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Le voci degli allievi: Jessica Mostallino

Jessica Mostallino in una foto durante le prove di “Passioni a Villanova 3”

Ciao Jessica, ti ho conosciuta Assessore alla Cultura del Comune di Assemini e ritrovata mia allieva nella Classe Kammerspiele, ma come ti presento a chi non ti conosce ancora?

Non ho mai saputo bene cosa rispondere a questa domanda, perché0 non sono molto capace a descrivermi: ho sempre paura di peccare di immodestia mentre la realtà è che crescendo ho imparato ad avere maggiore autostima.


È per questo che fai teatro?

Faccio teatro perché ho sempre avuto il “sogno” di recitare, mi sarebbe anche piaciuto fosse la mia professione ma non ci ho creduto abbastanza.

Qual è il rapporto tra cultura e politica?

Ho sempre pensato che ognuno porta ciò che è in quel che fa, nel suo mestiere e nel caso della politica anche: se fai parte di un esecutivo e hai quindi la possibilità di scegliere che cultura offrire al pubblico, le tue scelte sono fondamentali perché con queste permetti alle persone di conoscere, approfondire un aspetto piuttosto che un altro. È una grande responsabilità: sei tu a decidere letture, spettacoli e film, inevitabilmente il tuo gusto, la tua formazione e le tue conoscenze si rispecchieranno in queste scelte.

La politica è fare delle scelte, credo che per fare delle scelte consapevoli, eque, per capire le alternative tra le varie scelte, le conseguenze di quelle scelte non si possa prescindere dalla cultura. Ovviamente non si può parlare di cultura senza teatro.

Certe scelte sono anche un termometro che ti consentono di capire “chi hai davanti”. A tal proposito ricordo l’occasione che mi permise di conoscere Ferai, fu quella volta nella quale venni a vedere “I monologhi della vagina” nel piccolo teatro off che avevate a Pirri: lo spettacolo mi piacque talmente che pensai di volerlo condividere con i miei concittadini. Non sapevo se Assemini fosse pronta per la rappresentazione teatrale con quel titolo ma fui felice di vedere che sì, era pronta.

Da qualche anno sei dei nostri, sul palco e non più solo tra il pubblico: quale personaggio finora interpretato ti ha dato di più?

Britany Sarritzu che ho recitato nella terza puntata di “Passioni a Villanova 3”: brillante, piena di sé, prepotente e un po’ strega che in combutta con la sua sorellastra si divertiva a vessare Lucy Denotti. Mi è piaciuto molto interpretarlo, è il personaggio che più mi è piaciuto e forse, anche se non sono io a doverlo dire, quello la cui interpretazione mi è venuta meglio.

Lasciatelo dire da noi allora: sei stata bravissima anche perché Brittany Sarritzu non ti somiglia per niente!

N.B.O.

Le voci degli allievi: Matteo Genco

Il progetto “Senilia” di Ferai Teatro nasce nel lontano 2012 come luogo di aggregazione e confronto tra over 60 che vogliono stare tra di loro a imparare e mettersi in gioco nel campo della recitazione teatrale. Tenuto a battesimo da Ga’ e Andrea Ibba Monni, il progetto viene ripreso nel 2019 e affidato a Francesca Cabiddu che con la supervisione e la direzione artistica di Ferai, firma i progetti “Santa Trofimena”, “Pinocchio” e “Il viale dei ciliegi”. Tra i vari partecipanti alla classe della terza età, Matteo Genco a cui abbiamo ricolto qualche domanda (segue dopo la foto)

Matteo, cosa possiamo dire di te per presentarti?

Ho 65 anni ed un carattere estroverso ed espansivo, sono una persona solare e con il sorriso sempre pronto a fare nuove esperienze e amicizie.

Teatro perché?

Sin da piccolo volevo fare del teatro ma per vari motivi non ho mai avuto l’opportunità di frequentare una scuola di teatro. Quando mia cognata mi ha invitato a partecipare al corso “Senilia” di Ferai Teatro mi è sembrato di poter realizzare il mio sogno ed ho accettato con tanto entusiasmo.

Un entusiasmo contagioso! Quanto influisce l’età sulla recitazione a tuo parere?

Per me l’età anagrafica non è rilevante in quanto ritengo che si possa fare teatro a qualunque età.

E condividi questa esperienza con moglie e cognata…

È una bella esperienza che tutti noi condividiamo piacevolmente.

Lo spettacolo del cuore in cui hai recitato fino ad ora?

È stato quello della mia prima esperienza, la prima volta che ho calpestato le assi di un palcoscenico teatrale con la recita “Santa Trofimena” che mi ha permesso di realizzare quel sogno che avevo sin da bambino.

N.B.O.

Le voci di Ferai: Ilenia Cugis (di Roberta Mossa)

Ciao Ilenia, parlaci un po’ di te: chi sei, come e quando nasce la tua passione per il teatro.

