando una voce, un’intenzione. Diciamo che più interpreto, più mi vien facile. Ma alla base c’è ripetere ripetere ripetere. Non avere un metodo è sempre rischioso, lasciare al caso e all’ispirazione la preparazione di un lavoro è sempre negativo soprattutto perché affidarsi solo all’interpretazione, all’intenzione e alla “voce” è troppo casuale, approssimativo.

Scandisco ogni sillaba di ogni parola della frase mentre ripeto in modo neutro, acquisita un po’ di memoria vado più liscio sempre neutro, acquisita più memoria ancora ripeto velocemente sempre neutro ma usando il corpo (gesti, spostamenti) per vedere che mi viene da fare istintivamente, ultima fase quando ho buona memoria provo la scena direttamente se ho vuoti rallento e sillabo o faccio movimenti a ritroso. Corpo e voce riuniti come dev’essere. Approccio lungo ma che dà certamente una gran sicurezza. Bisogna solo far sì che il gesto istintivo lasci poi spazio alla tecnica, al rigore e all’elasticità in sala prove davanti a chi cura la regia e spazio all’azione di chi sta in scena con noi.

Cerco di memorizzare anche le battute precedenti alle mie, non esattamente, ma il senso generale. Cerco sempre di capire l’intenzione del personaggio, in modo da vivermi la scena e non avere problemi di memoria. Capire cosa si sta dicendo e perché lo si dice è certamente indispensabile.

Evidenzio in giallo la mia parte poi evidenzio con colori diversi le battute prima delle mie, per cercare di memorizzare. Leggo e ripeto diverse volte, cercando di ripetere con il copione chiuso. La memoria visiva certamente aiuta parecchio, ma non basta dal momento che ci lascia dipendere troppo dalle altre persone e dalla loro memoria.

Leggo. Ripeto prima la battuta a mente. Cerco la/le parola/e chiave delle battute. Poi le provo. Se non mi convince cambio la parola chiave. Solo per memorizzare però perché poi nell’interpretazione normalmente le parole chiave si inter-scambiano.

È importante darsi appigli, soprattutto interpretativi. Ma dopo aver memorizzato il testo bisogna lasciare libera ed elastica l’interpretazione.

Risultato immagini per memory

Doppia erre, doppie tette (di Ilenia Cugis)

L'immagine può contenere: una o più persone e scarpeLavori con FERRAI? Tratto da una, due, tre, storie vere

Ora. Io non so se il problema nasca dalla parlata Cagliaritana DOC per cui il raddoppio della R è una naturale e incontrollabile conseguenza dell’area geografica in cui viviamo, ma perché “Ferai” è così difficile da pronunciare?

È che poi mi prende anche male dover dire: “ehm, sì, per Ferai.”

E mi rispondono: “sì sì, Ferrai.”

E io: “Ferai.”

E loro: “Ferrai.”

Così, in un loop infinito.

 

La cosa poi mica finisce qui.

“E con Ferrai cosa state preparando? Siete nudi?

Oh, una non può recitare a tette di fuori una volta che poi lo farà in eterno? Forse l’1% degli spettacoli di Ferai ha avuto un tantino di nudità, eppure non si esce dal tunnel di quando, quasi 10 anni fa (DIECI!) il titolo di uno spettacolo revitava “Snuff – Pornografia allo stato impuro!” (qui alcune foto).

Come se tutto il nudo fosse pornografia.

Come se mettessimo in scena i nostri corpi, puliti, vulnerabili, in un atto di esibizionismo e non con un significato artistico profondo.

Come se la pelle fosse superficie e quindi anche superficialità.

La cosa divertente, poi, è che chi fa queste domande mica le fa perché ha mai visto uno spettacolo di Ferai in cui c’era del nudo. Ovviamente no. Ovviamente è tutto per sentito dire. Sentito dire da altri che non hanno visto nulla. In un parlare, parlare, parlare, continuo, privo di basi e contenuti.

Perché chi invece ha visto e vissuto questi spettacoli, ha capito la necessità del corpo di mostrarsi senza maschera, senza finzioni, puro in sé stesso. Perché chi ha visto e vissuto questi spettacoli ha capito dove c’era fragilità e dove invece c’era condanna, dove c’era provocazione e dove c’era dolcezza.