Ciao, Roberta! Mi chiamo Ilenia e ho 29 anni. Sono cresciuta in un paese piccolo e brutto che si chiama Capoterra, ma come tutte le infanzie passate in posti piccoli e brutti, nonostante mi sia trasferita a Cagliari a 17 anni, qualcosa di quella vita mi ha segnata per sempre. Sin da bambina ho avuto un forte interesse per l’arte e la letteratura, ho scritto il mio primo romanzo a 9 anni e ho sempre disegnato e dipinto. Ho perfino suonato la batteria in un gruppo punk rock durante l’adolescenza, che tempi! Poi un giorno, dopo la separazione dei miei genitori, mia madre è stata per un periodo coinquilina di Andrea Ibba Monni, che ho conosciuto nel 2006 quando io ero solo una adolescente, poco prima che lui incontrasse Ga’ e nascesse Ferai Teatro. Un pomeriggio del 2007 sono andata a vedere uno spettacolo in cui recitava Andrea, si chiamava “Voci nel Buio”, e per la prima volta assistevo a qualcosa che non fosse una di quelle commedie che ci portavano a vedere a scuola. Da lì il teatro ha iniziato a stuzzicarmi. Ma è stato il primo spettacolo di Baratto Teatrale, “Air Can Hurt You“, a Flumini, a farmi capire che c’era un buco nella mia vita che la scrittura, la pittura e la batteria non erano riusciti a colmare. Mi sono iscritta così al primo corso di recitazione di Ferai.

Il tuo primo personaggio teatrale?

In un laboratorio o in uno spettacolo?

Il primissimo!

Allora, il primo personaggio che ho interpretato è stato il Serpente de “Il Piccolo Principe“. Era il laboratorio nella chiesa di Santa Lucia che Andrea e Ga’ tenevano proprio agli inizi-inizi. Posso dire che ero veramente un cane e che non so cosa mi abbia fatto credere abbastanza in me da farmi continuare, perché ti giuro che il mio Serpente è stato il più triste esordio della storia.

Quanti anni avevi?

Diciassette! Era il 2008.

Piccolissima! Spero che ci siano dei reperti video!

Io spero di no!

E il tuo personaggio preferito tra quelli che hai interpretato?

Scegliere un personaggio preferito è molto difficile perché ci sono alcuni spettacoli e alcuni personaggi che ho interpretato che mi sono entrati dentro e che non sono mai più usciti. Ci sono alcuni giorni in cui apro gli occhi sul mondo ma gli occhi che apro non sono i miei, sono quelli di Medea. Ci sono notti in cui mi sveglio e sono Dorra e non riesco a dormire perché rivivo ricordi che non sono miei. Ho avuto tre profonde crisi con il teatro e con l’arte, durante la prima di queste, parlando con Ga’, gli dissi che forse il teatro non faceva per me, perché ciò che interpretavo mi si radicava dentro in maniera troppo profonda. E Ga’ mi aveva risposto “Potresti pensare che invece è proprio per questo che il teatro fa per te”.

Quindi è un lavoro molto introspettivo, e qui mi viene da chiederti, come crei un personaggio?

Innanzitutto analizzo le informazioni che ho a disposizione: il copione (se c’è un copione), il testo (se c’è un testo) e le indicazioni registiche. Comprendere il testo e comprendere le indicazioni della regia, è la base del mio lavoro. Poi si può passare alla seconda fase, quella di ricerca. Si tratta di un personaggio realmente esistito? Ne studio la vita, le opere, l’immagine. Si tratta di un personaggio della letteratura? Leggo tutto ciò che è stato scritto, cerco dipinti. E in tutto ciò, cerco chi ha già interpretato questo personaggio e studio come l’ha fatto. Il personaggio nasce proprio nella testa del mio regista e nessun altro l’ha mai creato prima? Approfondisco direttamente con il regista. La fase tre è quella di creazione vera e propria. A questo punto seguo due percorsi che devono andare di pari passo e sono strettamente intrecciati: il percorso tecnico e il percorso emotivo. Il percorso emotivo ha alla base quello che io e il personaggio abbiamo in comune, come esperienze e sentimenti, quindi è un percorso molto interiore. Il percorso tecnico mi serve per fare in modo che ciò che è interiore diventi anche esteriore, mi serve per trovare tecnicamente la voce, i movimenti, le espressioni, del personaggio, di modo che anche il pubblico capisca tutto il percorso emotivo. Se capita che io ne trascuri uno a discapito dell’altro e in quel caso, qualsiasi sia quello trascurato, il risultato è mediocre.

Un’ultima domanda Ilenia, so che stai preparando uno spettacolo (#Foodporn), mi sembra interessante questo rapporto tra teatro e cucina che so che è un’altra tra le tue passioni. Puoi raccontarci qualcosa? Senza spoiler, ovviamente!

#Foodporn nasce da un’idea di Andrea che ha reinterpretato, cambiato e riscritto alcuni aneddoti sulla mia vita e sulle mie ricette, creando un copione che io (e non solo io) ho trovato geniale fin dalla prima lettura! #Foodporn è un esperimento teatrale gastronomico, lontano dal modo in cui siamo abituati a vedere la cucina nello spettacolo, lontanissimo dai cooking show, molto vicino, invece, a quello che può succederti quando vai a casa di qualcuno che ti dice “oh no, sei arrivato così, all’improvviso! Non ho niente da offrirti!” E poi tira fuori dalla dispensa, dal frigo, dal forno, ogni genere di coccola culinaria, mentre ti racconta gli ultimi 30 anni della sua vita.

Molto figo, se non ho capito male prevede la partecipazione del pubblico che assaggerà le tue ricette… Non vedo l’ora di vederlo in scena! Grazie Ilenia per la chiacchierata, solo una piccola cosa: visto che fai parte anche del cast di FeraiExtravaganza, me lo dici almeno tu chi è la coniglia???!

Se guardi bene dentro di te, scoprirai che in fondo in fondo, la coniglia, sei proprio tu!

La mia Ferai – prima parte (di Andrea Ibba Monni)

Per sostenere la raccolta fondi a favore di Ferai Teatro in piena emergenza Covid ho registrato frettolosamente un video di tre minuti (questo qui) in cui ho cercato di contenere le mie emozioni dal momento che non sono riuscito a contenere capelli e occhiaie. Per cui eccomi qui: pettinatissimo e con un incarnato perfetto (auch! peccato non possiate vedermi eh!) ma col cuore libero da ogni ritegno. Signore e signori questa è la versione del tutto personale e inevitabilmente sentimentale di come e quando è nata Ferai Teatro nel 2007, scritta di getto, spontaneamente e come se non l’avessi già raccontata mille volte: ma questa è stata la mia prima (e fino ad oggi unica) svolta epocale di vita. Se non fosse successo tutto quel che sto per raccontarvi forse ora sarei un mediocre giornalista televisivo alla disperata ricerca del modo di partecipare a un reality qualunque.

Nel novembre del 2005 il grande Pierfranco Zappareddu mi taglia fuori dalla produzione “Nei sensi la vita” e ci resto così male che non lo sento per i sei mesi successivi finché leggo sul giornale che il suo nuovo spettacolo era stato “rimandato”. Lo chiamo, gli lascio un messaggio in segreteria in cui gli dico “se serve son qui” sentendomi Bruce Wayne che scruta il cielo di Gotham City. Una settimana dopo sono sul palco del Teatro delle Saline Akroama protagonista di “Che tu sia per me il coltello”.

Tra il pubblico un’ex attrice di Zappareddu: lei evidentemente più permalosa di me dato che non lo sentiva da vent’anni e proprio quella volta era tornata da lui. Questa ex attrice ora aveva velleità registiche e una produzione in ballo col Teatro Alkestis (tenete bene in mente questo nome) e voleva che io partecipassi al progetto. Così è stato: va in scena “Voci nel buio” nella cui produzione c’era un ragazzo di vent’anni, Ga’.

Da lì a poco ci ritroviamo a chiacchierare a lungo, decidiamo di vederci il giorno dopo e di andare in spiaggia a finire la conversazione: era l’8 luglio 2007 e per otto ore non facciamo altro che parlare stesi sulla sabbia l’uno accanto all’altro. Il giorno dopo la mia guancia destra e la sua sinistra presentano ustioni importanti, letteralmente: eravamo deturpati ma innamorati.

Ferai nasce praticamente subito: lui sta scrivendo una tesi per il DAMS di Bologna sul Baratto Teatrale dell’Odin Teatret, io lo porto da Zappareddu che si è formato in Danimarca con Eugenio Barba e che ha portato il Baratto in Sardegna. Ovviamente Pierfranco non se lo lascia scappare e insieme facciamo “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” ma questa è un’altra storia meravigliosa.

Stanchi di fare spettacoli d’altri? Forse. Più che altro con una gran voglia di fare cose nostre gli offro di partecipare come insegnante al mio laboratorio presso l’oratorio della Chiesa di Santa Lucia (ne parlerò in seguito) e scopro la generosità e la passione di un’anima più che bella. Va be’ avete capito che per me lui è tutto.

Abbiamo conosciuto la fame, la nostra spesa settimanale non superava mai i 10 euro (grazie ai migliori discount a disposizione), ci facevamo invitare spesso alla tavola di sua sorella Consuelo con una scusa o con l’altra per mangiare qualcosa di buono, lui faceva volantinaggio e ripetizioni di inglese, io facevo ripetizioni di qualunque materia (e diamine se li facevo sgobbare quegli asinelli!) ma soprattutto insieme facevamo teatro: “Sangue d’angelo” ed “Air can hurt you” i nostri primi lavori insieme.