“E quindi lavori con Ferrai?”

“Eh, sì.”

“Ah! State preparando qualcosa?”

“Uno spettacolo molto bello, si chiama ¡FeRAiExTr4vaGanzA!

“Ma… siete nudi?”

“Sì. Faccio vedere le tette. Così, senza motivo. Curioso, eh?”

Ilenia Cugis

Dire addio a un personaggio (di Roberta Mossa)

Una sensazione che non passa mai (anche dopo tanti anni di teatro) è la nostalgia del personaggio dopo la fine dello spettacolo: come se fosse un addio. E anche questa volta è andata così… ma partiamo dall’inizio.

Quest’anno avevo deciso di vincere un limite che sentivo di avere da molto tempo, la paura della carta bianca e della libertà creativa, quindi mi sono iscritta alla classe Abadia, il corso di teatro performativo di Ferai. È stato amore già dalla prima prova, le immagini e i suoni che ti arrivano senza pensarci su, la libertà della ricerca che non faceva più paura, anzi! Una bella esperienza, interessante e stimolante… Ma sentivo che mancava qualcosa.

Poi Ga’ e Andrea mi hanno chiesto se volevo partecipare allo spettacolo dell’Odeon (“Wonderful Oz”) per una sostituzione (un’allieva incasinata con un viaggio di studio non ci sarebbe stata nella data dello spettacolo). Classe nuova, persone nuove, un testo mai visto prima, scarse possibilità di successo…. Why not?!

Mi sono detta: “No va beh, non ce la posso fare. Ma potevano chiamare Giulia Maoddi, no? Io sono incasinata… poi mi conosco, faccio mille cose e non riesco a fare bene niente… e metti che trovo un lavoro nel frattempo? No, non se ne parla neanche. Ora lo dico a Ga.”

Cinque minuti dopo:

“Pronto Ga? Sì certo, molto volentieri. Sì, sì, assolutamente! No ma stai scherzando, che figata il mago di Oz, non vedo l’ora di farlo. Sì ok, ok va bene. Ci vediamo stasera. Anzi no, stasera non lo so, che mi sa che sono ancora a Sant’Antioco. Oh, ma dalla prossima prova ci sono eh, stai sicuro. Va bene, cià!”.

Perché? È semplice. È il fascino di un nuovo personaggio da conoscere, da interpretare, la curiosità di sapere chi è, come vede il mondo, sentire nuovi suoni, profumi, atmosfere… è la tentazione di affrontare una nuova sfida, il fascino dell’ignoto. Tutte le persone che fanno teatro sanno che è la parte più interessante. C’è tanta creatività nell’interpretare un personaggio all’interno di un copione. E in qualche minuto mi sono resa conto di quanto mi fosse mancato.

Arrivo alla prima prova con l’Odeon alla Silvery Fox Factory, in punta di piedi, con l’idea che andavo per fare le mie prove, restare concentrata il più possibile per non disturbare la concentrazione del gruppo e andarmene. Invece i miei compagni di scena mi hanno fatta sentire subito a mio agio e trascinata nel simpatico caos dell’Odeon. Non ci si prende troppo sul serio, si accettano tutti, il loro carattere e le loro paure, si può lavorare con i veterani e con chi è alla prima esperienza, con i giovani e con i meno giovani. In un percorso di laboratorio anche il lato umano è importante, e le persone ti sorprendono sempre, sia in negativo che in positivo. Ho lavorato in un clima molto inclusivo, col morale sempre alto, e così di prova in prova si è creato il mio caro Spaventapasseri senza cervello: convinto di essere stupido, solo perché ha scelto di vedere il mondo con la curiosità di un bambino, libero dagli schemi di comportamento precostituiti, libero dal suo ego, dai preconcetti, dall’idea dell’apparire di fronte agli altri. Sempre in cerca di nuove prospettive con cui guardare il mondo: a testa in giù, attraverso l’oliatore, con la lente di ingrandimento su qualsiasi cosa che attiri la sua attenzione. Disinteressato e senza calcolo nell’amicizia, pronto a conoscere nuove persone. Il cervello, ovviamente, lo aveva! È stato bello farlo vivere sul palco.