Di seguito il dialogo accaduto per la scelta del nome della neonata compagnia:

IO – Come ci chiamiamo? Ci serve un nome!

GA’ – I nomi devono portare fortuna, dice Pierfranco…

IO – Il nome del primo spettacolo dell’Odin?

GA’ – Uhm, troppo cacofonico “Ornitofilene”

IO – Il secondo? Oddio che difficile “Min fars hus”

GA’ – Ma il terzo si chiama “Ferai

Eccoci, siamo nati. E ora volevamo fare la storia: la nostra personale, vera, lunga, tortuosa e perché no, magari quella dei libri di storia. Stiamo puntando alto? E allora miriamo alle stelle e ai pianeti se il cielo non basterà.

La storia continuerà.

Andrea Ibba Monni

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Sostieni Ferai – cos’è successo

Siamo Ferai Teatro, una compagnia teatrale attiva a Cagliari e in Sardegna dal 2007 e ci troviamo a dover affrontare un momento molto difficile a causa della pandemia che ha colpito tutto il mondo. 

Ci siamo sempre autofinanziati grazie ai progetti che abbiamo portato avanti in questi anni, non abbiamo mai percepito i contributi che la Pubblica Amministrazione dà al mondo della Cultura perché abbiamo sempre potuto contare sulle risorse guadagnate dal nostro stesso lavoro: un lavoro che ora, nostro malgrado, è fermo.

In questo periodo in tanti avete chiesto come poterci aiutare e per questo abbiamo deciso di creare una campagna di raccolta fondi, al fine di affrontare le spese del nostro spazio, la Silvery Fox Factory in via Dolcetta 12 a Cagliari: grazie al vostro aiuto potremo coprire le spese di affitto e utenze e appena possibile potremo riprendere le nostre attività e iniziare ad avviare tutti i progetti futuri (tutte cose di cui vi parleremo man mano nelle prossime settimane).

Lo staff della compagnia ha deciso di contraccambiare ogni donazione con un regalo scegliendo ed inviando di volta in volta ai nostri donatori qualcosa di noi: un copione oppure un video dei nostri spettacoli storici, o una foto di scena, regaleremo un servizio fotografico (da realizzare quando sarà possibile incontrarsi), oppure vari audio racconti, ritratti, disegni, dipinti oppure performance in live streaming con chi fa la donazione. 

Estremi per la donazione:

INTESTATARIO: Ferai Teatro;

IBAN: IT-86-W-03268-04800-052540475180;

CAUSALE: donazione da (nome e cognome)*

*Se volete avere il nostro regalo di ringraziamento dateci modo di rintracciarvi! Le donazioni non avranno tag social (se non esplicitamente richiesto) al fine di tutelare la privacy di chi dona.A

RAPSODIA:STAMINA – frammenti (di Ilenia Cugis)

Nel silenzio della Silvery Fox Factory c’erano rumori di passi lenti e suole di scarpe che scricchiolano.

C’erano gli occhi di Andrea Ibba Monni che guarda dritto davanti a sé, sono stampati nella mia memoria.

Insieme al rito della notte.

Mentre la luce si rifletteva sulla grotta bianca di Ga’.

Ga’, ballava; davanti a lui c’era un mio amico, che piangeva. Guardava Ga’ che ballava per lui, e piangeva.

Mi fa sorridere.

C’era un sacco di cibo all’ingresso. Finché l’abbiamo rimosso. Tante tantissime banane. Banane banane e banane. Le ho portate a casa.

Arrivavo sempre di notte alla factory, quando finivo di lavorare. La luce ovattata, mi cullava. Una notte ho sentito il suono di una sedia che veniva spostata da una ragazza del pubblico. Lei ha scritto qualcosa su un quaderno e l’ha passato ad Andrea, lui ha annuito e sorriso con gli occhi, perché aveva la bocca coperta col nastro. Molto lentamente e in maniera estremamente religiosa Andrea ha messo via i chicchi di riso. Ha preso le mani della ragazza davanti a lui. Si sono toccati.

Mi piaceva guardare i chicchi di riso.

Mi piaceva guardare le mani che si toccano.

Mi sono seduta davanti a Simone con una bacinella sulle gambe. Abbiamo lavato e strizzato e bagnato e strizzato.

Mi piaceva guardare le ragazze che lo aiutavano a cucire. Tutto, ovattato, nella notte, nel silenzio, nella calma apparente.

Una notte quando sono arrivata era quasi l’una. Era già giovedì. Erano rimasti tre performer per “Democratic Schism”. Davide, Ilaria, Francesca, così stanchi che avrei avuto voglia di abbracciarli. In movimento da quattro ore, rimasti solo in tre. I corpi sfiniti. Erano molto belli. A momenti mi incantavo a fissare una di loro tre. Poi l’altro, poi l’altra.

Andrea era in piedi.

Sentivo, non so perché, che stesse in piedi nel tentativo di dare tutta la sua energia ai tre performer e beh, dopo 4 giorni qui, dentro la Factory, uno l’energia se la sarebbe voluta centellinare, mentre Andrea la stava espandendo, voleva darla, voleva inondare lo spazio, l’aria era piena di energia calma e pacifica.

Quella stessa notte, più tardi, forse intorno alle due e mezza, ho visto Andrea e Ga’ che si guardavano. Quando sono tornata a casa ho mandato un messaggio ad una mia amica e ho scritto: penso che abbiano bisogno di toccarsi, di abbracciarsi.

Ho visto tre amiche, una per volta, aiutare Ga’ nella grotta bianca. Con grandi cappelli di carta di giornale. L’ho trovato divertente ogni giorno che è capitato. I grandi cappelli di carta di giornale. Nei momenti della mia giornata di lavoro, pensavo alla grotta bianca. “Chissà come sarà quando tornerò dentro la Factory”.

Chissà come sarà.

Vorrei parlarvi di RAPSODIA:STAMINA solo che non ci riesco, ho capito che non ve lo posso spiegare. Era necessario viverlo e per ogni spettatore è stato diverso.

Ho visto le persone piangere e ridere, senza apparente motivo. Ho visto sorrisi di cera e ne ho avuto addosso uno anche io, ma la cera si scioglie, il cuore batte, il sangue scorre.

Ho visto me stessa piangere e ridere, senza apparente motivo.

C’è stata tanta pace, tanto silenzio, tanta energia.

C’è stata la vita.

C’è stata la poesia.

C’è stata l’arte.

Come si può tentare di descrivere tutto questo a parole?

C’è stata la forza di volontà dell’artista.

Ilenia Cugis

E tu come memorizzi un copione?

Risultato immagini per memory

Di seguito alcuni metodi di memorizzazione di un copione da parte di qualche allievo del laboratorio di recitazione di Ferai Teatro. Li abbiamo riassunti, alcuni uniti perché tanto simili e con pochissime (ma importanti differenze). Va detto che ognuno ha il proprio personale modo di memorizzare una parte (o dovrebbe averlo) e che quindi vi riportiamo i vari modi, ognuno valido nella misura in cui va ovviamente bene per chi lo utilizza, cercando di evidenziarne sia i vantaggi ma anche gli eventuali punti deboli.

Dopo aver sottolineato, leggo e ripeto frase per frase, man mano che vado avanti con le frasi ripeto sempre dall’inizio aggiungendo la frase nuova. Se necessario sbircio dal foglio e ripeto finché non è più necessario il foglio, cercando nel tutto di concentrarmi sul senso di quello che dico. Questo è un metodo che ha come svantaggio il fatto che le battute finali son quelle che si provano di meno.

Registrazione. Utile per correggere articolazione, respirazione, dizione, difetti di pronuncia ma potrebbe risultare arido alla lunga a livello interpretativo.

Io leggo molte volte e poi provo a ripetere pezzo per pezzo. Lo faccio davanti allo specchio per aggiungere al monologo l’espressione del viso e per tenermi composta quando parlo. Il rischio è che il controllo delle espressioni del viso tenda a sconfinare nella regia del pezzo, ma è un rischio abbastanza remoto.

Leggo e ripeto, leggo e ripeto dividendole battute in frasi e concetti, cercando di capire e interpretare pienamente ciò che c’è scritto. Bisogna poi cercare di unire il tutto in modo omogeneo in modo da non avere troppi frammenti slegati tra loro.

– Come primo lavoro di memorizzazione visiva scrivo le battute prima delle mie e poi le mie. Come secondo step di memorizzazione visiva scrivo solo la parte finale delle battute prima delle mie e poi ancora le mie. Come terzo step registro il 1 punto e ascolto varie volte e poi registro il 2 punto e ascolto varie volte. Come ultimo passo registro tutte le battute degli altri personaggi e lascio lo spazio vuoto per recitare le mie con cesure, intenzione e qualità del personaggio.

– Registro in continuazione tutto il pezzo poi ogni frase con parole mancanti poi ripeto senza ascoltare. Il rischio è che in questa sorta di “quiz” si perda subito la parte interpretativa (la parte principale dell’obbiettivo da raggiungere)

Io accento e metto le cesure alle mie battute e poi leggo e ripeto più volte cercando di memorizzare gli accenti e le cesure. Dopo mi registro prima cercando di stare attenta solo alla dizione, e poi faccio un’altra registrazione di tutte le battute cercando di fare sia dizione che interpretazione. Poi mi ascolto e ripeto prima solo in dizione e poi aggiungendo l’interpretazione. L’ideale sarebbe rendere la dizione scontata e l’articolazione della parola una norma in modo tale da bruciare i tempi e finalmente non separare il buon uso della vocalità a un buon uso del corpo che la racchiude (è come dire che si separa l’uso di una gamba dall’altra).