Dopo che sfuma l’adrenalina pura dello spettacolo, torna quella sensazione di nostalgia che non passa mai, neanche dopo anni di teatro, dopo che ci fai l’abitudine.

Roberta Mossa

L’odore del teatro

Appena apro gli occhi realizzo che è il 15 febbraio, mi viene da sorridere, ci siamo , mi sento bene, sono pronta. Poco dopo arriva Iris che esordisce: “Mamma oggi è il grande giorno, sono felice e non mi sento per niente agitata”.

Io e Iris abbiamo avuto la grande opportunità e il privilegio di frequentare la Classe Abadìa di Ferai Teatro insieme: un’avventura pazzesca, io e lei che nella vita di tutti i giorni abbiamo due ruoli per natura molto diversi, distanti, viviamo la vita con emozioni e problemi diversi ma che lì a teatro invece ci troviamo sullo stesso piano, a parlare degli stessi argomenti, pervase della le stesse emozioni, abbiamo lo stesso maestro, gli stessi compagni, ci rechiamo nello stesso luogo. Parità assoluta.

Il fantastico mondo dei grandi e Iris è assolutamente rapita da tutto ciò.

Le lezioni sono “fuori dagli schemi” e questo appaga la sua fantasia da bambina, per lei il teatro è un luogo dove tutto è ammesso quasi non ci fossero regole o perlomeno le “solite regole” a cui deve far fronte quotidianamente. Il suo entusiasmo cresce di volta in volta insieme al mio e il venerdì diventa l’obiettivo della settimana tanto da iniziare a contare i giorni che mancano al prossimo venerdì già subito dopo la lezione.

Per puro caso ci siamo trovate a teatro insieme, diventiamo più complici che mai frequentiamo assiduamente senza mancare neanche ad una lezione nonostante io lavori, viva e faccia teatro in tre città molto distanti tra loro, mi faccio in quattro per non mancare di venerdì a lezione perché si sta troppo bene, è un momento per noi, fuori da tutto e tutti, ci fa bene, e quando usciamo ci sentiamo cariche e pronte a tornare con più serenità alla solita routine quotidiana.

Abadìa sa di buono e ha il profumo di una torta appena sfornata, quel profumo dolce che ti rassicura e ti fa sentire a casa! Preparo gli abiti di scena e tutto il materiale che occorre, ci siamo, il Teatro Massimo mi sembra enorme, è strano entrare da performer e non da spettatore , il mio primo vero palcoscenico, non ho l’ansia , mi sento inondata da sentimenti buoni, sono serena.

Sento ancora vivo l’odore di quella giornata, le creme, i trucchi , i miei compagni , anche loro profumo, sono tutti bellissimi, felici, non so chi siano fuori da lì, non so cosa fanno nella vita: abbiamo tutti vite diverse ma siamo tutti uguali, parliamo la stessa lingua del teatro e viviamo le stesse emozioni.

I trolley, le scarpe i vestiti di scena , è tutto a fantastico , i brillantini di Francesco , il fondotinta di Ennas, l’odore del parquet del palco, sento ancora vivissimi tutti questi odori nel naso, la mano di Fabrizio sulla mia spalla, la super simpatia di Dreh, il pellicciotto di Benedetta, quanti odori e quante emozioni!!!

Mentre aiuto Iris a prepararsi mi confessa di essere agitata , ma si consola da sola consapevole che la prima volta “è normale”, la bacio con tenerezza, mi sembra grande e sono orgogliosa di lei. Sul palco Ga’ da le ultime indicazioni, mi rassicura vederlo lì, mi trasmette tranquillità, ora a distanza di 4 mesi capisco cosa prova Iris quando dice di “amare” Ga’, certo lo esprime con questa parola impropria ma io capisco benissimo che cosa le trasmette, è lui che ci aperto le porte di questo nuovo stimolante mondo, e l’ha fatto con una dolcezza infinita, ci ha accolto, ha pazientato per la nostra inesperienza e ancora ha dovuto adattare le lezioni a misura di Iris che per quanto sia una bimba matura ha pur sempre 7 anni. È riuscito a fare tutto questo con la sua spontaneità, la sua pacatezza e la sua professionalità ci hanno fatto amare ancora di più il teatro e da allora io e Iris non riusciamo più a farne a meno.