Registro le scene in cui son presente recitando tutti i personaggi e mi riascolto. Poi registro la scena solo con le battute degli altri personaggi e lasciando un “buco” di silenzio per le mie battute, così quando riascolto attacco e do io la battuta. Ultimo step quando son diventata bravina: recito a voce alta tutte le battute, mie e degli altri. Un procedimento lungo e laborioso che però sicuramente rende sicuro lo stare in scena ed è un allenamento sotto tanti punti di vista che però non deve togliere nulla al proprio lavoro.

Obbligo mia madre a fare tutti i personaggi e ripeto le mie battute. Prima veloce senza interpretazione e poi con sempre più intenzione. Dipendere dagli altri è sicuramente rischioso, soprattutto se “gli altri” non sono colleghi. Ma l’immagine di una madre “obbligata” all’esercizio è molto divertente.

Non ho un vero e proprio metodo. Memorizzo manco fossero un mantra i finali di battuta prima delle mie, quasi come facessero parte della mia battuta, e li ripeto ripeto ripeto. Mi aiuta molto memorizzare studiando in simultanea il personaggio, trovando una voce, un’intenzione. Diciamo che più interpreto, più mi vien facile. Ma alla base c’è ripetere ripetere ripetere. Non avere un metodo è sempre rischioso, lasciare al caso e all’ispirazione la preparazione di un lavoro è sempre negativo soprattutto perché affidarsi solo all’interpretazione, all’intenzione e alla “voce” è troppo casuale, approssimativo.

Scandisco ogni sillaba di ogni parola della frase mentre ripeto in modo neutro, acquisita un po’ di memoria vado più liscio sempre neutro, acquisita più memoria ancora ripeto velocemente sempre neutro ma usando il corpo (gesti, spostamenti) per vedere che mi viene da fare istintivamente, ultima fase quando ho buona memoria provo la scena direttamente se ho vuoti rallento e sillabo o faccio movimenti a ritroso. Corpo e voce riuniti come dev’essere. Approccio lungo ma che dà certamente una gran sicurezza. Bisogna solo far sì che il gesto istintivo lasci poi spazio alla tecnica, al rigore e all’elasticità in sala prove davanti a chi cura la regia e spazio all’azione di chi sta in scena con noi.

Cerco di memorizzare anche le battute precedenti alle mie, non esattamente, ma il senso generale. Cerco sempre di capire l’intenzione del personaggio, in modo da vivermi la scena e non avere problemi di memoria. Capire cosa si sta dicendo e perché lo si dice è certamente indispensabile.

Evidenzio in giallo la mia parte poi evidenzio con colori diversi le battute prima delle mie, per cercare di memorizzare. Leggo e ripeto diverse volte, cercando di ripetere con il copione chiuso. La memoria visiva certamente aiuta parecchio, ma non basta dal momento che ci lascia dipendere troppo dalle altre persone e dalla loro memoria.

Leggo. Ripeto prima la battuta a mente. Cerco la/le parola/e chiave delle battute. Poi le provo. Se non mi convince cambio la parola chiave. Solo per memorizzare però perché poi nell’interpretazione normalmente le parole chiave si inter-scambiano.

È importante darsi appigli, soprattutto interpretativi. Ma dopo aver memorizzato il testo bisogna lasciare libera ed elastica l’interpretazione.

Risultato immagini per memory

Doppia erre, doppie tette (di Ilenia Cugis)

L'immagine può contenere: una o più persone e scarpeLavori con FERRAI? Tratto da una, due, tre, storie vere

Ora. Io non so se il problema nasca dalla parlata Cagliaritana DOC per cui il raddoppio della R è una naturale e incontrollabile conseguenza dell’area geografica in cui viviamo, ma perché “Ferai” è così difficile da pronunciare?

È che poi mi prende anche male dover dire: “ehm, sì, per Ferai.”

E mi rispondono: “sì sì, Ferrai.”

E io: “Ferai.”

E loro: “Ferrai.”

Così, in un loop infinito.

 

La cosa poi mica finisce qui.

“E con Ferrai cosa state preparando? Siete nudi?

Oh, una non può recitare a tette di fuori una volta che poi lo farà in eterno? Forse l’1% degli spettacoli di Ferai ha avuto un tantino di nudità, eppure non si esce dal tunnel di quando, quasi 10 anni fa (DIECI!) il titolo di uno spettacolo revitava “Snuff – Pornografia allo stato impuro!” (qui alcune foto).

Come se tutto il nudo fosse pornografia.

Come se mettessimo in scena i nostri corpi, puliti, vulnerabili, in un atto di esibizionismo e non con un significato artistico profondo.

Come se la pelle fosse superficie e quindi anche superficialità.

La cosa divertente, poi, è che chi fa queste domande mica le fa perché ha mai visto uno spettacolo di Ferai in cui c’era del nudo. Ovviamente no. Ovviamente è tutto per sentito dire. Sentito dire da altri che non hanno visto nulla. In un parlare, parlare, parlare, continuo, privo di basi e contenuti.

Perché chi invece ha visto e vissuto questi spettacoli, ha capito la necessità del corpo di mostrarsi senza maschera, senza finzioni, puro in sé stesso. Perché chi ha visto e vissuto questi spettacoli ha capito dove c’era fragilità e dove invece c’era condanna, dove c’era provocazione e dove c’era dolcezza.

“E quindi lavori con Ferrai?”

“Eh, sì.”

“Ah! State preparando qualcosa?”

“Uno spettacolo molto bello, si chiama ¡FeRAiExTr4vaGanzA!

“Ma… siete nudi?”

“Sì. Faccio vedere le tette. Così, senza motivo. Curioso, eh?”

Ilenia Cugis

Dire addio a un personaggio (di Roberta Mossa)

Una sensazione che non passa mai (anche dopo tanti anni di teatro) è la nostalgia del personaggio dopo la fine dello spettacolo: come se fosse un addio. E anche questa volta è andata così… ma partiamo dall’inizio.

Quest’anno avevo deciso di vincere un limite che sentivo di avere da molto tempo, la paura della carta bianca e della libertà creativa, quindi mi sono iscritta alla classe Abadia, il corso di teatro performativo di Ferai. È stato amore già dalla prima prova, le immagini e i suoni che ti arrivano senza pensarci su, la libertà della ricerca che non faceva più paura, anzi! Una bella esperienza, interessante e stimolante… Ma sentivo che mancava qualcosa.

Poi Ga’ e Andrea mi hanno chiesto se volevo partecipare allo spettacolo dell’Odeon (“Wonderful Oz”) per una sostituzione (un’allieva incasinata con un viaggio di studio non ci sarebbe stata nella data dello spettacolo). Classe nuova, persone nuove, un testo mai visto prima, scarse possibilità di successo…. Why not?!

Mi sono detta: “No va beh, non ce la posso fare. Ma potevano chiamare Giulia Maoddi, no? Io sono incasinata… poi mi conosco, faccio mille cose e non riesco a fare bene niente… e metti che trovo un lavoro nel frattempo? No, non se ne parla neanche. Ora lo dico a Ga.”

Cinque minuti dopo:

“Pronto Ga? Sì certo, molto volentieri. Sì, sì, assolutamente! No ma stai scherzando, che figata il mago di Oz, non vedo l’ora di farlo. Sì ok, ok va bene. Ci vediamo stasera. Anzi no, stasera non lo so, che mi sa che sono ancora a Sant’Antioco. Oh, ma dalla prossima prova ci sono eh, stai sicuro. Va bene, cià!”.

Perché? È semplice. È il fascino di un nuovo personaggio da conoscere, da interpretare, la curiosità di sapere chi è, come vede il mondo, sentire nuovi suoni, profumi, atmosfere… è la tentazione di affrontare una nuova sfida, il fascino dell’ignoto. Tutte le persone che fanno teatro sanno che è la parte più interessante. C’è tanta creatività nell’interpretare un personaggio all’interno di un copione. E in qualche minuto mi sono resa conto di quanto mi fosse mancato.

Arrivo alla prima prova con l’Odeon alla Silvery Fox Factory, in punta di piedi, con l’idea che andavo per fare le mie prove, restare concentrata il più possibile per non disturbare la concentrazione del gruppo e andarmene. Invece i miei compagni di scena mi hanno fatta sentire subito a mio agio e trascinata nel simpatico caos dell’Odeon. Non ci si prende troppo sul serio, si accettano tutti, il loro carattere e le loro paure, si può lavorare con i veterani e con chi è alla prima esperienza, con i giovani e con i meno giovani. In un percorso di laboratorio anche il lato umano è importante, e le persone ti sorprendono sempre, sia in negativo che in positivo. Ho lavorato in un clima molto inclusivo, col morale sempre alto, e così di prova in prova si è creato il mio caro Spaventapasseri senza cervello: convinto di essere stupido, solo perché ha scelto di vedere il mondo con la curiosità di un bambino, libero dagli schemi di comportamento precostituiti, libero dal suo ego, dai preconcetti, dall’idea dell’apparire di fronte agli altri. Sempre in cerca di nuove prospettive con cui guardare il mondo: a testa in giù, attraverso l’oliatore, con la lente di ingrandimento su qualsiasi cosa che attiri la sua attenzione. Disinteressato e senza calcolo nell’amicizia, pronto a conoscere nuove persone. Il cervello, ovviamente, lo aveva! È stato bello farlo vivere sul palco.

Dopo che sfuma l’adrenalina pura dello spettacolo, torna quella sensazione di nostalgia che non passa mai, neanche dopo anni di teatro, dopo che ci fai l’abitudine.