Lo spettacolo è un tripudio di emozioni, mi sento bene, appagata, son pervasa da un’aura che mi fa sentire quasi un Dio, penso che è andato tutto bene, il pubblico applaude, Ga’ ci ringrazia.

Chiuso il sipario avverto una dolce sensazione di leggerezza e quasi di malinconia, sento che un ciclo è finito e nonostante sia felicissima sento già la nostalgia di quegli odori. Ci confrontiamo con i compagni, in viso hanno una luce diversa, un sorriso più disteso, sento una forte complicità che ci unisce, quella complicità di chi ha fatto un lungo viaggio e vissuto tante avventure insieme.

Il camerino ora profumo di salviette struccanti, ma io sento ancora forte forte l’odore delle emozioni, quelle vere quelle pure, quelle che sanno di un buon sentimento, un sentimento che non so neanche raccontare perché gli odori sono solo da provare, come il teatro.

Cinzia Zuncheddu

BLUFF! (di Andrea Ibba Monni e Ilenia Cugis)

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Che cosa significa “fare teatro”?

È difficile dare una risposta che possa mettere tutti d’accordo ma in questi tempi in cui (per lo meno da noi a Cagliari) sembrano esserci più artisti che fruitori d’arte, più attori che spettatori (e fatevela una domanda), vogliamo provare a dare una risposta in queste poche righe: “fare teatro” significa lavorare a teatro, affrontare il lavoro del teatrante con la stessa cura e dedizione di qualunque altro mestiere, quotidianamente, pagando le tasse dovute e facendosi pagare per il lavoro svolto.

Fare teatro” significa sposare un progetto e portarlo in scena utilizzando delle tecniche e delle competenze oggettive.

Possiamo metterci a dipingere se non abbiamo mai studiato? Certo, ma non saremo mai pittori.

Possiamo operare una persona malata non avendo mai studiato medicina? Assolutamente sì, poi ce la vedremo con la nostra coscienza, coi familiari del morto, la Polizia e con il Tribunale perché non siamo medici.

Possiamo fare teatro perché siamo simpatici e spigliati? Certo, ma non saremo mai attori, drammaturghi, registi.

Coloro che non sanno fare bene nulla e decidono di fare gli attori lo fanno con la presunzione che sia un lavoro più facile, più divertente, meno impegnativo di altri: allora creano opere mediocri, discutibili, perché credono che diversamente ad un classico lavoro “d’ufficio” al teatro non occorrano un determinato numero di ore di lavoro quotidiane.

Ogni volta che si leggono le parole “teatro”, “attore”, “spettacolo”, sotto immagini, foto, locandine, eventi che fanno accapponare la pelle, ringraziamo l’esistenza di tutte quelle Compagnie Teatrali sul nostro territorio in cui gli attori studiano, fanno training, lavorano ogni giorno e ringraziamo per le loro produzioni nuove, a volte ambiziose e a volte meno, ma comunque valide poiché recitate bene, costruite scritte e dirette con consapevolezza e autorevolezza.

Ringrazio perché in quelle compagnie ci sono interpreti e regist* che per anni hanno dedicato tante ore (a volte anche più delle otto canoniche) al giorno, ogni giorno, a studiare recitazione, dizione, danza, coreografia, canto, storia del teatro e tanto altro. L’hanno fatto e lo fanno e lo faranno con metodo, metodo, metodo.

Ringraziamo perché se il teatro ha ancora valore su quest’isola è merito di questi artisti e del loro lavoro che forma e ispira tutti gli aspiranti attori che sono pronti a lavorare sodo, come hanno fatto i loro Maestri.

Per tutti gli altri una sola parola: BLUFF!

Andrea Ibba Monni e Ilenia Cugis