Roberta Mossa

L’odore del teatro

Appena apro gli occhi realizzo che è il 15 febbraio, mi viene da sorridere, ci siamo , mi sento bene, sono pronta. Poco dopo arriva Iris che esordisce: “Mamma oggi è il grande giorno, sono felice e non mi sento per niente agitata”.

Io e Iris abbiamo avuto la grande opportunità e il privilegio di frequentare la Classe Abadìa di Ferai Teatro insieme: un’avventura pazzesca, io e lei che nella vita di tutti i giorni abbiamo due ruoli per natura molto diversi, distanti, viviamo la vita con emozioni e problemi diversi ma che lì a teatro invece ci troviamo sullo stesso piano, a parlare degli stessi argomenti, pervase della le stesse emozioni, abbiamo lo stesso maestro, gli stessi compagni, ci rechiamo nello stesso luogo. Parità assoluta.

Il fantastico mondo dei grandi e Iris è assolutamente rapita da tutto ciò.

Le lezioni sono “fuori dagli schemi” e questo appaga la sua fantasia da bambina, per lei il teatro è un luogo dove tutto è ammesso quasi non ci fossero regole o perlomeno le “solite regole” a cui deve far fronte quotidianamente. Il suo entusiasmo cresce di volta in volta insieme al mio e il venerdì diventa l’obiettivo della settimana tanto da iniziare a contare i giorni che mancano al prossimo venerdì già subito dopo la lezione.

Per puro caso ci siamo trovate a teatro insieme, diventiamo più complici che mai frequentiamo assiduamente senza mancare neanche ad una lezione nonostante io lavori, viva e faccia teatro in tre città molto distanti tra loro, mi faccio in quattro per non mancare di venerdì a lezione perché si sta troppo bene, è un momento per noi, fuori da tutto e tutti, ci fa bene, e quando usciamo ci sentiamo cariche e pronte a tornare con più serenità alla solita routine quotidiana.

Abadìa sa di buono e ha il profumo di una torta appena sfornata, quel profumo dolce che ti rassicura e ti fa sentire a casa! Preparo gli abiti di scena e tutto il materiale che occorre, ci siamo, il Teatro Massimo mi sembra enorme, è strano entrare da performer e non da spettatore , il mio primo vero palcoscenico, non ho l’ansia , mi sento inondata da sentimenti buoni, sono serena.

Sento ancora vivo l’odore di quella giornata, le creme, i trucchi , i miei compagni , anche loro profumo, sono tutti bellissimi, felici, non so chi siano fuori da lì, non so cosa fanno nella vita: abbiamo tutti vite diverse ma siamo tutti uguali, parliamo la stessa lingua del teatro e viviamo le stesse emozioni.

I trolley, le scarpe i vestiti di scena , è tutto a fantastico , i brillantini di Francesco , il fondotinta di Ennas, l’odore del parquet del palco, sento ancora vivissimi tutti questi odori nel naso, la mano di Fabrizio sulla mia spalla, la super simpatia di Dreh, il pellicciotto di Benedetta, quanti odori e quante emozioni!!!

Mentre aiuto Iris a prepararsi mi confessa di essere agitata , ma si consola da sola consapevole che la prima volta “è normale”, la bacio con tenerezza, mi sembra grande e sono orgogliosa di lei. Sul palco Ga’ da le ultime indicazioni, mi rassicura vederlo lì, mi trasmette tranquillità, ora a distanza di 4 mesi capisco cosa prova Iris quando dice di “amare” Ga’, certo lo esprime con questa parola impropria ma io capisco benissimo che cosa le trasmette, è lui che ci aperto le porte di questo nuovo stimolante mondo, e l’ha fatto con una dolcezza infinita, ci ha accolto, ha pazientato per la nostra inesperienza e ancora ha dovuto adattare le lezioni a misura di Iris che per quanto sia una bimba matura ha pur sempre 7 anni. È riuscito a fare tutto questo con la sua spontaneità, la sua pacatezza e la sua professionalità ci hanno fatto amare ancora di più il teatro e da allora io e Iris non riusciamo più a farne a meno.

Lo spettacolo è un tripudio di emozioni, mi sento bene, appagata, son pervasa da un’aura che mi fa sentire quasi un Dio, penso che è andato tutto bene, il pubblico applaude, Ga’ ci ringrazia.

Chiuso il sipario avverto una dolce sensazione di leggerezza e quasi di malinconia, sento che un ciclo è finito e nonostante sia felicissima sento già la nostalgia di quegli odori. Ci confrontiamo con i compagni, in viso hanno una luce diversa, un sorriso più disteso, sento una forte complicità che ci unisce, quella complicità di chi ha fatto un lungo viaggio e vissuto tante avventure insieme.

Il camerino ora profumo di salviette struccanti, ma io sento ancora forte forte l’odore delle emozioni, quelle vere quelle pure, quelle che sanno di un buon sentimento, un sentimento che non so neanche raccontare perché gli odori sono solo da provare, come il teatro.

Cinzia Zuncheddu